Da una parte ci sono i dati, che ci dicono che nel 2050 ci saranno più di 2 miliardi di persone con oltre 60 anni di età (fonte: Report IPSOS Mori Perennials), pari al 21% della popolazione totale. Con un incremento che sarà particolarmente marcato in Paesi come la Germania, il Giappone e l’Italia.
Dall’altra c’è una fortissima discriminazione e stereotipizzazione verso le persone a causa della loro età. Quella che viene definita dalla parola ageismo (adattamento dell’inglese ageism). Una discriminazione che include tutti gli esseri umani, di qualsiasi razza, sesso, religione, orientamento sessuale, di qualsiasi nazionalità o lingua, che ha fatto sì che i termini vecchio, anziano o pensionato abbiano progressivamente assunto un’accezione sempre più negativa.
Un contrasto che rende quella della vecchiaia una questione ancora tutta da risolvere. Anche Papa Francesco lo ha ribadito, inaugurando il 2022 con un ciclo di catechesi sul tema: “La vecchiaia è tra le questioni più urgenti che la famiglia umana è chiamata ad affrontare in questo tempo – ha detto -. È in gioco l’unità delle età della vita: ossia, il reale punto di riferimento per la comprensione e l’apprezzamento della vita umana nella sua interezza”.
Tra i primi italiani a portare l’ageismo nel dibattito pubblico italiano c’è Nicola Palmarini, una carriera come direttore creativo nelle principali agenzie di pubblicità, 20 anni in IBM e oggi a Newcastle alla guida dell’UK National Innovation Centre for Ageing (NICA), impegnato a sviluppare tecnologie e nuove soluzioni per promuovere l’invecchiamento in salute.
Perché la vecchiaia è un tema così importante per il futuro del genere umano?
Le parole di Papa Francesco ci aiutano a riconsiderare chi siamo come esseri umani alla luce di tutto quello che ci sta succedendo. Dovremmo cominciare a riascoltare quelli che ci fanno interpretare la vita dal punto di vista della sua ampiezza e profondità e che spesso noi diamo per scontate.
Il tema di fondo è che c’è una forte stigmatizzazione della vecchiaia e numerosi stereotipi legati ad essa. Diventa fondamentale, invece, rivalutare quello che siamo nell’arco di tutta la nostra esistenza, ribaltando la tendenza a considerare solo l’arco iniziale della vita come importante e la parte più avanzata come un periodo legato a una sorta di parcheggio dell’individuo, parcheggio dai sentimenti, dalla produttività del lavoro, dal sesso, dalla vita stessa.
Dovremmo provare a rivedere la nostra vita come un flusso che per definizione e per osservazione scientifica si è allungato. Negli ultimi 50 anni abbiamo guadagnato due anni ogni dieci, senza che noi facessimo nulla.
Ci sono due mega trend che stanno accadendo a questo pianeta: il climate change e l’invecchiamento della popolazione. Due fattori strettamente correlati, che si guardano l’uno con l’altro, sono uno specchio. Ma se il primo sembra più tecnico, il secondo ci tocca come esseri umani: ecco perché dobbiamo restituire dignità a tutte le fasi della vita, riconsiderare l’importanza di che cosa può comportare il capitale dell’esperienza e immaginare la saggezza come qualcosa che si può costruire e si può tramandare, non solo come qualcosa che si acquisisce a un certo punto e sta lì.
Che cosa ci blocca nel riuscire a considerare la vita in questo modo?
In Italia, come altrove, siamo vittime di fattore cruciale che è il concetto di pensione. In inglese l’equivalente di pensione è retirement, che la dice lunga su come abbiamo interpretato la pensione: un ritiro dalla vita. Quello della pensione non è un concetto che esiste in natura, si va in pensione per convenzione sociale. Inventato da Bismark a fine ‘800 quandol’aspettativa di vita alla nascita era di poco più di 40 anni, quel sistema ora non funziona più, è stato mantenuto ma l’aspettativa di vita è cresciuta. Ha costruito un mostro che è il mostro del debito ed è diventata un crinale politico. Siamo arrivati a un punto in cui chi vive più a lungo e rimane attivo può re-immaginare una nuova evoluzione futura.
Ha ancora senso parlare di terza età?
Non c’è più una terza età così come una quarta o una quinta età, ce ne sono almeno tante quante tu nei puoi plasmare nel tuo percorso di vita.
Vorremmo davvero vivere in salute e in forza parcheggiati da qualche parte? Forse ad aspettare di morire solo perché qualcuno ci ha classificato come entrati nella terza età?
Non si riesce a cambiare la narrativa della vecchiaia perché c’è questo monolite della pensione che spacca la tua vita in due. Di fatto quando pensi a un pensionato pensi a uno che non ha più niente da dare. Essere pensionato è quasi un insulto. Sin da piccoli ci hanno detto che saremmo andati in pensione ed è così abbiamo acquisito un costrutto sociale e l’abbiamo fatto diventare un limite alla nostra traiettoria. Pensa cosa succederebbe se non ci dessimo questo limite e ci liberassimo da quell’idea.
Nella mia esperienza ho parlato con tantissime aziende e ce ne sono molte che non manderebbero le persone in pensione se avessero gli strumenti per permettere loro di rimanere nel ciclo di vita dell’organizzazione, magari con formule diverse.
Che cos’è l’economia della longevità?
L’economia della longevità si riferisce a una serie di industrie in grado di ingaggiare – attraverso prodotti, servizi e modelli di business – individui con desideri, aspettative, visioni, necessità per nulla diverse da quelli con venti, trenta o quarant’anni di meno. E soprattutto, con due disponibilità in tasca: tempo e denaro.
È qualcosa che è nata 5 o 6 anni fa, prima non c’era, perché si pensava agli over 60 solo in termini di assistenza e di pensione. Si parlava di “bomba demografica” e di “peso sociale”.
Dobbiamo iniziare a cambiare questa narrativa, inventare una nuova finestra e l’economia della longevità la suggerisce.
Ad oggi ancora non consideriamo chi ha più di 60 anni neanche alla stregua di consumatore. Guardiamo la pubblicità destinata a questo target: colla per dentiere, poltrone reclinabili, sali-scale per ascensore. Manca quasi del tutto una comunicazione che guardi alle loro aspirazioni, come i viaggi, il divertimento o i prodotti disegnati in una certa maniera. Poi ci sono tematiche che sono ancora dei tabù, come quelle del sesso o della menopausa. L’ageismo nel mondo della pubblicità è un problema reale.
Le aziende, dunque, faticano a mettere pienamente a frutto il potenziale del mercato dei Perennials?
Assolutamente. Ci sono delle opportunità della longevity economy che vanno ancora declinate correttamente.
Anche se ci sono alcuni interessanti segni di vita. Penso alla Disney, per esempio, che sta progettando dei villaggi residenziali a tema in cui si può decidere di andare a vivere per tutta la vita. Disney sta cogliendo così la progressione demografica riuscendo a interpretare la richiesta degli appassionati del suo brand. Si è resa conto che c’è chi ha più di 55 anni ed è ancora legato al mondo di sogno che è nato con la sua infanzia, che è disposto a scegliere di vivere in luoghi come questi villaggi, anche perché ne ha la disponibilità economica. Luoghi che non sono certo dei parcheggi per anziani.
Sempre negli Stati Uniti c’è un villaggio di questo tipo dentro un campus universitario, dove parte del pacchetto sono ore di corsi universitari. Non parliamo di bricolage o di giardinaggio, ma degli stessi corsi destinati agli studenti più giovani.
Di cosa vi occupate al National Innovation Centre for Ageing?
Cerchiamo di invertire questa narrativa di cui abbiamo parlato: è un percorso difficile perché dobbiamo essere in grado di proporre nuove narrative e di farci capire dai brand. Che non è per niente semplice.
La nostra scommessa è intercettare l’innovazione, tecnologica ma anche di processo e di business model, e convincere i brand a inventare soluzioni plausibili per una demografia che cambia, facendo capire loro l’opportunità di business e di impatto sulla società.
Si potranno così ridurre i costi di accesso alle tecnologie o all’innovazione, qualsiasi essa sia, e farla diventare un mainstream senza uno stigma e di fatto anche risolvere il problema del mancato accesso all’innovazione, che è spesso troppo costosa o complicata o mal raccontata.
Operiamo trasversalmente: andiamo dalla signora che si è inventata dei sistemi per cucinare a vapore, fino alla Piaggio coi suoi robot per aiutarti a camminare. Lavoriamo con Jaguar Land Rover su come potrebbero essere i cruscotti di domani per una popolazione che invecchia, e con una multinazionale americana per trovare nuove formule utili a migliorare l’igiene orale, che poi è un tema interessante legato al morbo di Alzheimer.
Interessante il fatto che si tratti di un centro nato da un investimento iniziale del Governo britannico e dell’Università di Newcastle…
È proprio così. Un’organizzazione voluta per contribuire allo sviluppo congiunto e alla commercializzazione di prodotti, servizi e modelli di business dedicati a creare un mondo in cui tutti possano vivere meglio, più a lungo.
La pandemia ci ha un po’ bloccati ma abbiamo avuto feedback incredibili e oggi abbiamo finalmente dato una nuova accelerata, dimostrando come i robot possano davvero aiutare le persone e aiutando delle società a trasformare il loro modello di business. Per fare questo ci avvaliamo di professionisti e ricercatori provenienti da ambiti e discipline diverse, esperti di marketing, scienziati, innovatori e tecnologi che lavorano a stretto contatto con il pubblico, scambiando intelligenze, competenze e background.
E poi abbiamo VOICE (Valuing Our Intellectual Capital & Experience), una comunità di circa 8 mila persone tra Gran Bretagna e Stati Uniti, una rete internazionale di “cittadini pronti all’innovazione”. Attraverso il loro coinvolgimento ispiriamo nuove idee, costruiamo connessioni e diamo potere alle persone. Li coinvolgiamo in progetti di co-design e co-ascolto, apriamo topic e cerchiamo di capire cosa vogliono davvero, quali sono i trend.
E da queste osservazioni suggeriamo innovazioni, il miglioramento di innovazioni esistenti o l’aggregazione di cose che sono magari sparpagliate e che nessuno ha ancora messo insieme. Tutto ciò richiede una grande energia e soprattutto ambasciatori che ci aiutino a portare avanti questo discorso.
L’Italia che ruolo gioca?
In Italia facciamo ancora fatica. Sostengo da anni che il nostro Paese dovrebbe costruire un pezzo della sua strategia di innovazione sull’invecchiamento. Per un milione di ragioni: la prima è che siamo il secondo paese al mondo più vecchio dopo il Giappone, ma insieme a loro siamo anche quelli con la più ampia aspettativa di vita. Siamo abituati a vivere bene e a lungo e questo è un valore che potremmo esportare se solo capissimo che si può fare tutta l’innovazione possibile. E abbiamo tutta la conoscenza per farlo: le persone, l’ingegno, il background. Solo che ci vergogniamo. Manca la solita visione sistematica, quella che invece abbiamo per la moda e per il cibo.
Dovremmo avere il coraggio di pensare che siamo il posto in cui si può insegnare a vivere più a lungo e bene.
Dovremmo imparare a farlo e a crederci, ma nessun politico ha il coraggio di dire sì, diventiamo il paese della vecchiaia, guardiamo avanti e andiamo più in là dove c’è la più grande opportunità del nostro Paese oggi.