Il bosco di ogigia foto di gruppo

Agricoltura: nella food forest del Bosco di Ogigia

Dare energia a una agricoltura che sia espressione genuina della natura e diffonderne la cultura, percorrendo una strada partita dal giornalismo. È il percorso di Francesca Della Giovampaola che nel 2001 si trasferisce a Roma nel per lavorare come giornalista tv e nel 2013, dodici anni dopo, acquista un terreno a Montepulciano che diventerà il Bosco di Ogigia: un progetto di realizzazione e divulgazione di buone pratiche ambientali e agricole, reso realtà insieme Filippo Bellantoni, giornalista, regista e videomaker.
Food forest, permacultura, rigenerazione sono alcune delle parole chiave attorno a cui ruota questo progetto, che Francesca ci racconta.

Cos’è il Bosco di Ogigia?

È semplicemente un pezzo di terra dove c’è tanto spazio per il selvatico, per le espressioni genuine della natura. Molte piante spontanee e frequente presenza di animali selvatici ma rimane uno spazio coltivato, nel quale cerco di fare delle colture annuali ma anche di incoraggiare una determinata evoluzione, in un certo senso. La food forest, la foresta commestibile, un luogo da cui, con poco impatto lavorativo, si riesce a ricavare una molteplicità di raccolti.

Che cosa significa nel 2023 divulgare buone pratiche ambientali? 

È fondamentale. Per fortuna si è fatto un passo avanti nella consapevolezza, però c’è molta confusione su quello che sia giusto e non giusto fare. In questa fase stiamo rischiando che fare un passo indietro diventi una necessità. Fare spazio alla natura che abbiamo troppo aggredito, con nuove soluzioni tecnologiche sempre più invasive per risolvere i problemi che l’uomo stesso ha creato. La natura funziona benissimo senza di noi e dobbiamo trovare l’equilibrio tra il nostro appagamento e la libertà della natura di fare il proprio lavoro. Non possiamo continuare ad introdurre sempre più tecnologia ed invenzioni nostre per proseguire nello sfruttamento.

Filippo Bellantoni e Francesca Della Giovampaola
Filippo Bellantoni e Francesca Della Giovampaola

Essere sostenibili, la strada del buon senso

Oggi sostenibilità significa non continuare a moltiplicare le nostre esigenze energetiche automatizzando tutto, mantenendo sempre più cose che devono essere fatte dall’uomo e necessitano di energia, il limite di partenza che abbiamo, elettrica o prodotta da motori. Dobbiamo limitare tutto questo ma poi accumuliamo sempre più azioni che la richiedono e cerchiamo di salvare la natura. In realtà dobbiamo valorizzare i procedimenti naturali, perché queste cose le mettono in pratica direttamente loro con i processi vitali, quelli più efficienti. Dobbiamo trovare la strada del maggior buon senso per essere sostenibili. In fondo è la base di partenza della termocultura, che si chiedeva proprio questo: come proseguire a mantenere un benessere a cui siamo abituati senza continuare ad impattare così nella natura?

Qual è stata la tua evoluzione, in questi anni, come persona e professionista?

È stato un percorso graduale. La città, che mi ha dato tantissime opportunità di conoscenza, mi è sempre stata stretta dal punto di vista fisico. Avevo sempre bisogno di stare in ambienti molto più naturali. Roma ha tantissimi spazi verdi ma non sono veramente naturali, c’è un carico di presenza umana che non li rende mai veramente naturali. Quando penso di andare in un posto verde dove ci si sente bene penso alle zone più tranquill. Nel mio percorso di lavoro mi è capitato di iniziare ad approfondire la possibilità di coltivazione alternative, diverse dall’agricoltura base industriale ma anche dalle tecniche antiche, le quali presupponevano una grande fatica.
C’è stato un movimento che ha incoraggiato le persone a cercare di produrre del cibo senza fare troppa fatica nel rispetto della natura, un percorso di contatti e conoscenze. Tutti ingredienti che si sono mescolati. La voglia di avere uno spazio dove andare, la possibilità di coltivare del cibo. Ho sempre avuto la fortuna di mangiare cibo coltivato in campagna, mi dava la consapevolezza che fosse una cosa completamente diversa da quello che si può acquistare. Una somma di cose mi ha fatto dire: perché no? È stato un percorso di avvicinamento.

Com’è strutturata la tua giornata?

Non ho una quotidianità molto ritmata, mi devo dividere tra la terra e il lavoro digitale. Quando parti dal presupposto che vuoi trarre più cibo dalla terra hai bisogno di raccogliere, trasformare e stare al passo con le stagioni. Purtroppo, ed è una delle ragioni per cui difficilmente le persone si avvicinano alla terra, non abbiamo tempo. Mi rendo conto che, oltre a tutto quello che coltivo, ci sono tante espressioni selvatiche. Si tratta di imparare a riconoscere le erbe. Molto tempo lo riempie questo tipo di attività. La trasformazione, rendere effettivamente risorsa utilizzata quello che cresce. È un passaggio ulteriore.

E questo è forse quello che complica la vita a chi desidera svolgere queste attività perché ci vuole molto tempo. Le verdure richiedono tempo per raccoglierle, lavarle, cucinarle. La mia giornata è il lavoro nell’orto, la ricerca di valorizzazione di quello che ricavo dalla terra, il racconto digitale e poi lo spostamento verso altre realtà e fare qualcosa che noi consideriamo fondamentale. Coltivare le relazioni umane. Il nostro orto è un punto d’incontro e di accoglienza ma a volte siamo noi che ci muoviamo verso gli altri. Questo insieme di cose non mi permette di avere una ritmicità naturale, magari passo un’intera giornata nell’orto e il giorno dopo sono a casa perché devo fare altre cose. Nell’orto servirebbe esserci tutti i giorni. Personalmente, incoraggio le persone che hanno fatto la mia stessa scelta. Avere un pezzo di terra lontano da casa ti permette di avere un luogo dove andare.

Quale delle azioni che compi con il Bosco di Ogigia è quella che ti fa sentire maggiormente connessa con il tuo pubblico di riferimento?

È uno dei tanti obiettivi che mi ero posta all’inizio, ricevere messaggi di persone che mi dicono che si sono riavvicinate alla terra perché hanno seguito la mia scelta. Hanno avuto coraggio e un desiderio personale. Tante persone l’hanno fatto ed è bellissimo. A volte ho anche paura, perché qualcuno mi scrive e mi dice che ha cambiato vita. Io non consiglio a nessuno di mollare tutto e di andarsene, dev’essere sempre un percorso. Mi auguro che tutte queste persone abbiano fatto questa scelta consapevolmente, anche in relazione alle difficoltà. Io stessa non avevo l’esperienza che avevano i contadini di una volta, quando nascevi in una famiglia contadina, vedevi lavorare i tuoi parenti e alla fine imparavi. Oggi lo dobbiamo riapprendere dai libri e dai corsi ma si può fare.

Gli ultimi tre anni hanno profondamente inciso sulla vita delle persone, dando impulso anche a molti progetti di vita condivisa, spesso lontano dalle città. Come osservate questo fenomeno?

Io sono molto felice che ci siano questi percorsi. Sicuramente ci sono tante iniziative di successo ma questi tre anni sono stati divisivi. Si sono formati schieramenti su due fronti e non siamo più abituati a stare insieme, con i vari compromessi da accettare e l’armonia da ritrovare con se stessi e con gli altri per portare avanti dei progetti concretamente. Provo grande rispetto e ammirazione per chi ci riesce, quando trovo cose che funzionano sono veramente felice. Ma sono percorsi complicati. Una volta chi viveva in campagna faceva molta più squadra e c’era una collaborazione tra i vari nuclei abitativi. Però molti racconti ci parlano di una vita difficile anche a quelle condizioni. È l’uomo che ha bisogno di risolvere i conflitti.

C’è una maggiore spinta a cercare piccoli produttori, per una questione di sostenibilità a 360 gradi che riguarda anche un modello di nuovo ‘mercato’ e comunità.

Noi produciamo per noi stessi e il prodotto che esportiamo e in parte vendiamo ma soprattutto regaliamo è la comunicazione, l’informazione, la conoscenza, mettere in rete e fare rete, incoraggiare. Tanti hanno prodotti fisici della terra, l’artigianato. Punti di vista differenti. Io trovo meraviglioso che tornino le produzioni dei nostri beni fondamentali, le produzioni artigianali, territoriali, locali. Mi sento di trasmettere questa dimensione umana. Quello è il passaggio chiave. Riuscire a prendersi la responsabilità di fare un po’ di fatica in più e andare a comprare il cibo da chi produce determinate cose, attivare le lettere di scambi. Abbiamo una marea di prodotti, e qualcuno ha creato anche delle attività commerciali. C’è la fatica, che è compensata solo dalla gioia di stare insieme. Le buone relazioni rendono tutto possibile. Penso al problema di ragazzi che mi raccontano come ormai facciano fatica a giocare insieme, a incontrarsi. Una volta i bambini volevano stare insieme, avevano i punti d’incontro. Oggi è tutto digitale e magari stanno insieme ma davanti allo schermo del telefonino. Occorre riattivare la rete sociale, quella che fa funzionare tutto.

Fare l’orto in questo periodo è di moda. In che modo si può fare cultura di una sostenibilità che sia reale e a tutti i livelli?

Per prendersi cura della terra bisognerebbe che ognuno trovasse la propria dimensione e più o meno ci possiamo arrivare tutti perché in città possiamo trovare l’orto urbano o intrattenere attività agricole di confine, che si trovano ai margini della città. Se viviamo in campagna è molto probabile avere un pezzetto di terra o possiamo procurarcelo. Prendersi cura di uno spazio piccolo è importante anche perché più piante introduciamo più inseriamo diversità. Più fiori introduciamo più rimettiamo in piedi tutto il meccanismo e aiutiamo la natura. Un po’ di impegno in tal senso ci vuole da parte di tutti.

Però manca il tempo, perché se poi qualcuno ha un’altra attività ed è immerso in un paradigma mentale è difficile trovarlo: si può cominciare a ricavarne lasciando da parte un po’ di vita digitale e riportando le proprie relazioni e il proprio tempo libero in situazioni reali. E quindi magari la socialità la creiamo direttamente sulla terra, in collaborazione con gli altri. Iniziamo dalle piccole comunità, con le quali si può fare l’orto insieme. È già un primo nucleo di partenza molto importante, che riattiva la capacità di stare con gli altri, sopportare le cose che ci stanno antipatiche e valorizzare le differenze di ciascuno. La risposta è la rete. Non affrontare queste imprese da soli ma farlo con gli altri.

Il benessere della persona passa anche da quello che mangia e ancora prima dalla salute della terra che si coltiva. Come coniugare il ritmo naturale con i tempi della società attuale?

I cambiamenti devono essere graduali. Poi c’è chi se la sente di lasciare la città e comprare casa in campagna ed è bellissimo. Però poi se non la conosci e non conosci i lavori naturali non ti rendi conto di quante energie richiedono. Se compi un passaggio graduale la cosa bella è viverlo. L’orto avrebbe bisogno di essere seguito tutti i giorni. Se lo fai con un gruppo di persone quotidianamente ci sarà sempre qualcuno, se lo fai da solo la settimana in cui non ci sei magari scompare tutto per il cambiamento climatico, perché è passato un animale selvatico e s’è mangiato tutto. E ci si può scoraggiare parecchio. Invece, con una comunità si ottengono maggiori risultati e si creano relazioni sociali che conferiscono energia per portare avanti i propri progetti e la parte naturale.

Per chi vive in città quali sono le difficoltà da superare? 

Io sono condizionata da Roma, una città che ti mangia il tempo. Lì le energie te le prende la difficoltà negli spostamenti, per fare qualsiasi cosa devi fare una fila. Però forse la cosa principale è superare la diffidenza e fare rete con gli altri, anche se allo stesso tempo la città è quella che ti dà più opportunità d’incontro. La città è anche relazioni e alle volte è più difficile in campagna; quindi, è una divoratrice di energie per tante ragioni, ti scoraggia perché spesso è disordinata, sporca, inquinata. A questo si torna sempre all’ostacolo principale: il tempo. Trovarlo anche solo per raggiungere un posto. Quante energie ci vogliono per incontrarsi.

Poche settimane fa è uscito il tuo libro ‘La cura della terra’.

La casa editrice, Mondadori, mi ha proposto il titolo e per me lo svolgimento è iniziato proprio da quello: la cura della terra. È una frase che vuol dire tantissime cose però io ho voluto partire dal suolo, il mio pallino. È l’elemento essenziale che ci permette la vita sul pianeta, il funzionamento dei servizi ecosistemici. Un suolo fertile, sano, sul quale cresce una vegetazione lo dobbiamo considerare il patrimonio più importante dell’umanità. Da lì dipende tutto e noi non lo vediamo più. In città è tutto pavimentato ma in campagna succede più o meno la stessa cosa. Solitamente siamo in macchina, in un centro commerciale o in luoghi simili.

Non lo vediamo, non lo tocchiamo, non ci rendiamo conto delle sue condizioni quando ci passiamo accanto e invece è da lì che parte tutto. Il dramma è doppio; lo stiamo consumando perché lo cementifichiamo e nel libro sottolineo qualche numero spaventoso. L’Italia è tra i peggiori in Europa, abbiamo dei numeri altissimi in quanto a consumo di suolo. Ed è folle perché ci sono tante altre alternative, forse meno economiche. È lo stato che dovrebbe far sì che diventino più convenienti le soluzioni che apparentemente lo sono meno. Invece di consumare un suolo agricolo nuovo recuperiamo tutto quello che è già stato edificato. Ci sono troppe zone industriali abbandonate, cose che vengono costruite e poi rimangono lì inutilizzate. Si potrebbe utilizzare solo quello che è già stato distrutto e non il suolo nuovo. In maniera sconsiderata consumiamo anche le opere pubbliche.

Difendere la terra, rigenerare

Dovremmo cambiare le nostre abitudini di spostamento e non costruire nuove strade. Ma non solo, perché il consumo è anche quello agricolo, un’agricoltura di sottrazione ed estrazione. Noi prendiamo il suolo che ha ancora energia vitale e lo impoveriamo, non attuiamo pratiche che gli permettano di generarsi di continuo. Stiamo tornando indietro di ere geologiche, a quando c’era la roccia madre. Se non ci accorgeremo del valore del suolo e non faremo di tutto per difenderlo non risolveremo alcun problema. Serve per il cambiamento climatico e contro le alluvioni, la siccità, la desertificazione.  Cerchiamo di trovare un po’ di ragionevolezza. Le soluzioni sono semplici, perché la natura funziona con una certa complessità che noi esseri umani non potremo mai eguagliare. Dobbiamo lasciare alla complessità naturale la possibilità di esprimersi ma le soluzioni si devono affidare alla natura, non possono arrivare tutte da noi. Lei lavora da molto più tempo di noi e ha trovato le soluzioni migliori.

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Davide Sica
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