Chiara Coricelli, ad della Pietro Coricelli
Chiara Coricelli

Agroalimentare. Ritorniamo alla semplicità del passato, per fare passi sostenibili nel futuro

Bandiera di un agroalimentare sostenibile è stata la prima azienda olearia in Italia, già dal 2010, a misurare e verificare e emissioni totali di anidride carbonica generate durante il processo di creazione del prodotto. Ora è la prima del suo settore a tracciare un percorso di trasparenza attraverso la blockchain. Intervista a Chiara Coricelli, mamma e imprenditrice, amministratore delegato di Pietro Coricelli

Chiara Coricelli sin dalle prime parole appare una donna dai solidi valori e dalla grande concretezza e passione per quello che fa. Dal 2018, all’età di 38 anni, è amministratore delegato dell’impresa di famiglia, l’azienda olearia Pietro Coricelli. Ultima nata della terza generazione, dopo i tre fratelli maschi con cui gestisce l’impresa agroalimentare fondata dal nonno, è stata chiamata a portare avanti i valori ereditati: rispetto delle persone, sostegno alla comunità locale, salvaguardia dell’ambiente e delle risorse naturali in un’ottica di crescita ed evoluzione sostenibili, trasparenza e qualità.

Fare emergere il fattore umano per poter fare la differenza

Mamma e imprenditrice, Chiara Coricelli racconta con la propria testimonianza il vissuto di una generazione di donne impegnate a cercare la realizzazione nella vita privata e insieme nel lavoro, dove, nella sua quotidianità porta con sé l’impronta di una nuova leadership al femminile, capace di rimettere al centro di ogni attività il fattore umano. 

Qual è la sua visione del rapporto tra impresa e persone?

Partire dalle persone è fondamentale e credo che sia anche un fattore estremamente legato alla leadership femminile, semplicemente per una innata sensibilità alla considerazione del fattore umano. Non dico che gli uomini non ce l’abbiano, ma probabilmente noi siamo più naturalmente portate, vuoi per un istinto materno, vuoi per una attitudine più accentuata che non ci fa primeggiare sugli uomini. Intendiamoci, non mi ritengo femminista, sono cresciuta in una famiglia di uomini e forse ho imparato a conoscerli. Per differenza, dico che abbiamo una maggior predisposizione alla valorizzazione del fattore umano: voce secondaria in un modo di fare impresa obsoleto, ma, oggi, di rilevanza determinante per poter fare la differenza.

Cosa significa considerare il fattore umano in azienda?

Abbiamo bisogno di trasmettere motivazione, tranquillità, anche di tarare il singolo lavoro e ruolo sulla predisposizione della persona, assecondando con flessibilità le esigenze personali: non è detto che perché sono ingegnere io performi meglio in un dato ruolo, posso avere altre peculiarità che mi rendono unico e straordinario in un’altra veste.

Come si sviluppa questa attenzione?

Parlando con le persone, dando il tempo al fattore umano di emergere nel rapporto di lavoro.

In questo senso, quanta consapevolezza vede negli imprenditori e nei collaboratori?

Credo che siamo molto lontani dalla consapevolezza, sta iniziando ad emergere, ma c’è ancora qualche ritrosia. Se vogliamo vedere, fino a qualche anno fa il fatto che un dipendente potesse liberamente esprimere la propria opinione e magari contestare un imperat aziendale era impensabile, credo si stia arrivando a una sensibilità che possa accompagnare all’interazione e al confronto costruttivo, lasciando spazio alla libera espressione. Condizione che chiaramente non può essere anarchia, ma sempre canalizzata all’interno di un’ottica strategica di visione aziendale per portare a fare la differenza.

Noi siamo agevolati perché come azienda di famiglia, con una catena decisionale corta e un numero gestibile di persone, dentro le centinaia, abbiamo un rapporto diretto con il singolo. Siamo anche in un territorio piccolo, che consente anche la conoscenza a 360 gradi del nucleo familiare del lavoratore ed è un grande vantaggio riuscire a portare quei valori di famiglia nel team che costruisce la ‘famiglia lavoro’.

Il valore della trasparenza

Quali principi caratterizzano la relazione con le vostre persone?

Cerchiamo innanzitutto di essere trasparenti, anche nel rapporto con i fornitori. Oggi, ad esempio, mi trovate in macchina perché sto ritornando in Umbria dalla Puglia, dove siamo andati a firmare il primo accordo di filiera per la fornitura di olio extra vergine di oliva italiano in cui il fattore umano è rilevante: un accordo di reciproco impegno per portare prima sugli scaffali e poi sulle tavole un prodotto 100% italiano, tracciato e retribuito adeguatamente (qui la notizia). Un modo per essere sostenibili economicamente ma anche per portare sviluppo alla propria rete, perché siamo un sistema interconnesso.

Come si fa a dire agli altri imprenditori che questo approccio ‘è imprescindibile’?

Il mio auspicio è che si inizi a doverlo dire anche agli altri, in un concetto di sostenibilità a 360 gradi, uscendo dal tema ambiente su cui ci si è focalizzati senza poi aver fatto nulla. Si è parlato tanto di sostenibilità ambientale, di bilanci di sostenibilità, carta, carta, carta e poi nei fatti nulla. Senza dubbio dobbiamo partire dagli esempi e quello di oggi è virtuoso, non ha omologhi, speriamo di essere capofila di un progetto che comprenda tutti gli altri operatori del settore.
Il vero diktat, però, arriverà nel momento in cui verranno adeguati gli standard per portare le imprese a dei goal di sostenibilità su tutto quello che è responsabilità nei confronti dell’ambiente, del territorio, delle persone, dentro e fuori, vedendo l’azienda, appunto, come un sistema interconnesso. Ma se non riusciamo a creare un differenziale tra chi è veramente ‘buono’, misurandolo, e chi è molto bravo a raccontarsi come buono ma poi nella pratica non fa molto, non riusciremo mai ad uscire dalla sfiducia su questi temi che così non vengono interpretati come un investimento per l’azienda, ma come costi o doveri.

Questa strada può spingere il tessuto di imprese italiane?

Senza ombra di dubbio, specialmente nell’agroalimentare che è una forza e una peculiarità. Per anni ci siamo concentrati a valorizzare le differenze che abbiamo sul nostro territorio, perché, ora, anziché metterci in concorrenza tra il mio che è più buono del tuo non facciamo gruppo dicendo che i prodotti che vengono dal Paese Italia sono tutti tracciati, da filiera sostenibile? Questo può creare un vantaggio a livello globale. Però lo vedo come un sogno da realizzare, siamo chiari. Partiamo dai singoli passi che il singolo può fare, con l’auspicio che venga emulato da altri.

A proposito di primi passi, siete la prima industria olearia a puntare sulla tecnologia blockchain di IBM Food Trust. Cosa comporta?

Abbiamo iniziato con una certificazione di tracciabilità di filiera sia sul territorio nazionale che fuori Europa, un percorso ambizioso in termini di audit e poi abbiamo fatto l’evoluzione, con la blockchain. Ci siamo chiesti, cos’è che oggi può fare la differenza e che può dare sicurezza al consumatore che non sa come lavoro? Io do per scontati tutti i processi di qualità e controllo della mia azienda, magari raccontandoli lo aiuto a capire cosa dovrebbe cercare anche in altri prodotti, quali sono i requisiti che deve andare a vedere, oltre all’origine, da dichiarare per legge. Cerco di dare valore aggiunto che lo può aiutare nel criterio di scelta e apro le porte della mia azienda già solo con un telefonino sullo scaffale di un supermercato.

Come avete lavorato?

L’abbiamo impostato per poterlo adattare a tutte le linee di prodotto aziendali. Siamo per ora partiti con un singolo codice e abbiamo scelto di farlo con il più venduto, l’olio, perché come dice sempre il mio direttore commerciale, mi piace citarlo, “è un prodotto democratico” che non deve mancare nelle tavole di ognuno, in primis perché fa bene.
Ce ne sono di tanti tipi, come aiuto il consumatore a scegliere? Intanto gli racconto qualcosa in più su quali sono tutte le analisi che nella trasformazione questo prodotto ha subito per permetterci di dire è sicuro è controllato è buono, lo possiamo mettere in bottiglia con il nostro nome sopra. È un passo importante, perché abbiamo aperto il nostro sistema gestionale nel nostro caso alla IBM dicendo ‘pesca tu io non tocco niente’, se va bene va bene se non va bene c’è scritto che non va bene, nella massima trasparenza.

Dall’esterno, incluse le istituzioni, che cosa può aiutare a vedere la sostenibilità come un investimento e non come un costo?

Senza dubbio c’è ancora tanto da fare, non siamo né arrivati né abbiamo la strada delineata. Secondo me sarebbe importante innanzitutto delineare delle linee guida, perché oggi c’è una forte frammentazione di operatori che propongono sistemi e soluzioni per la sostenibilità, il che crea confusione. Non sto dicendo che deve esserci un monopolio dei servizi legati al miglioramento sostenibile delle aziende, ma faccio un esempio: stilare un bilancio di sostenibilità mi rende veramente più buono? Oltre al bilancio di sostenibilità che viene emesso da mille enti oggi, ci sono le carte di sostenibilità, i codici di disciplina… c’è una frammentazione dell’offerta che non chiarisce le idee a chi pone la domanda e allora nel dubbio, nell’abbondare di questa offerta si sta fermi. Cosa sbagliatissima.

La nostra via è stata all’incontrario, iniziamo dalle singole azioni, perché non si può cambiare tutto in un giorno solo, poi raggruppiamo il tutto e vediamo come contestualizzarlo. La mia idea, ad esempio, è quella di una reale valutazione del valore di una azienda sulla base dei parametri ESG, quindi, immagino un bilancio che non sia più solo un finanziario ma integrato, che racconti se l’azienda si comporta bene, se ha rapporti equi e solidali con i fornitori, che valuti l’azienda a 360 gradi perché il numero da solo può farla sembrare buonissima ma in realtà non racconta chi sia veramente.

Siamo abituati nel nostro Paese a lavorare nel post, nell’emergenza, quanto è importante il lavoro di educazione delle persone?

L’educazione è importantissima, ma come tale vive una peculiarità del nostro Paese, ossia che se chiamandola con il proprio nome viene recepita come una forzatura. Quello che stiamo facendo noi è somministrarla in pillole sui social network, su canali giovani, facendola passare come tip di quotidiano vivere. È chiaro che non può bastare, anche se i tentativi istituzionali di educazione, ad esempio alimentare, sono stati un boomerang.
Il Nutri Score penso sia l’esempio di come un obiettivo sano ‘diamo indicazioni semplici e chiare al consumatore sulle etichette dei prodotti’ abbia un risultato devastante perché si sono tagliate con l’accetta tutte le caratteristiche reali. Non puoi prendere dei parametri che vanno bene per tutti, è una soluzione semplicistica. Credo che più di parlare di educazione si debba accompagnare a pensare in modo diverso, così come si è fatto con la differenziazione dei rifiuti: piano piano sono iniziati a sparire i bidoni della indifferenziata.

È un po’ l’obiettivo che abbiamo noi con la trasparenza verso i consumatori, inizio a sottoporti un qualcosa di cui magari tu non hai mai sentito parlare, magari domani lo chiederai sui biscotti o su altre categorie più critiche.

Un tema certo è che la comunicazione che oggi c’è, specialmente nell’agroalimentare, non aiuta a fare chiarezza. Viviamo di un giornalismo terroristico, che non fa educazione, grida allarme e basta e non aiuta a fare consapevolezza e cultura, questo sul nostro settore è devastante, perché mette in cattiva luce tutto: così io consumatore non mi fido più di nessuno e compro quello che costa meno.
Dovremmo invece cercare di costruire con una comunicazione sana, positiva, facendo informazione e formazione.

A proposito di scelte e prezzi, uno degli anelli deboli in tema di sostenibilità sembra essere la GDO.

Ancora una volta, vanno accompagnati. Non essendo una teorica, ma una pratica, posso raccontare quello che facciamo noi. In primo luogo, andremo a raccontare anche alla GDO l’accordo di oggi per spingere un concetto di acquisto sostenibile: per raccontare alla signora che va a fare la spesa, che quell’olio non costa 2 euro e 99 come lo vuole vedere lei in offerta perché dietro ci sono aziende con dei lavoratori che devono essere retribuiti e che, a loro volta, fanno acquisti sul sistema Italia e, quindi, quel differenziale di costo ha un senso. Il secondo passo lo facciamo sull’impatto ambientale: alla fine di giugno 2022 dovremmo partire con il progetto Zero Plastiche, andando a riciclare imballaggi che riceviamo e rigenerandoli, eliminando le plastiche non necessarie e realizzando quelle indispensabili, come il dosatore, in materiali biodegradabili sviluppati grazie alla partnership con i fornitori sensibili sui temi. Che c’entra la GDO? Riceverà meno imballi da riciclare, andiamo a tagliare un anello, cerchiamo di essere noi i promotori del buono.

Famiglia-lavoro, territorio e terra

Torniamo in azienda. La cito, ‘l’armonia è il primo fattore di salute di una azienda familiare’. Come si crea?

Esattamente come si fa in famiglia. La mia è numerosa, quando si sta a pranzo tutti insieme si raggiungono vette di 23/24 persone e ci deve essere armonia. La si raggiunge con il rispetto, l’educazione, la volontà di ascoltare l’altro.

Lei è mamma e imprenditrice, testimone di temi quali la conciliazione famiglia lavoro e l’empowerment femminile. Siete attivi in questo senso?

Molto. Sono in corso le prime due maternità di ragazze della mia generazione e sto aspettando con ansia che possano rientrare, perché hanno la nursery pronta per portare le loro bimbe. Ho una concezione particolare della donna: una volta che diventa mamma è come se diventasse un super eroe, riesce a fare di più, con più efficienza e una visione più ampia. Ci potenziamo. Ero preoccupata perché vedevo che le ragazze tra i 30 e i 35 stentavano a prendere decisioni ed è il brutto della nostra società, perché c’è sempre la paura per il posto di lavoro, il dubbio sulla possibilità di conciliazione… la nursery l’ho fatta alla fine del 2018, è rimasta una stanza vuota a lungo e ci terrei molto a riempirla. La nascita di queste due bimbe mi fa estremamente piacere.

Qual è il vostro rapporto con il territorio?

Viviamo in una realtà di 40 mila abitanti, dove conosci dal sindaco ai parroci, a tutti i responsabili degli uffici pubblici sul territorio. Noi tendiamo a essere una famiglia disponibile, a capire le esigenze di chi ci sta intorno, le criticità, perché viviamo in un territorio non semplicissimo, poco servito. Lavoriamo in supporto a una serie di associazioni locali, dalla Croce Verde, all’ospedale alla Caritas Diocesana, cerchiamo di dare un contributo nel nostro piccolo, ma abbiamo una abitudine per la quale il nostro ufficio stampa mi sgrida spesso, siamo della scuola ‘fai del bene e scordatelo’…

La famiglia Coricelli

Quali sono le parole chiave, oggi, per ricreare fiducia e tirar fuori il potenziale delle persone e delle imprese?

Mi ha chiesto delle parole, me ne viene in mente una, dobbiamo ritornare alla ‘semplicità’: nei sentimenti, nel comunicare, nei valori che dobbiamo trasmettere. Dobbiamo tornare un po’ indietro per andare avanti.

Cos’è la terra per lei?

La terra è vita, veniamo da lì, dobbiamo rispettarla perché ci sta dicendo che non siamo stati bravi e anche qui dobbiamo cercare di ritornare alla semplicità.

Nella nostra famiglia abbiamo una quarta generazione fatta di 12 ragazzi, tra i 21 e i 10 anni, e sono stata contentissima quando uno dei più grandi ha scelto di studiare agraria; al di là del nostro uliveto, conoscere la terra in maniera più educata di quanto potessero fare mio nonno o i suoi collaboratori è determinante per rispettarla, salvaguardarla e continuare a farla essere la nostra casa.

Insegna anche che ogni cosa richiede il suo tempo e a dare, mentre noi abbiamo paura di perdere…

Mi ripeto… perché abbiamo perso la semplicità, era questo il concetto a cui mi legavo. Per una pianta di ulivo, ci vogliono anni prima di essere produttivo e l’agricoltura aspetta. Noi non sappiamo più aspettare, dobbiamo riuscire a ottenere risultati subito, dobbiamo misurare anche quello che non è misurabile, invece ci vuole tempo anche per dei progetti. Non dico che dobbiamo ritornare al pallottoliere o solo a coltivare la terra, ma dobbiamo riprendere dei ritmi semplici per ricominciare a costruire.
Un reset c’è stato, imposto, ed è stato un segnale importante secondo me, saperlo cogliere e ripartire con una nuova semplicità è determinante per avere una opportunità diversa e nuova.

di Monica Bozzellini

Monica Bozzellini
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Oltre 30 anni di esperienza nel mondo del giornalismo e della comunicazione aziendale; da oltre 5 anni è consulente alla comunicazione positiva.Si occupa dello sviluppo della persona attraverso strumenti a mediazione artistica espressiva, come professional counselor a mediazione corporea e teatrale

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