Alessandro Dobici

Alessandro Dobici, il fotografo che mette in luce le emozioni

L’appuntamento è presso Content Studio a Roma, casa di produzione da lui fondata nel 2000, crocevia di tanti giovani fotografi, italiani e stranieri. A mostrarsi davanti ‘l’obiettivo’ delle domande è Alessandro Dobici, fotografo ritrattista che, nel raccontare cosa abbia significato questo lavoro, lo ha definito ‘l’unica soluzione che mi avrebbe potuto salvare’. Dobici racconta attraverso i suoi scatti l’umanità nei volti delle persone, siano esse famose oppure no. Primo italiano a esporre nel 2017 sull’isola di Cuba con ‘Alessandro Dobici, vent’anni di fotografia’, conserva la curiosità di conoscere e fotografare gli altri: “Il set è un accelerometro spaventoso. Forse servono 30 cene per equilibrare quello che in tre ore puoi scambiare con la persona che stai riprendendo, se questa ha voglia di condividere”. 

Predilige immagini in bianco e nero, in quanto – ha dichiarato – ‘il colore distrae’. Può raccontarci che cosa rappresenta la ‘distrazione’ in una fotografia?

Per me è fondamentale comunicare e raccontare quello che una persona è. Principalmente faccio ritratti, per cui è importante capire ciò che c’è dietro lo sguardo delle persone. Il bianco e nero mi permette di concentrarmi, mi consente di riportare su carta l’essenza dell’interazione tra me e chi fotografo. Questo fa capo appunto agli occhi della persona che sto ritraendo. Colore, taglio di capelli o altri aspetti possono rappresentare un elemento di distrazione. Questo non vale solo per i ritratti. La mia attenzione sta nel raccontare l’essenza di quello che sto vedendo, scene di vita quotidiana a cui assistiamo tutti, e il colore diventa un’attrazione. Il bianco e nero ci dà invece la possibilità di concentrarci di più sul contenuto della storia che si fotografa. Sui reportage questo accade spessissimo: si può assistere a una scena molto interessante da un punto di vista narrativo, e poi trovare una serranda che ha un colore sbagliato, o un cartello stradale che magari distrae. 

Quanta libertà lascia a chi guarda la  foto? 

Non lavoro in funzione del fatto di mostrare a qualcun altro quello che sto vedendo. Non c’è questo tipo di presunzione e quando scatto non c’è neanche la consapevolezza che queste immagini verranno viste da altre persone. In sostanza tutto quello che io ho fatto e tutto quello che ha dato vita alla mostra, per esempio, è frutto di un diario privato di immagini che avevo ripreso solo e unicamente per il gusto di farlo. Il fruitore principale delle foto sono io. Non uso un libretto di istruzioni per emozionare qualcun altro. Non ho mai fatto una foto per poi mostrarla o perché pensavo ‘funzionasse’, e non so se mi sporcherò da  questo punto di vista e se sarò corrotto da questi ultimi due anni. La cosa certa è che in quelle 130 foto (riferendosi alla mostra ndr) non c’era assolutamente alcun tipo di calcolo o previsione. 

Havana, Cuba -2017

Non uso un libretto di istruzioni per emozionare qualcun altro

Diverso è il caso delle foto scattate su committenza… 

Nella parte professionale c’è uno scopo legato alla operazione per cui sono pagato, ma tutto quello che è finito nella mostra paradossalmente sono scarti di photo editor. Facevo delle mie foto in coda al lavoro per cui ero stato ingaggiato e spesso queste immagini sono state inviate ai giornali, ma i clienti, pur apprezzandole, hanno poi optato per una comunicazione più semplice, pensando che quella fosse la strada giusta. Forse lo era, non lo so. Il riscontro che ho avuto, dopo avere esposto, mi ha fatto pensare che magari si sarebbero potute scegliere foto diverse, perché comunque ci sono persone in grado di leggere e comprendere non solo il ritratto che ti mette a riparo da ogni tipo di critica. Probabilmente si sottovaluta la sensibilità della gente, pensando che sia più facile colpire con i soliti strumenti banali, come l’attrice col sorriso splendente e gli occhi luminosi, quando in realtà poi ci sono tante altre emozioni che una persona può trasmettere attraverso uno scatto. Secondo me serve il coraggio di osare e di tentare di concepire un magazine o un’operazione pubblicitaria, presentando e organizzando il lavoro e la procedura di comunicazione, seguendo strade alternative. E forse questo potrebbe funzionare meglio, però il punto è che io non ho un giornale e non faccio comunicazione attraverso i magazine, per cui mi sono limitato a proporre. Spesso le foto tornavano indietro con il dispiacere di vedere uno standard nella comunicazione che comunque poi annoia, per lo meno annoia me. Fermo restando che posso ottenere quel tipo di immagine, sempre facendo attenzione a non avere facce vuote, mancanza di espressioni, assenza dell’animo che sto fotografando. Entrare in contatto, in confidenza e in empatia, fa sì che la persona davanti all’obiettivo si senta libera di restituirti qualcosa che non sia il semplice sorriso, dove non c’è la ruga, tutto è ordinato e l’orecchino è a posto: questo tutti possono farlo ormai. Quello che distingue foto speciali da altre è ciò che si instaura con la persona con cui si sta lavorando. Ciò che avviene è unico e non è copiabile. Penso che questa sia la bellezza di cui mi nutro, ciò che mi fa tornare a casa sapendo che quella giornata è servita non a riprodurre un corpo da un punto di vista materiale, ma magari a portare a casa uno scambio di emozioni. 

Entrare in contatto, in confidenza e in empatia, fa sì che la persona davanti all’obiettivo si senta libera di restituirti qualcosa che non sia il semplice sorriso

Non c’è una foto corretta oppure no, c’è la scelta di quel frame che fa sì che il soggetto fotografato possa essere visto da 100 suoi amici e 100 suoi amici possano riconoscerlo. Questo non ha niente a che fare né con le luci, né con le macchine, né con 18 assistenti, ha a che fare con qualcosa che io non so neanche definire, ma sicuramente so che alcuni colleghi non fanno. E non sono felici. Sono felici semplicemente di essere rassicurati di aver realizzato una foto composta, bene illuminata, con una buona qualità fotografica, perché questo li mette un po’a riparo. 

Se si approccia a qualcuno non badando al suo aspetto interiore, probabilmente costui la sua intimità non te la restituirà mai. Sono convinto che la messa a disposizione della mia persona può far sì che l’altra si possa aprire, l’ho sempre sostenuto: per gentilezza, umanità e comprensione, perché io dall’altra parte della macchina non ci so stare e so cosa si prova. La cura per questo attimo di sofferenza che si viene a creare porta me ad avere un rispetto alto per quella vicenda che si sta realizzando. 

Il fotografo  può cogliere qualcosa che va oltre l’immagine che il soggetto fotografato ha di sé, svelandogli una parte, se non sconosciuta, magari un po’ ‘sottovalutata’? 

Succede un sacco di volte, quando crei le condizioni affinché questo accada. Mi è capitato di persone che hanno individuato nelle foto scattate qualcosa che non erano pronte a vedere, che le ha poi portate a non approvare alcune immagini. Se decido di fotografare una persona diventa per me un appuntamento molto importante. Quando qualcuno mi chiede: ‘Mi fai una foto?’, dico: ‘La foto o la faccio come dico io, oppure non la faccio’. Se si lavora e si cerca di sollecitare la persona e la si invita ad aprirsi, si innescano meccanismi per cui qualcuno si rivede in quelle foto e in qualche modo non si riconosce. O meglio recupera una parte di sé che non è abituato a mostrare, e quella invece è la prova che c’è. È come se chi è fotografato scoprisse che tutto quello che sta cercando di tenere nascosto, è espresso in alcune foto. Succede un sacco di volte e dal punto di vista umano è anche faticoso mettere su carta qualcosa che l’altra persona non è pronta a mostrare. Non so neanche come si verifichi questo meccanismo, quello che è certo è che cerco di entrare in contatto con l’altro, chiedo: ‘Mi racconti qualcosa di te? Mi dici qualcosa che ti ha emozionato?’. Questa richiesta ovviamente non è verbale, ma è l’istanza di lasciare il pensiero libero dietro gli occhi che ho davanti. Invito la persona ad abbandonarsi, e a non tenere, come dico sempre, ‘tutti i cassetti della cassettiera blindati, chiusi a chiave’. In quel caso, e capita spesso, faccio una bella foto della cassettiera. A volte si riesce a rubare un’emozione anche senza la consapevolezza di chi si ha davanti, ma non mi piace rubare, mi piace più sapere che c’è la voglia di aprire i cassetti. 

Spesso nell’altro si riesce a cogliere qualcosa di sé, nell’atto del fotografare c’è uno scambio di emotività tra chi è dietro e davanti l’obiettivo…

Sono in ascolto di tutto quello che accade, ed è faticoso perché se l’altra persona si mette in gioco al suo interno passa un ventaglio di emozioni dalla più positiva alla più negativa. Quando incroci quella triste e drammatica è come se accanto a te avessi una persona che sta male in quel momento, e se sei sensibile, in qualche modo questo ti tocca. Così come quando ci si sente coinvolti quando arrivano la gioia e la bellezza di un momento in quello che stai scattando. Sono consapevole che le mie foto non siano ‘solari,’ siamo molto più bravi a mettere in piedi la recita della positività piuttosto che mostrarci fragili e deboli. Sono attratto forse per carattere da tutto quello che le persone non dicono e da quello che abitualmente non fanno vedere. 

Quanta consapevolezza ha acquisito di sé durante questi 20 anni di fotografia? 

La cosa positiva di questa mostra, così come il documentario (Alessandro Dobici – 20 anni di fotografia ndr), è stata portarmi attraverso una specie di analisi interiore. È stato in qualche modo abbastanza terapeutico perché, per onestà con gli autori e il regista con i quali ho lavorato per il documentario, non mi andava di ‘chiudere i cassetti’. Dal momento che chiedo sempre di aprirli, ero tenuto a farlo io, e loro erano assolutamente in ascolto. Sono molto soddisfatto e mi perdono gli imbarazzi che ho avuto nello stare dall’altra parte.

Mostrare tramite l’atto di scattare quello che si è visto, significa far vedere una parte di sé portando fuori il proprio punto di vista. Così il fotografo interviene sul mondo tramite la propria arte. In questo senso può individuare un filo conduttore che lega i suoi lavori? 

Inizialmente credevo di potermi nascondere dietro quello che facevo, pensavo che gli altri non fossero in grado di andare oltre la foto che andavo a realizzare. Quando ho scoperto che invece attraverso le immagini le persone attente possono leggerti dentro e sapere molto più di te, era già troppo tardi, perché già lavoravo. Altrimenti, forse, se l’avessi saputo non so se avrei avuto il coraggio di andare avanti. È come quando si è nudi in casa e pensi che nessuno possa guardare, e poi scopri invece che sono giorni e giorni che la gente ti osserva, ma ormai è tardi perché ti hanno visto, non puoi fare niente. Dopo qualche anno ho realizzato che stavo mettendo la mia persona in mostra, non pensavo ci potesse essere questa correlazione diretta e molto intima tra quello che uno scatta e quello che si è. Se fotografi in modo onesto, in modo libero, quello che fai è quello che sei. 

È come quando si è nudi in casa e pensi che nessuno possa guardare, e poi scopri invece che sono giorni e giorni che la gente ti osserva, ma ormai è tardi perché ti hanno visto

Dietro ogni mio scatto c’è sicuramente una parte un po’ malinconica, l’osservatorio di chi non è perfettamente integrato in questa società e ha bisogno di alcune vie di fuga, che trovo andando in giro a fare fotografie: quando sto solo riesco a concentrarmi e a non avere distrazioni. Èuna sorta di isolamento in cui la macchina fotografica consente di prestare attenzione a cose belle o brutte della vita, senza avere l’amico che ti parla, la fidanzata che ti sollecita e tutti gli stimoli cui siamo sottoposti nella nostra società. Èun’immersione.

Oltre a volti di persona, ama fotografare paesaggi. A questo proposito ha dichiarato: “Continua a piacermi la possibilità di poter gestire per un tempo infinito tutto quello che voglio. Controllare quel tipo di immagine che sto osservando”. In queste parole si sente il valore del tempo e della presenza rispetto a quello che ci circonda. Come entrano in gioco nella fotografia questi due aspetti? 

Tutto quello di cui abbiamo parlato fino ad adesso è molto volatile e sfuggente, e quindi è in qualche modo un po’ stressante. L’idea di aver perso uno sguardo, che magari dura un secondo, è frustrante. Spesso durante una sessione fotografica si è consapevoli che quell’espressione l’hai mancata, perché non eri centrato, perché la luce non era a posto, perché può capitare. 

Quando ti trovi davanti a un paesaggio, dove tutto è molto più statico, hai il tempo di ‘arredare’ il tuo rettangolo, di posizionare quello che vedi nel modo più corretto. Sono colpito da una scena e valuto le varie possibilità che ho di comporre quello che vedo, in modo tale da poter arrivare a dire: ‘Così sto comodo!’. A quel punto niente ti sfugge via. C’è il tempo che ti dai per dedicarti a qualcosa che piace senza nessun tipo di pressione esterna. Sei da solo e puoi soffermarti a ‘rileggere quella pagina’ decine di volte per cercare di comprendere quello che ti colpisce e per capire qualcosa di più, che magari non hai colto in una lettura veloce. Hai il tempo di comporre l’immagine, ma anche di aspettare o pensare che magari dopo 5 minuti possa cambiare la luce, o arrivare una nuvola che possa comporre e bilanciare la foto e renderla più emozionante, sempre per te, di quella che avresti potuto scattare 5 minuti prima. E questo tempo è tuo: nessuno te lo toglie e te lo godi.

Dettifoss Iceland – 2009

Sono più di 20 anni che fotografi. Come è cambiato il tuo rapporto rispetto al soggetto che fotografi?

Mi piace che tutto quello che è stato fatto e realizzato possa servire alla persona con cui mi appresto a lavorare e far vedere tutti i miei cassetti aperti. C’è un viaggio di più di 20 anni di fotografia e se si è in grado di leggerlo significa che si è un livello di conoscenza superiore. In qualche modo questo può facilitare la procedura di lavoro, perché comunque è possibile conoscermi come professionista, come uno che ha la propria traccia, la propria calligrafia. Io per esempio non concepisco delle procedure di alcuni magazine italiani. 

Vengono chiamati fotografi stranieri a ritrarre personaggi italiani. Rispetto a tutto quello che abbiamo detto finora per me è un errore gigantesco, perché è bello vedere un punto di vista esterno, ma è pur vero che devi fare dei ritratti e non hai la possibilità di conoscere a fondo quei personaggi. Avere la possibilità di conoscere la cultura del paese in cui ci si è distinti e si è diventati famosi, aiuta. Spesso mi è capitato di vedere personaggi non rappresentati nella loro essenza, ma semplicemente corpi messi là in funzione di scenografie, giochi di luce, ma in verità la persona non c’era. 

Nel caso della committenza, c’è un senso di responsabilità che interviene nel modo di svolgere un determinato lavoro? 

Io sono terrorizzato ogni volta che devo ‘certificare’ una foto che poi è destinata ad essere pubblicata. Per me la pubblicazione di un’immagine è una responsabilità enorme perché dietro c’è tutto il mio mondo professionale e c’è tutta l’anima della persona che sto ritraendo. Quello che dico spesso è che una qualsiasi foto venga fatta oggi è consegnata alla storia, è più di fare una statua, più di un’incisione sulla pietra.

Claudio Baglioni (Ostia, Italia – 1996)

In quanto artista sente un senso di responsabilità?

Mi sento libero, perché scattare non significa mostrare. Ci sono scatti che faccio istintivamente  e questo mi fa star bene, poi c’è la decisione di voler condividere. A volte ci sono foto che soddisfano solo me, perché sono legate a un momento, a un periodo, a un’emozione. Non si fotografa in tempo reale, sarei molto più preoccupato se scattassi e avessi la condivisione obbligata di tutto quello che ritraggo. 

Palermo, Italia – 2012

Il digitale ha reso la fotografia  accessibile a tutti. Che cosa ne pensa? Qual è il valore che possiamo dare all’immagine oggi?

Vengono sminuite tutte quelle cose che facevano capo alla tecnica. Venti anni fa c’era una selezione tra chi aveva le competenze tecniche di scattare e chi non le aveva. Questo è un fatto che ha destabilizzato il mercato e ha reso tutto un po’ più facile agli occhi dell’interlocutore. Il digitale avrebbe dovuto, secondo me, consegnarci molte più immagini belle di quelle che io vedo. Cioè 20 anni fa ero in grado di scattare una foto che tu probabilmente non avresti saputo fare, ma quello che tu vedevi o sentivi era un peccato non potesse essere rappresentato e goduto. Il cellulare oggi consente a chiunque l’opportunità di scattare immagini di qualità, questo avrebbe dovuto in qualche modo consegnare alla storia molte più fotografie emozionanti, ma così non è. Se tutti potessimo suonare il pianoforte adesso, il corrispettivo di ciò che è possibile fare oggi con le foto, dovremmo ascoltare melodie che vengono dall’animo umano celestiali, e invece questo non succede. Si continuano a celebrare fotografi del passato, a rimanere incantati davanti a immagini di 20 e 30 anni fa. È come se non ci fosse abbastanza sensibilità in giro per far uscire anche inconsapevolmente dalle immagini di persone che scattano col telefonino cose interessanti. 

La sua prima mostra arriva dopo 20 anni di carriera ed è il primo fotografo italiano ad esporre a Cuba. Che cosa ha significato per lei questo evento? 

È cambiata l’opportunità, che con il senno di poi mi sono sempre negato, di vedere le espressioni delle persone davanti alle mie foto. Una cosa che ho fatto è stato assistere alla visita delle persone che facevano il giro dei quadri. È una visione quasi nascosta di quello che accade. Quando presento le foto c’è sempre il dubbio del perché arrivi il complimento, se c’è abbastanza educazione o sensibilità nel dire ‘belle’ anche quando non lo sono. Quando ti arrivano commenti lontani di ciò che ha innescato quel tipo di immagine scopri che c’è un aspetto di te che è entrato in contatto con tante sensibilità, che diversamente non avresti conosciuto. Questo ti fa sentire parte di una comunità più ampia. Prima ero io nel mio piccolo mondo, alcune persone  facevano dichiarazioni positive sulle mie foto, però mi conoscevano, sommavano l’antipatia o la simpatia personale, il gradimento estetico, l’apprezzamento per un modo di fare, mentre per me il lavoro di un artista dovrebbe vivere solo di quello che è l’opera in sé per sé. 

Questa è l’opportunità che mi è capitata: vedere facce emozionate davanti alcune foto e quindi  vicine in qualche modo a quello che ho provato quando ho scattato.

Ritrattista, fotografo di molti vip tra cui Claudio Baglioni, Roberto Benigni, Sabrina Ferilli, Bernardo Bertolucci, Virna Lisi e molti altri. Porta al pubblico l’intimità di molti personaggi dello spettacolo con grande capacità introspettiva. Si riconosce questa sensibilità?

Ognuno di noi fa qualcosa e se lo fa in modo onesto ci mette dentro quello che è. Nel lavoro porti il dna, l’ esperienza di vita familiare, e se questo riscuote consenso te lo prendi, ma non penso sia costruibile a priori. 

Ha dichiarato che avrebbe voluto fare il pilota. È invece fotografo affermato. Che cosa dà e riceve dal suo lavoro?

La passione per il volo l’ho sempre avuta. Ho studiato anche costruzioni aeronautiche. Ciò che invece ho intrapreso con la fotografia non è un percorso programmabile, non puoi essere certo che poi riuscirai a fare questo tipo di mestiere. Dopo un anno e mezzo che ho iniziato a fare il fotografo è arrivata una lettera di assunzione da parte di Alitalia, ma ormai era tardi perché io avevo capito che volevo fare altro. Mi sarebbe bastato fare anche solo cerimonie nella vita, perché comunque volevo avere la macchina fotografica in mano. Tutto quello che sono riuscito ad avere è infinitamente più grande di quello che avrei mai sognato. Non ambivo alla carriera fotografica, volevo solo scattare. Tutto quello che è arrivato è tantissimo. 

C’è uno scatto a cui è particolarmente legato? 

Ieri è stato il compleanno di un’amica che conosco da 36 anni, sapevo che desiderava una stampa della mostra: ha scelto una foto che ho scattato a Cuba nel ‘95. 

Havana, Cuba - 1995
Per gentile concessione del fotografo Alessandro Dobici
Havana, Cuba – 1995

Ero in un cimitero, un luogo dove fanno pic-nic e giocano a pallone: una visione che di quel giorno volevo portarmi a casa. Ho fatto questo scatto: un uomo passeggia in bicicletta e dietro di lui c’è una grande croce. 

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Giornalista, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi attraverso strumenti a mediazione espressiva. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.

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