Trent’anni fa, dall’idea di tre ragazzi di costruire un mercato più giusto, rispettoso dell’individuo e dell’ambiente, nasceva Altromercato. Oggi quella stessa idea è diventata una realtà solida e articolata con 87 soci e 225 Botteghe, che gestisce rapporti con 155 organizzazioni di produttori in oltre 45 paesi, nel Sud e nel Nord del mondo. Migliaia di artigiani e contadini, il cui lavoro viene rispettato ed equamente retribuito, perché si basa su una filiera trasparente e tracciabile, che tutela i produttori, l’ambiente e garantisce la qualità dei prodotti.
Negli anni Altromercato ha saputo cogliere le sfide dei tempi, imponendosi come vera alternativa di mercato e aprendosi anche alla commercializzazione di prodotti italiani di filiere produttive dominate da ingiustizie e sfruttamento, con il marchio Solidale Italiano. Ultimamente, ha dato vita alla Fondazione Altromercato, che ha l’obiettivo di sviluppare progetti di cooperazione che intendono favorire lo sviluppo rurale, promuovere la riforestazione, supportare nella mitigazione e nel contrasto dei cambiamenti climatici, ma anche difendere l’agricoltura familiare, l’interculturalità e i diritti di genere.
Oggi Altromercato è un marchio valoriale a tutti gli effetti, che viene scelto perché fautore di una sostenibilità agìta, (e non solo raccontata con un efficace storytelling, come spesso accade). Perché “la sostenibilità non è una pennellata di verde, ma un’azione in tutta la filiera, e non solo in una sua parte”, spiega Alessandro Franceschini, presidente di Altromercato in questa intervista.
Altromercato ha portato in Italia il commercio equo solidale quando ancora non si parlava di questi temi. Quali sono le tappe principali di questo lungo percorso? Quali le principali criticità e difficoltà? E quali i traguardi raggiunti?
All’inizio, trent’anni fa, Altromercato è partito come un movimento di base di gruppi sparsi sul territorio italiano che cominciavano a porsi il tema di una maggiore solidarietà nei confronti delle comunità di produttori dei paesi più poveri che venivano sfruttati dal mercato tradizionale. Questa è stata la prima evoluzione tramite soprattutto le prime Botteghe del mondo e gruppi missionari e pacifisti sensibili a questi temi.
Negli anni ’90 la prima svolta, con la decisione di vendere i prodotti anche fuori dalle Botteghe del mondo e in particolare nei supermercati, nei negozi bio e nei gruppi di acquisto. Questo è stato un passaggio fondamentale anche dal punto di vista culturale, perché ha segnato un’evoluzione da avanguardia a vera alternativa di mercato per raggiungere i consumatori laddove fanno la spesa. In questa trasformazione, Altromercato si è sempre più radicato a livello territoriale in iniziative commerciali e di proposta culturale.
Un altro momento importante è stato circa otto anni fa quando si è deciso di allargare la platea di prodotti anche all’Italia, perché molte delle strutture dell’economia del sud del mondo erano presenti anche nella filiera produttiva italiana. Un esempio molto chiaro è la filiera del pomodoro.
I risultati raggiunti fino a oggi parlano da soli: Altromercato è la seconda realtà per dimensione al mondo di commercio equo solidale con un fatturato fra prodotto secco e fresco che ha superato 50 milioni di euro all’ingrosso. Le difficoltà certamente ci sono, prima fra tutte una endemica fragilità dal punto di vista dei risultati economici. Ancora si fa fatica a rendere il meccanismo di questo commercio un win-win per tutti i player della filiera.
Come è oggi concepito il commercio equo solidale in Italia? Come si è evoluta la consapevolezza nella società?
Oggi questo tipo di commercio è scelto da molti consumatori come una garanzia dal punto di vista sociale e ambientale dei prodotti. Oggi sta aumentando molto la sensibilità dei consumatori, che si fidano sempre di più di filiere garantite e cercano l’equo solidale se vogliono produzioni che diano forti garanzie rispetto a un trattamento equo dei produttori.
Quanto la tecnologia ha cambiato la vostra attività e la vostra comunicazione?
Il primo fronte su cui la tecnologia ha impattato è quello della definizione della marca: abbiamo infatti un grosso lavoro soprattutto digital per fare diventare Altromercato da marchio di prodotto a marchio valoriale, cercando di riempire di significato in un’ottica di brand activism il brand. Questo è stato messo in atto con la campagna identitaria ‘Consumi o scegli?’, lanciata circa un anno e mezzo fa, che si è rivelata una modalità di comunicazione utilissima: il fatto che i consumatori si siano spesi sulle proprie piattaforme social a dire ‘scelgo Altromercato’ ha portato a un passaparola molto efficace che ci ha dato molta visibilità. Inoltre, è stata anche premiata alla 18ma edizione del Premio Aretè con il Primo Premio di Categoria Impresa.
Il secondo fronte riguarda le Botteghe del Mondo che, pur non essendo native digitali, in fase di pandemia hanno dovuto reiventarsi, aprendosi alla spesa online. E anche tuttora, finita la fase acuta dei lockdown, continuano a offrirla come servizio, molto apprezzato dai clienti, e stanno lavorando con forme di Click & collect.
Un terzo elemento riguarda i produttori: molte delle nostre cooperative utilizzano la tecnologia per monitorare la loro produzione agricola, rendendola più efficace e controllata.
Che cosa significa “sostenibilità agìta”? Perché fare cultura sul tema?
Questo è uno dei nostri chiodi fissi. Siamo esasperati dal rumore di fondo sulla sostenibilità in cui lo storytelling ha superato lo storydoing: purtroppo sono molte le realtà che non hanno come attività primaria il cambiamento dell’economia in senso sostenibile, ma che costruiscono delle belle storie che veicolano con operazioni di marketing e comunicazione. La sostenibilità è un processo complicato e oneroso, e non deve essere svolto dalle aziende come sola attività di marketing, ma deve arrivare a permeare i consigli di amministrazione e a definire le strategie aziendali. Non basta raccontare delle belle storie: la sostenibilità va agìta. Noi ci definiamo nativi sostenibili, perché siamo nati con l’obiettivo di rendere più sostenibile l’economia, e per questo vogliamo fare capire ai consumatori che la sostenibilità non è una pennellata di verde, ma un’azione in tutta la filiera, e non solo in una sua parte. Bisogna rivedere tutto il processo produttivo, tenendo conto di tutti gli aspetti.
Il cambiamento climatico ha un inevitabile impatto sulle coltivazioni e sui costi dei prodotti. Che cosa fa Altromercato in questo scenario? E come, in generale, si può agire in modo sostenibile davanti a delle regole di mercato troppo spesso non rispettose dell’individuo e del suo lavoro?
Noi stiamo portando avanti con forza il concetto della climate justice, perché le popolazioni che meno hanno contribuito al riscaldamento globale sono quelle che stanno subendo di più le conseguenze del cambiamento climatico. C’è quindi un’ingiustizia climatica, come è emerso anche in modo molto chiaro a Glasgow, durante la Cop 26. Basti pensare ai nostri produttori di caffè del Perù o del Messico, che sono costretti ad abbandonare le loro culture perché le zone in cui coltivavano si stanno desertificando e devono spostarsi più in alto dove il caffè possa crescere. Porre questo tema è centrale per ribadire ai consumatori un modello sostenibile in tutte le filiere produttive, a partire da quelli che sono più deboli e che sono i produttori delle materie prime. Certo, questo è un problema di enorme portata, ma ci sembra importante provare ad affrontarlo.
Per ristabilire la giustizia è fondamentale il ruolo del consumatore: se si alimentano catene produttive e catene inquinanti, il problema rimane centrale. Se invece, come è già successo con l’agricoltura biologica o la sperimentazione sugli animali per la produzione di cosmetici, i consumatori esprimono con forza una decisione di andare in una certa direzione, il mercato fatalmente li segue. La domanda aggregata da parte dei consumatori, insomma, crea risposte da parte del mercato. E se noi dei paesi occidentali, che abbiamo il maggiore potere di acquisto, cambiamo le nostre abitudini in chiave di maggiore sostenibilità, il mercato ci seguirà per forza.
Veniamo all’Italia: da quanti anni e come mai è nata l’esigenza di guardare nel nostro Paese?
Quando siamo partiti, 30 anni fa, avevamo in mente le condizioni di sfruttamento delle filiere produttive definite “coloniali”, come quelle di cacao, te, caffè, zucchero di canna e banane, in cui c’era un maggiore sfruttamento rispetto al mercato tradizionale, con condizioni di lavoro inaccettabili e un’agricoltura intensiva e dannosa per il territorio. Negli anni anche in Italia, con l’avvento di un’agricoltura molto industrializzata e l’affermarsi di fenomeni di caporalato nell’agricoltura, abbiamo assistito a un deteriorarsi delle condizioni del lavoro. Abbiamo quindi ritenuto coerente aprire i criteri anche alle filiere italiane, per dare spazio a coloro che già si opponevano alle condizioni di sfruttamento: non solo quindi le cooperative sociali, che già lavoravano sulla salvaguardia e la tutela dei lavoratori, ma anche situazioni di operatori in terre confiscate alle mafie, o di economia carceraria, dando uno sbocco commerciale ai prodotti nella catena delle Botteghe.
Abbiamo quindi creato nel 2010 la linea Solidale Italiano, il cui prodotto di punta è il pomodoro, protagonista della nostra recente campagna ‘Tomato revolution’, lanciata per sottolineare l’esigenza di lavorare su questa filiera, soggetta a condizioni di lavoro inaccettabili. Stiamo anche lavorando nel settore del fresco, con varie produzioni per il mercato italiano.
A gennaio 2022 dovrebbe essere pronto il vostro primo Bilancio sociale e di sostenibilità. Che cosa comunicherete con questo strumento?
In effetti fino a oggi non ce l’avevamo, e ora che ci stiamo lavorando ci rendiamo conto che è uno strumento molto utile. Siamo infatti andati a misurare con metriche precise quello che facciamo dal punto di vista della sostenibilità economica, sociale e ambientale, cioè le tre p: people, planet e prosperity. E mettendo in fila e misurando tutto quello che facciamo, guardando anno per anno il lavoro e dandoci degli obiettivi, abbiamo molte sorprese positive. Ad esempio, è molto interessante dal punto di vista ambientale misurare quanto impattino positivamente le nostre scelte, come privilegiare le navi piuttosto che gli aerei nell’approvvigionamento. Il tutto è stato fatto coinvolgendo molti produttori, con interviste e analisi che hanno coinvolto i nostri 150 gruppi di produttori sparsi in tutto il mondo.
Di recente avete pubblicato il libro da lei firmato “Consumi o scegli? Il potere della sostenibilità per cambiare l’economia. L’esperienza di Altromercato”, edito da Altreconomia. Perché raccontare oggi cosa ha fatto e fa Altromercato?
Abbiamo voluto approfittare dell’esperienza di Altromercato come caso studio: i consumatori premiano le aziende e le realtà che si dimostrano credibili. I consumatori ci stanno dando segnali positivi e siamo convinti che il Brand activism delle aziende potrà affiancare anche le istituzioni nel creare una vera sostenibilità. Il libro cerca anche di dare una risposta al futuro rispetto alle istanze che i ragazzi stanno portando nelle piazze. Dal canto nostro, siamo molto più radicati rispetto a 30 anni fa, e questo ci convince ancora di più che le possibilità per portare una rivoluzione nella spesa quotidiana ci sono.
Quali sono a suo avviso le principali sfide per il futuro per il mondo del commercio equo e solidale?
Riuscire a dialogare con i grandi gruppi industriali: dobbiamo cercare di fare fronte comune con realtà profit e no profit che stanno facendo della sostenibilità un punto di distinzione. Collaboriamo già con marchi importanti – ad esempio Ferrero, Loacker, Esselunga – che mettono al centro il tema della sostenibilità e rivisitano il business. Abbiamo bisogno di dialogare con loro: altrimenti rischiamo di rimanere un’avanguardia per consumatori sensibili.