Ha incontrato sulla sua strada una malattia neurologica a soli 23 anni e successivamente dal Parkinson, oggi Riccardo Taverna si occupa di sostenibilità aziendale ed è presidente di WeGlad, la startup lanciata nel 2021 con l’obiettivo di creare una social community in grado di mappare le barriere architettoniche presenti nelle città. Un progetto di pubblica utilità che sta riscuotendo l’interesse di diverse amministrazioni comunali, con Milano in testa, e sostenuto da una visione d’impresa che scardina la visione stereotipata con cui la società “normodotata” approccia la disabilità. “Cominciamo con il ripudiare ogni forma di pietismo – ci dice con onestà intellettuale – dal superare il più grosso ostacolo comunicativo perché non si è disabili ma si ha una disabilità: non è una sottigliezza terminologica ma una questione d’identità”. E di talenti.
Partiamo dalla sua esperienza di uomo in carrozzina e “vincolato” all’aiuto di un caregiver. Cos’è per lei la disabilità?
È un fastidio che non mi impedisce di vivere un’esistenza piena e completa. La vita è bellissima anche da una carrozzina.
Sono convinto che si possa trarre forza dalla malattia a patto che si abbia il coraggio di non identificarsi completamente con essa.
Bisogna scegliere tra resilienza e vittimismo. La disabilità è poi un tema trasversale: l’Oms la definisce in termini di difficoltà a relazionarsi con l’ambiente circostante. Questo significa che difronte a una rampa di scale una donna con il passeggino è alla stregua di un disabile, così come lo sono gli anziani a mobilità ridotta, i gravemente obesi, i disabili temporanei. La platea è ampia.
Come è nata l’idea di WeGlad?
WeGlad nasce dall’intuito di Petru Capatina e Paolo Bottiglieri, due giovani startupper che hanno avuto esperienze indirette con le difficoltà motorie. Grazie all’incentivo del gaming, l’app stimola a segnalare la presenza di buche, di barriere architettoniche e di ostacoli di ogni tipo, come un terreno sdrucciolevole. Il risultato è una panoramica aggiornata dei luoghi pubblici fruibili senza difficoltà. Questo comporta un gran risparmio di tempo.
Che riscontri state avendo in termini di impatto sociale?
A Milano, grazie a un progetto pilota, abbiamo mappato 6 mila barriere architettoniche nel giro di due mesi, un risultato di non poco conto. WeGlad ha fatto presa anche su Firenze, Torino e, in parte, su Roma. Continuano ad arrivare iniziative autonome, per esempio a Cortina un gruppo di giovani legati al Ted ha utilizzato la nostra app per mappare il centro di cittadino.
Stanno nascendo sinergie con alcune amministrazioni?
Stiamo lavorando con i comuni di Milano e Torino per delle mappature più sistematiche. Inoltre stiamo collaborando con Trani e Asti. Le amministrazioni comunali si stanno accorgendo che siamo un partner in grado di offrire un servizio spendibile. L’eliminazione delle barriere architettoniche è prevista da una legge del 1986 ma solo il 10% dei comuni ha fatto il suo Peba. Mappando il territorio facilitiamo il lavoro ai comuni, offrendo un servizio utile in termini di riprogettazione urbana.
In Italia uno dei vincoli per l’abbattimento delle barriere è imposto dalla necessità di salvaguardare il patrimonio artistico: i due temi sono davvero in conflitto?
Nel nostro Paese abbiamo un patrimonio storico da tutelare e questo è innegabile, ma è proprio in virtù di questa peculiarità che stiamo stringendo una partnership con una società che lavora in ottica di salvaguardia degli edifici complessi. Le soluzioni urbanistiche che coniugano patrimonio storico e inclusività ci sono, basta coglierle. In questa direzione vanno anche i finanziamenti del Pnrr, in gran parte destinati ai centri storici cittadini per favorire il turismo.
In generale la cultura dell’inclusività si sta muovendo in modo fattivo o è ancora di facciata?
Diciamo che abbiamo cominciato a fare dei passi in avanti, penso appunto ai progetti complessi messi in campo a Milano, a Torino e a Firenze, ma tanto rimane ancora da fare. Nelle imprese private l’inclusione sconta ancora un ritardo culturale. Per dirsi tale l’inclusione dei disabili nel mondo del lavoro deve essere condivisa ai vertici, altrimenti rischia di incepparsi al primo ostacolo. La mobilità e l’accessibilità ai luoghi di lavoro sono dei presupposti indispensabili.
In tema di inclusività della disabilità nel mondo del lavoro a che punto siamo?
Stiamo vivendo un momento di grande visibilità, l’accessibilità e l’inclusività sono argomenti mainstream. Ogni mese ci sono convegni dedicati. All’interno di questo gran parlare bisogna distinguere le eccellenze che accolgono la disabilità per valorizzarle, le aziende che assumono solo per essere in regola da un punto di vista legislativo, altre che non se ne occupano. In generale quello che manca è saper riconoscere il talento della disabilità.
Si tratta quindi di una rivoluzione di prospettive. Che ruolo proattivo può giocare il disabile per favorirlo?
Ritengo indispensabile che il disabile si approcci in modo diverso al mondo del lavoro perché abbiamo due responsabilità: una nei confronti dell’azienda, l’altra nei confronti delle altre persone disabili che stanno cercando occupazione.
Bisogna dare il massimo senza nascondersi dietro ai propri limiti.
È qualcosa che ho provato tante volte sulla mia pelle. Tempo fa mi è capitato di incontrare un manager di prima linea di un importante istituto bancario. Quando mi ha visto arrivare ho colto nel suo sguardo un po’ perplessità, ma quando siamo entrati in sala riunioni e abbiamo iniziato a confrontarci, ai suoi occhi la mia disabilità è passata in secondo piano, stavamo parlando da professionista a professionista.
In questo processo di emancipazione non gioca a favore l’abilismo comunicativo che pervade la nostra società e che, dall’ informazione alla pubblicità, propone una visione stereotipata della disabilità vista come una fragilità da compatire. Come si sfugge da questa gabbia?
Mi viene da pensare che se una persona con disabilità si piangesse addosso, da manager non lo chiamerei nel mio team di lavoro. Voglio dire che è importante riconoscere i propri limiti ma al tempo stesso bisogna dare il massimo. Sono finito in carrozzina nel 2009 e per dieci anni non mi sono mai alzato. Ho continuato ad allenare i miei muscoli nella speranza di un miglioramento. Quando finalmente è arrivato, ero pronto. È questo che dobbiamo fare noi disabili, non gettare la spugna, continuare ad allenarci.
Si narra che nell’antica Sparta i bambini nati con delle malformazioni venissero lasciti cadere dal monte Taigeto. Oggi, al contrario, testimonial sportivi come Bebe Vio o Oscar Pistorius, insegnano a guardare con occhi nuovi i super talenti della disabilità. Perché nell’universo quotidiano e lavorativo si fa più fatica a trovare esempi simili?
Nello sport è più facile accentrare l’attenzione sulla disabilità perché fa spettacolo mentre in azienda è più complicato farla emergere, ma ci sono delle eccezioni. Mi è capitato di leggere di BB Group, un’azienda in crescita che produce accessori per i grandi marchi della moda, che ha fatto una scelta apparentemente folle: assume donne oltre i 60 anni, disabili, ex galeotti, ex tossicodipendenti, persino persone allettate che vengono accompagnate sul posto di lavoro con un’ambulanza messa a disposizione dell’azienda. La sua prima assunzione è stata una signora rimbalzata dal suo precedente impiego perché aveva un tumore al terzo stadio, dunque, è stata reputata inadatta per stare al passo con i ritmi lavorativi.
Sembra di rileggere la voce ribaltata di Luciano Bianciardi, che nel romanzo “La vita agra” ironizza sul metodo del “sollevamento della polvere”: per avere successo bisogna dare l’impressione di essere performanti, di non stare mai fermi. La disabilità obbliga invece a rallentare, ad andare oltre le valutazioni meramente quantitative. Ci sono imprenditori disposti a fare questo salto etico?
Molti imprenditori si riempiono la bocca dicendo che mettono la persona al centro: a pensarci bene in questo caso il soggetto è un bersaglio: è al centro di un mirino.
Bisogna togliere la persona e sostituirla con il concetto di umanità.
Dopo aver letto di un’azienda che ha licenziato oltre 400 dipendenti avvisandoli con un messaggio Whatsapp mi sono messo alla ricerca di imprenditori che hanno a cuore l’etica e la dignità umana. Il primo personaggio in cui sono incappato è stato Adriano Olivetti. Ne è nato un progetto, chiamato appunto “Sulle tracce di Adriano”.
A proposito di storie, non le sembra che in Italia manchi un organo editoriale che dia voce alla disabilità in prima persona?
In effetti, fatta eccezione per alcune iniziative – penso al blog inVisibili del Corriere della Sera – c’è un vuoto in tal senso ed è un peccato perché le persone con disabilità hanno tante storie di talenti da raccontare. Proseguendo sulle tracce di Adriano, in futuro potrebbe rappresentare una possibile strada da percorrere.
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Giornalista pubblicista dal 2013. Abruzzese trapiantata nella Tuscia dove insegna materie letterarie negli istituti superiori.