Attesa. È uno stato che ci tocca particolarmente da vicino in questo periodo. Dopo la stasi passiva e un po’ rassegnata che ha contraddistinto il lock-down siamo fortemente orientati alle fasi successive, ci stiamo riattivando, risvegliando, e fremiamo in attesa dei cambiamenti e della riapertura, pur parziale che sia.
Attesa però è un termine spesso connotato negativamente: basti pensare alla sala d’attesa del medico o del dentista, oppure alle attese snervanti – spesso accompagnate da musichette irritanti – a cui ci hanno abituati i call center, le file al botteghino, le code in autostrada… gli esempi non mancano.
Siamo immersi in una società rapida, dove tutti vogliono tutto e subito; internet ci ha viziati illudendoci che qualunque cosa sia a portata di clic.
Siamo disabituati, almeno apparentemente, all’attesa e quando ci tocca la tolleriamo a fatica.
Per quanto gli spot pubblicitari ci dicano che “l’attesa del piacere è essa stessa il piacere” aspettare tendenzialmente ci piace poco.
Forse ci sfugge però quanto l’attesa sia in realtà preziosa.
È stata una paziente, una giovane studentessa universitaria, a farmici riflettere oggi durante una seduta, rigorosamente a distanza, come ormai facciamo da un paio di mesi, parlando proprio di quando sarà possibile rivederci di persona.
Mi ha acceso una riflessione e ho provato a coniugare il concetto dell’attesa con la situazione di restrizione che abbiamo attraversato e di fatto stiamo ancora vivendo.
Certo, nella costrizione relativamente inattiva dello stare chiusi in casa il tempo sembra dilatarsi e tutta la quarantena sembra una lunga, noiosissima attesa.
Per contro però, a pensarci bene, lo stare a casa ha paradossalmente azzerato una certa forma dell’attesa.
Pensiamo a tutto il tempo che impieghiamo normalmente la mattina per prepararci per uscire, al tempo che ci richiede raggiungere scuole e posti di lavoro, compresi i semafori rossi, i treni in ritardo e gli ingorghi in tangenziale e, a seguire, tutti gli altri spostamenti quotidiani per raggiungere i luoghi dove abitualmente svolgiamo le nostre attività quotidiane.
Distanze da coprire e relativi tempi necessari, esistenti solo se ci si sposta fisicamente, se si deve essere presenti con il corpo e non solo con la mente e l’immagine.
Tutto questo in quarantena è scomparso: si passa in un istante dalla colazione con la famiglia alla riunione col capo, dalla virtual class dei figli alla spesa online, dalla lezione di yoga su YouTube all’aperitivo con gli amici in chat.
La tecnologia ci offre opportunità straordinarie e non voglio deprecare questo sistema, che ha, innegabilmente i suoi vantaggi, non solo in termini di riduzione di tempo e fatica, ma anche sul piano del risparmio di energie e contenimento di consumi ed emissioni.
Quante volte dopo aver visto Star Trek (per chi, come me, ha una certa età e se lo ricorda) abbiamo sognato che il teletrasporto diventasse realtà?
Bisogna ammettere che internet ci offre oggi qualcosa che si avvicina molto a quel sogno.
Ma il tempo ha la sua importanza e così pure l’attesa.
Il termine viene dal latino ed è composto da ad- e tendere che insieme significano ‘volgersi a’. Attendere significa anche impegnarsi in qualcosa, dedicarsi.
Quello che voglio sottolineare è che quelle attese, quei tempi morti nella nostra giornata, in realtà morti non sono. Sono invece parentesi di spazio-tempo (concetto fisico che prendo in prestito perché mi sembra calzi a pennello) che ci sono necessarie per prepararci. E, sì, ne abbiamo proprio bisogno, come mi ha spiegato oggi la mia paziente, con la voce rotta, dicendomi quanto le è mancato, non solo il mio studio e una serie di altri aspetti della terapia vis a vis, ma soprattutto il tragitto di 30 minuti che percorre per raggiungerlo mentre fantastica, si prende uno spazio tutto per sé dentro la sua utilitaria, mette in ordine le idee immaginando di cosa parlarmi o lascia che i pensieri scivolino via per fare il vuoto nella sua mente in preparazione della seduta.
Abbiamo bisogno di tempo e di rituali, di gesti e azioni abitudinarie, che ci rassicurano, ma ci servono anche per predisporci a quello che ci aspetta, per apparecchiare il nostro mondo interno ad affrontare l’incontro o l’attività verso cui andiamo, per cambiare assetto mentale secondo le esigenze, per arrivare con lo stato d’animo e la concentrazione appropriate, per calarci nel ruolo che andiamo ad assumere.
Anche la natura ci ha educati all’attesa, al lento alternarsi del buio e della luce, allo scorrere delle stagioni. Bisogna aspettare per vedere un seme germogliare, trasformarsi in pianta e poi albero e frutto.
In un’altra seduta di pochi giorni fa un giovane paziente, che mi confidava la sua paura di non sentirsi pronto ad avere dei figli, mi ha fatto pensare a quanto siano provvidenziali nove mesi di gravidanza, per dare il tempo ai nuovi genitori di prepararsi all’evento, al cambiamento radicale che la nascita porterà nelle loro esistenze e al ruolo che dovranno assumere.
Mi sembra non esista esempio migliore per spiegare che abbiamo bisogno di attendere per essere pronti ad affrontare e soprattutto ad accogliere.