Si dice che gli occhi siano lo specchio dell’anima. Quello che non sempre si comprende è che a volte, guardando negli occhi dell’altro, si ritrova una parte di noi stessi. Lo sguardo di Carola Salvato, Chief Executive Officer di Havas Health & You Italia e presidente di GWPR Italia, è intenso e profondo e racconta di una donna in evoluzione, unica e carismatica nella sua leadership, intensamente umana nella ricerca e nell’espressione di sé.
Dall’incontro con Carola Salvato nascono pennellate di colore, passione, coraggio e autenticità, un ritratto di chi, tramite la sua esperienza, cerca e dona.
Una ventennale carriera nel mondo del marketing e della comunicazione. Un percorso di crescita professionale lungo e importante. Come descriverebbe la strada che l’ha condotta fino a qui?
Credo che alla base del mio cammino ci sia stata una ferma volontà di esercitare il coraggio con una certezza: dovevo necessariamente attraversare la paura. Il coraggio per me significa considerare la paura (come un’alleata), vederla osservarla comprenderla e trasformarla. Molte volte mi sono chiesta tre cose: ho le capacità, sono all’altezza, e – la più cattiva – me lo merito. Questa è la risposta più intima, che poi trovo in tante altre donne, soprattutto intorno all’ultima affermazione: ‘me lo merito’. E torno al coraggio, quello di rilanciarmi e quindi di attraversare le incertezze. La mia visione è a volte un po’ solitaria, per alcuni eccessiva, molto creativa, espansiva, inclusiva. Il coraggio sta nel darmi la risposta: ‘se io sento questa cosa, è perché è quella giusta’, nel nostro istinto convivono problema e soluzione.
Ancora, il coraggio di avere fiducia, questa parola è centrale. Il coraggio di credere nel mio potenziale e in quello del prossimo, di riconoscere in me delle doti che sono presenti in ogni singolo essere umano. E ovviamente il coraggio di aprirsi alla differenza e alla diversità, che non sono sinonimi tra di loro, anche alla voglia di sperimentare cose nuove, come nuovi stili di leadership sui quali mi sono impegnata tanto, cercando proprio dinamiche che potessero generare all’interno di un gruppo di lavoro una nuova energia, una nuova modalità di pensare, anche a una struttura organizzativa, a come motivare le persone verso la produttività e a come questa possa essere nutrita attraverso gesti di quotidiana fiducia. Per me la fiducia è un bene economico. Ci sono molti studi a riguardo. Il coraggio significa anche rialzarsi quando le cose non funzionano, quindi sperimentare e aprirsi a momenti di ri-verifica, senza che il giudizio interferisca. Secondo me il coraggio della sperimentazione metterebbe un boost di innovazione sui processi di pensiero in moltissime aziende, perché produrrebbe nuovi spazi di evoluzione che potrebbero portare a trasformazioni significative.
la fiducia è un bene economico
La situazione degli ultimi giorni è stata caratterizzata da uno scenario nuovo e complesso da affrontare. Nel suo ruolo come sta gestendo sia verso di lei sia nei confronti delle persone che lavorano in azienda questo fenomeno?
Quello che sta accadendo è un’occasione che rappresenta la prova del nove rispetto ai valori che si ritiene di possedere, alle forze e alle energie che ciascuno pensa siano i propri punti di forza. In una situazione come questa occorre rendersi conto che l’unica possibilità che si ha è accoglierla. Ciò che può essere veramente utile è usarla per fare un’esperienza significativa di unità all’interno dell’azienda, di alleanza non solo personale ma anche professionale.
In una situazione come questa occorre rendersi conto che l’unica possibilità che si ha è accoglierla
Soprattutto dal mio personale vissuto è l’occasione per verificare se valori quali la fiducia la stima e la voglia di realizzare cose ambiziose insieme sono reali oppure no. La fiducia è un bene economico. Quando si è disposti a cambiare le regole, e consentire a tutti i collaboratori di lavorare da casa, perché c’è un motivo più grande che è proteggere se stessi, la famiglia, la società e la collettività, succede qualcosa di davvero inaspettato: si percepisce nella pancia il significato di questa parola.
Nel contempo si devono raggiungere i numeri cercando di offrire il massimo delle proprie capacità, bisogna affidarsi a quello che si è costruito nel legame con le persone, rispetto al senso di responsabilità che si è disposti a offrire non solo a se stessi ma agli altri, sorprendendosi del fatto che ciò che verrà restituito sarà qualcosa di molto più grande e significativo, ovvero spazi di umanità, di alleanza, di complicità.
Abbiamo pensato allo smart working prima ancora che ce lo chiedessero le istituzioni e che fosse evidenziata la necessità davvero di restare a casa. Siamo partiti il 23 di febbraio, nel momento stesso in cui abbiamo compreso che c’era bisogno che ciascuno di noi si impegnasse in prima persona a contrastare il contagio del virus. L’abbiamo fatto perché l’azienda era già pronta, in quanto lo smart working è nella nostra realtà da oltre tre anni.
Avevamo già superato il limite della sfiducia e la convenzioni la dello ‘se sta a casa, non lavora’, della mania di controllo e questo per me ha semplificato il tutto, consapevole che non si può esprimere il massimo di se stessi se non si superano le resistenze. Il successo è uguale a ‘potenziale meno resistenza’ e quindi ho applicato questa regola: ho rinnovato la fiducia, e così hanno fatto tutti i colleghi, partendo dal board.
Il successo è uguale a ‘potenziale meno resistenza’
Abbiamo messo in smart working le risorse, e tutto il loro potenziale, le abbiamo sostenute, supportate, incoraggiate. Una cascata di fiducia, partendo da me, ha coinvolto il board dell’agenzia, per arrivare a casa di tutti i colleghi. Perché la fiducia è contagiosa e arriva anche ai clienti che hanno compreso che avremmo continuato a dare 100.
Abbiamo applicato un effetto boost. Abbiamo detto ai nostri clienti: ‘Siamo la tua agenzia, ti serviremo come sai possiamo fare, terremo a mente le scadenze, riuscendo ad esprimere il nostro meglio, saremo tutti messi in una condizione ottimale di prevenzione, di rispetto della salute, che è il bene più prezioso’.
Abbiamo messo in smart working le risorse, e tutto il loro potenziale, le abbiamo sostenute, supportate, incoraggiate
Siamo un’agenzia che opera nel settore della salute e del benessere, evidentemente per noi la salute è un must: dovevamo esprimere ancora più coerenza, essere più sensibili rispetto a questo tema. La mia è un’esperienza pertanto positiva. Ho scritto a New York e Londra il giorno in cui l’emergenza si stava palesando, informandoli che saremmo entrati in smart working, ciò prima ancora che la nostra azienda a livello globale ce lo chiedesse. Nel momento in cui le persone restano a casa spesso si sentono sole, ma in realtà si connettono in maniera emozionale molto più facilmente, perché la solitudine diventa un aggregatore, si ha bisogno di sentire e collegarsi attraverso nuove modalità e spazi.
La piattaforma che utilizziamo per operare in smart working viene usata con più disciplina, siamo tutti sempre molto puntuali, si sono create connessioni più significative.
Questo evento cambierà certamente il nostro modo di approcciare il lavoro. Il CoronaVirus ci ha in qualche modo solleticato il pensiero che non possiamo controllare la vita, perché ci sono degli elementi che si inseriscono e portano il nostro viaggio da qualche altra parte, è il caso di smetterla di pretendere di controllare tutto, come spesso vorrebbe il manager. Bisogna fidarsi e affidarsi. Fiducia e affidamento non sono sinonimi, lavorano in sinergia, c’è bisogno di entrambi. Il mio percepito è comunque una squadra di persone motivate e unite che hanno voglia di esprimere loro stesse, che hanno sperimentato altri modi, i gruppi di whatsapp piuttosto che le piattaforme aziendali, per trovare momenti che siano equiparabili al break, alla macchinetta del caffè. Non abbiamo perso qualcosa, abbiamo semplicemente trovato un modo diverso e forse più umanizzante. I veri doni risiedono nel cambiamento. Ecco, io mi sento più umanizzata. Siamo lontani, usiamo la tecnologia, ma c’è più consapevolezza e paradossalmente vicinanza. D’altro canto la vera vicinanza è qualcosa che risiede nel cuore.
Siamo lontani, usiamo la tecnologia, ma c’è più consapevolezza e paradossalmente vicinanza
Al nostro fianco resta il memento mori. È un evento talmente straordinario che inevitabilmente porta a riflettere sul significato della vita, delle cose che facciamo e della possibilità di perderla. Guardando alla piramide di Maslow siamo andati a toccare il punto uno, la paura di morire, la paura più grande dell’essere umano. Per la prima volta forse noi stiamo esperienziando il livello più basso di questa piramide. Mentre in altre occasioni vestiamo il ruolo, in questi giorni percepiamo di più la nostra identità. Per spiegarmi bene, quando si parla di identità si fa riferimento a chi è Carolina, si intende per ruolo Carola come CEO dell’azienda. Oggi percepisco più identità e un bilanciamento sul ruolo che ci fa sentire più a nostro agio. Sono convinta che questo passaggio ce lo porteremo per tanto tempo, nulla sarà più come prima. Penso anche nel bene. Anche rispetto alle comunicazioni che sono intercorse sul limitare i contatti, noi oggi possiamo usare lo sguardo, che è potentissimo. Sperimentiamo nuove forme di dialogo e di saluto che vanno oltre la stretta di mano. È una situazione che può essere vissuta solo in maniera fluida, esattamente come si comporta l’acqua, bisogna seguirla, come il fiume che si affida al suo letto.
oggi possiamo usare lo sguardo, che è potentissimo: Sperimentiamo nuove forme di dialogo e di saluto che vanno oltre la stretta di mano
Nel linguaggio degli obiettivi aziendali è possibile e realistico secondo lei affiancare alla parola ‘crescita’ il concetto di ‘evoluzione’?
Ci sono tre parole importanti che vanno considerate all’interno di un’organizzazione oggi: cambiamento, trasformazione ed evoluzione. Ciascuno di questi termini ha una sua funzione e impatta in modo diverso sul nostro modo di intendere che cosa dobbiamo fare. Il nostro cervello resiste al cambiamento, per sua natura. Restituiamo comportamenti diversi quando parliamo di trasformazione, perché la viviamo sul piano della naturalezza: tutto si trasforma intorno a noi giorno dopo giorno. L’evoluzione è tema ancora più importante che si lega a una trasformazione positiva.
È come dire che un’organizzazione per pensare a una crescita futura abbia bisogno di sostenere la sua naturale trasformazione che avviene a prescindere, influenzata da moltissimi eventi esterni che concorrono a chiedere un momento di cambiamento, che diviene un’evoluzione naturale perché le persone la sanno accogliere. L’evoluzione non è solo orientata alla produttività, alla cui base nel caso di una crescita aziendale c’è una maggiore o diversa consapevolezza sul fine. In Havas Life aspetti meramente economici si abbinano anche alla parola etica, perché a noi piace pensare a un business etico che soddisfi innanzitutto un bisogno di evoluzione morale: se l’uomo si evolve, lo fa anche l’azienda e così anche i profitti. La domanda al centro rimane: per quale scopo?
se l’uomo si evolve, lo fa anche l’azienda e così anche i profitti
Una delle storie più intense è che New York (nel 2013, quando Carola è entrata in Havas Life ndr) mi chiese la chiusura immediata di Roma, sede in cui lavoravano sei donne e un uomo, un team fantastico. Mi ricordo che mi recai a Roma e che due colleghe iniziarono a piangere, perché avevano capito che andavo là per chiudere l’ufficio. Io dissi che ero là in effetti per licenziare il Team di Roma, che però non ero molto convinta di questa azione. I numeri non giocavano a nostro favore e bisognava dimostrare l’utilità dell’ufficio romano, ma potevamo creare un progetto comune e questo, come l’unione di pesci con l’acqua, ci avrebbe inevitabilmente portato ad avere nuovi clienti e a costruire una case di successo. L’ingrediente era la passione, la forza e motivazione e – condizione necessaria e naturale – il talento. Di mese in mese gli stipendi venivano riallocati e così è stato da aprile a dicembre. Ogni giorno sette persone lavoravano con la consapevolezza che il primo del mese successivo potevano essere licenziate. A dicembre siamo stati confermati, il Team ce l’ha fatta. È stato un risultato di squadra incredibile, di unità umana, di intenti, di disciplina, di passione, eravamo tutti uniti nello stesso obiettivo: rendere l’impossibile possibile, tenere aperto l’ufficio di Havas Life di Roma. Un’esperienza di fiducia: Donna Murphy, Global CEO Havas Health & You ogni mese mi diceva: ‘Io so che ce la potete fare’.
Certamente senza la sua volontà di dare fiducia al potenziale umano ciò non sarebbe mai accaduto. Le sono riconoscente.
Havas Health & You, presente in tutto il mondo con più di 60 uffici in 50 Paesi, è tra le principali multinazionali che si occupano di comunicazione integrata nell’area della prevenzione, della salute e del benessere.Quali sono le regole e i linguaggi che contraddistinguono la comunicazione Healthcare?
Chi lavora nel settore Healthcare sa bene che un senso di responsabilità lo coinvolge ogni giorno in maniera più puntuale, perché ci occupiamo di comunicare la salute, promuoverla a target molto diversi tra di loro: medici, società scientifiche, ospedali, pazienti, associazioni pazienti, care giver (familiari), persone che condividono un grande senso di speranza, non solo di malattia (leggi la notizia). Tutto questo in aree terapeutiche delicatissime come l’oncologia, l’immunologia, il dolore, le malattie metaboliche e quelle rare. Occorre sentire quasi una missione, trovare il modo per esprimere il proprio valore aggiunto come professionista, ma ancor prima come essere umano. L’eticità, la trasparenza, un impegno coerente con i valori guida aziendali, non possono non essere sostenuti. In alcuni casi abbiamo scelto di non lavorare per alcuni clienti o per alcune attività perché non ritenevamo che fossero vicine ai valori della nostra azienda, quindi alla nostra promessa, cioè mettere al centro lo ‘human purpose’.
Può, e deve, secondo lei, l’organizzazione profit farsi promotrice e agevolare un cambiamento anche a livello sociale?
Una premessa, anzi due. I soldi sono uno strumento, il business altrettanto, per fare del bene o del male. Business e revenue non sono due parole cattive, sono parole neutre. I soldi sono un’opportunità, una meravigliosa occasione per contribuire al benessere delle persone. Ci sono aziende che in questo momento stanno comprando delle foreste, che investono nella protezione dell’ambiente, e lo fanno grazie al fatto che producono revenue. In Havas Life i nostri profitti non li diamo solo indietro agli azionisti, li mettiamo in circolo attraverso progetti ad alto valore aggiunto e quindi concorriamo nel nostro piccolo a fare del bene verso la collettività. Quindi la domanda è: ‘Quante persone ‘committate’ a fare del bene sono presenti all’interno dell’azienda? Quanta consapevolezza c’è delle organizzazioni aziendali sull’importanza di unire la parola eticità al business?’. Basterebbe questo per cambiare il mondo.
I soldi sono uno strumento, il business altrettanto
Non a caso l’importanza di formare leader consapevoli. Se all’interno di un’organizzazione esiste una struttura consapevole che la crescita economica può impattare la società in maniera consistente e concreta e si impegna fortemente perché ciò avvenga, allora la risposta alla domanda è naturale. Oggi è il ‘trust’ la leva che viene utilizzata per costruire rapporti significativi con i customer. La fiducia non è qualcosa che si può decidere all’interno di un piano marketing, ma deve essere vissuta e sperimentata da ogni singolo individuo all’interno dell’organizzazione, ciò non è possibile senza dei valori guida. Occorre investire per creare un team consapevole del suo impatto, solo allora l’organizzazione diventa un’organizzazione di straordinario potenziale.
Ricorre spesso la parola ‘coraggio’. Qual è il significato che questo termine ha per un leader?
Ci sono aziende guidate da manager e ci sono aziende guidate da leader. Ci sono aziende guidate da persone che gestiscono progetti in modo lineare con perimetri definiti che tendono a realizzare i loro obiettivi con disciplina, e lo fanno anche molto bene. Poi ci sono aziende che sono guidate da leader, da persone che si mettono in discussione ogni giorno ponendosi delle domande su come costruire valore all’interno dell’organizzazione anche in modo disruptive, come allargare spazi e confini, ridisegnando anche perimetri che il proprio headquarters gli dà. Ovviamente i leader soffrono un po’ di più. Perché si espongono di più: a volte devono trovare il modo per allargare i propri perimetri per tornare al centro del loro cerchio e devono convincere l’internazionale delle proprie decisioni, che sono un po’ diverse rispetto a quelle di altri uffici. Anche solo banalmente – una cosa che sottolineo – per differenze culturali: i bisogni possono essere diversi. Il leader è un po’ più solo, magari si trova a sfidarsi in questo allargamento di confine e deve essere più coraggioso rispetto alla possibilità che questa scelta possa metterlo anche a rischio. Il leader non sta semplicemente gestendo un progetto in modo preciso seguendo tutte le regole.
Ci sono aziende guidate da manager e altre guidate da leader
Se in una multinazionale c’è un portavoce coraggioso che individua una necessità importante di impegno sul piano della consapevolezza, del coinvolgimento personale, del rispetto della diversità, intesa in tutte le sue manifestazioni, e ha a cuore davvero la trasformazione e l’evoluzione della propria organizzazione, sa che deve mettersi in gioco, confrontarsi con il proprio ambiente, fare domande scomode, farsi giudicare, mettersi in discussione e quindi uscire da un’area di comfort e da un ambito di pura decisione direttiva, perché deve entrare all’interno di un ecosistema che è molto più complesso. Bisogna nutrire il proprio carisma, diventare il portavoce dell’azienda. Questo richiede decisamente molto più sforzo, più energia, più coraggio.
Quanto oggi c’è o sta crescendo nelle aziende una reale sensibilità nei confronti dell’attenzione alla persona?
Il tema della consapevolezza è diventato un tema, e lo dico in modo positivo, un po’ di moda, come fosse un programma a termine, e comunque va bene perché bisogna parlarne e farlo sempre di più. I processi di consapevolezza impattano sull’evoluzione, sulle performance e sulla redditività. Chiedono però investimenti, perché sono processi che devono integrare una serie di skills, o meglio una serie di aspetti formativi molto variegati fra di loro e non hanno data di scadenza.
In Havas Life il programma 2020 (Brave Heart) vede la mindfulness ma anche lo yoga della risata, masterclass sul self coaching, il counseling, letture, poesia, teatro, danza. Èun programma integrato perché ogni essere umano viene toccato attraverso leve diverse. Quindi l’obiettivo è sensibilizzare un processo integrato di consapevolezza che poi il collaboratore proseguirà auspicabilmente anche fuori dal contesto lavorativo, e il fatto che un’azienda diventi un attore capace di stimolarlo a trovare il proprio linguaggio espressivo di ricerca e di approfondimento lo trovo semplicemente meraviglioso. Un processo di consapevolezza come questo richiede energia, soldi, impegno, autenticità e soprattutto espone al fatto che il team può entrare in uno stato di crisi o di messa in discussione. Stiamo cercando di dire ai colleghi, incoraggiandoli: ‘Non abbiate paura di ciò che potrebbe emergere’. Il progetto sperimentale, di cui uscirà anche un libro testimonianza nel 2020 (sui processi integrati di consapevolezza all’interno delle organizzazioni), vuole davvero comprendere come attuare il processo e come sostenerlo.
Ci sono aziende che cercano sperimentare o di emulare ma a livello apicale fanno fatica, non hanno quella forza necessaria per poter comprendere come condurre questo genere di esperienza. In Havas Life per primo è partito il Board. Per quanto mi riguarda in realtà io ho solo il coraggio di mettermi in gioco e di accogliere quello che arriva, perché il processo di consapevolezza – questo lo dico a titolo personale – l’ho iniziato individualmente.
Alcune organizzazioni stanno intraprendendo questo percorso in maniera più autentica, alcune stanno cerando di capirne il senso e fanno un po’ più di fatica, ma si stanno adoperando. Ciò che conta in questo momento è il fatto di farlo, perché tutto questo impegno concorrerà a fare cultura. Tutto.
Camilleri dichiarava che “le parole che dicono la verità hanno una vibrazione diversa da tutte le altre”. Esiste un ‘potere’ della parola? E come può applicarsi alla comunicazione aziendale?
Con una parola noi possiamo cambiare il mondo. Nello sguardo e nella parola c’è l’intenzione. La parola definisce la verità che noi vogliamo vedere: è espressione di un’emozione che è figlia del pensiero, che a sua volta è figlio di una percezione dell’ambiente. Facciamo un esempio: i clienti fanno una richiesta assurda. A seconda di come è percepita questa richiesta – lamentela, pesantezza, odio, oppure distacco e concentrazione nel trovare come gestire la situazione – si producono dei pensieri che sono diametralmente opposti rispetto a emozioni diametralmente opposte – collera, rabbia, inclusione, ascolto – che generano inevitabilmente delle parole che possono essere pregnanti di un’energia vitale, capaci di convincere oppure no il cliente. Quindi da come si vive la richiesta e come si trasformano gli stimoli dell’ambiente, si riesce a trasferire il proprio sentire. La parola di per sé è fondamentale, ma è tutto ciò che sta prima che è indispensabile. Prima c’è il nutrimento. Le parole hanno un potere incredibile, perché quell’emozione che sottende il pensiero nutre quella parola di un’energia, che può l’impossibile. I have a dream!
L’azienda è composta da persone che, muovendosi per la crescita dell’organismo di cui fanno parte, tessono una rete di relazioni interne ed esterne con i vari stakeholder. Come i leader possono facilitare le relazioni dei propri dipendenti? Qual è il contributo che la formazione può dare?
L’organizzazione è un essere vivente, un ecosistema di connessioni che devono essere assolutamente significative in maniera reciproca. Le persone hanno bisogno di comprendere i perché. C’è necessità di informazioni. Il limite di molte informazioni è che si limitano a tecnicismi, che valgono il 20% della produttività. L’80% della produttività è generata dal talento umano.
Si può insegnare a fare le cose in maniera tecnica – e va benissimo – ma se si tralasciano gli aspetti legati alle soft skills, al coaching, al self coaching, si sta trascurando un potenziale enorme, perché sono le persone la chiave di tutti i processi trasformativi.
Negli ultimi anni sembra che si stia assistendo a fenomeni complessi e integrati. Da una parte c’è una maggiore richiesta a livello sociale di gestione e ottimizzazione delle risorse e del tempo, dall’altra vi è una necessità per i singoli di recupero della dimensione umana. Come queste istanze, apparentemente contrapposte, possono inserirsi nel contesto aziendale creando un circolo virtuoso?
Noi viviamo in un secolo straordinario, è veramente il tempo del nuovo umanesimo. Dobbiamo avere il coraggio di ridare all’uomo il suo posto, di integrare nuove parole nei nostri spazi e all’interno dei nostri programmi di crescita. Le organizzazioni tutte dovrebbero lavorare per sostenere il ruolo dell’essere umano. Vedo un dilagarsi di tristezza, la nostra società sta soffrendo perché l’uomo ha dimenticato se stesso. Le aziende devono intervenire perché hanno un ruolo sociale, possono creare quella cultura che può sostenere l’individuo a esprimere il proprio bisogno di tempo, spazio, distacco dalle continue sollecitazioni. Se non lo fanno le organizzazioni perdiamo un potenziale prezioso. Ci vuole un momento di corale risveglio. Dobbiamo osservare gli eventi e integrare la tecnologia nella vita degli essere umani in maniera consapevole per creare non solo nuovi risultati ma anche nuovi significati. Ci sono progetti di ingegneria consapevole, e dobbiamo conoscerli, sostenerli e promuoverli. Occorre capire come la tecnologia può servire l’uomo nel suo processo di risveglio e comprensione del suo ruolo nella collettività.
Le organizzazioni tutte dovrebbero lavorare per sostenere il ruolo dell’essere umano
Da marzo 2019 è presidente di GWPR Italia, Global Women in PR, associazione volta a realizzare e a valorizzare il potenziale e la piena espressione della diversità di genere e dell’inclusione. Quali sono le risorse che porta con sé il femminile?
Ci sono molte risorse che porta con sé il femminile: la creatività, un dono che la donna ha e che può essere fortemente emozionale. L’innovazione, che le appartiene: la donna è innovativa perché è una ricercatrice di soluzioni. Quello che a me piace ricordare di più è che la donna è madre, e lo è anche se non ha figli. Il seme di dare vita è in lei. Noi siamo madri, tutte. Quel femminile è in noi, siamo naturalmente portate a generare vita, quindi il nuovo. Superiamo alcune paure e alcune tensioni, perché siamo dotate di questa capacità di stare in tutte le condizioni.
Questo è il secolo delle donne e questo tempo ha bisogno dei valori del femminile.
Creare cultura del valore della diversità di genere. Come lavora l’associazione? Quali i passi che sta compiendo nella costruzione di una rete fra donne?
GWPR è nata per fare rete tra le donne e con tutte le associazioni già presenti che si occupano del tema e della diversità in tutte le sue manifestazioni. Fare rete significa vedersi, incontrarsi, creare dei momenti nei quali le donne possono confrontarsi. Poi ovviamente occorre fare rete anche sul fronte della formazione, che è la via per agire sulla consapevolezza a vari livelli, dalla leadership alle competenze trasversali, dalla consapevolezza alla comunicazione. Altro aspetto importantissimo che vogliamo perseguire è il mentoring, proprio perché tramite questo è possibile i generare cambiamenti attesi, in quanto si trasferisce un’esperienza maturata significativa e incoraggiante.
Le donne hanno bisogno di essere incoraggiate, sul fatto che meritano il loro successo, la loro crescita professionale, la loro femminilità, la loro sensualità, la loro bellezza, la loro gioia, meritano di essere amate, in primis da loro stesse. Questa società ha bisogno di tutti e due valori, il maschile e il femminile, che coesistono in ognuno di noi: occorre rimetterli in equilibrio. Questo equilibrio sarà un generatore incommensurabile di produttività, alleanza e consapevolezza di nuova umanità.
Le donne hanno bisogno di essere incoraggiate, sul fatto che meritano il loro successo, la loro crescita professionale, la loro femminilità, la loro sensualità, la loro bellezza, la loro gioia, meritano di essere amate, in primis da loro stesse
Con il nome Humaneyes vogliamo richiamare la dimensione umana, il mondo che esiste dietro gli occhi di una persona. Il suo è uno sguardo intenso e penetrante. Se avessero il dono della parola, e forse ce l’hanno, cosa direbbero di ‘Carola’ i suoi occhi?
Il mio sguardo è ricco di passione. Passione per la vita, per il potenziale umano, per la capacità di essere chi vogliamo, di costruire la nostra vita per come la immaginiamo. Èuno sguardo di una donna sognatrice, che si batte per trasformare il sogno in un’intenzione che diventa realtà.
Ci sono molte cose che i miei occhi spesso cercano di trasferire, tra queste: “Abbi il coraggio davvero di attraversare la vita”. Forse, mi verrebbe da dire, il mio sguardo racconta della possibilità che ciascuno di noi ha di compiere la propria rivoluzione umana.
Intervista di Serena Poerio
Giornalista, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi attraverso strumenti a mediazione espressiva. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.