A cavallo tra due mondi: la Germania, terra di nascita, e l’Italia, terra di adozione; l’azienda, dove ha iniziato a lavorare e l’agenzia dove è approdata per spirito di cambiamento; la creatività che la circonda, anche all’interno di ADCI – Art Directors Club italiano di cui da 6 anni è eletta Segretario Generale, e la metodicità, fondamentale nel suo ruolo professionale di Digital Project Manager. E poi la vita professionale e quella privata, che da tre anni a questa parte è una sfida da vivere in unità con suo marito.
Insieme ‘riservata e comunicativa’, si descrive così: “Opero da sempre dietro le quinte, non mi espongo quasi mai al pubblico. Il lavoro per costruire, in particolare in termini di relazioni umane e digitale, è sempre stato il mio focus”.
Empatia, flessibilità, metodo, multidisciplinarietà le parole chiave della nostra chiacchierata con Caroline Yvonne Schaper. E, naturalmente, digital.
“Sono sempre stata al 100% impegnata sul digitale – spiega -, partendo dal mondo aziendale, dove sono entrata nel 2005 lavorando nel reparto Marketing in Zeppelin Group, società altoatesina di CRM e sviluppo IT. Ci sono rimasta sei anni gestendo sia i progetti dei clienti dal punto di vista digitale, sia i progetti dell’azienda stessa. Da lì ho vissuto l’arrivo di FB e di tutti i social network, stiamo parlando degli anni 2009/2010, novità che ho cercato di portare all’interno dei progetti dell’azienda, dove ai tempi gestivo vari portali del turismo e non.
Dopo sei anni in azienda, anche ispirata dal lavoro di mio marito, Direttore Creativo multi-premiato tra i pionieri della comunicazione digitale (Massimiliano Maria Longo, ndr), ho pensato di cambiare prospettiva e di passare in agenzia: caratterialmente, e anche dal punto di vista del retaggio culturale, il cambiamento mi identifica, ho bisogno sempre di nuove sfide perché mi stimolano”
Metodo e flessibilità
Schaper entra così a fare parte di Y&R, in VML, come Digital Project Manager e dopo un paio di anni passa in M&C Saatchi come Interactive Account Director. “Lì ho scoperto che la mia attitudine caratteriale è quella di saper gestire sia differenti tipi di progetti coniugando metodo e flessibilità in maniera talvolta anche creativa, che il cliente, entrandoci in sintonia. Così come è accaduto in collaborazione con alcune piccole realtà con cui ho lavorato in seguito e, infine, in ADCI, dove sono stata eletta come Segretario e ho accettato poi la proposta di diventare anche Project Manager di ADCI Servizi, la società che eroga i servizi ai Soci di ADCI e si occupa dei progetti dell’Associazione: un bell’impegno, soprattutto se si parla di un retaggio di quasi 30 anni di eccellenza e multidisciplinarietà della comunicazione creativa”.
Dal 2015, con il Consiglio allora in carica, Schaper si prende il compito di coordinare la riprogettazione dell’ecosistema digitale istituzionale, di crearne una nuova piattaforma online per l’iscrizione agli Award e di migliorare da un punto di vista gestionale l’associazione, per lo più da un punto di vista digitale. “Ho sempre lavorato in comunicazione e marketing, ma più come organizzatrice dei flussi e per migliorare le metodologie di lavoro. Nel corso della mia vita professionale ho scoperto di me stessa che sono portata anche a trasmettere tali metodologie, specialmente con i giovani che ho sempre coinvolto in vari progetti: osservare crescere dei giovani Project Manager, che magari non avrebbero mai pensato di diventarlo, è una grande soddisfazione.
Cambiamento e metodologia sono due parole chiave.
Cambiamento è la parola che più mi caratterizza ed è anche la dimensione dentro la quale sono cresciuta, non bisogna dimenticare che io non sono italiana (ride), anche se non mi definisco tedesca. In Germania ho vissuto effettivamente pochissimo durante la prima infanzia, i miei genitori sono sempre stati in giro per il mondo per lavoro e ogni volta mi sono dovuta riambientare, cosa che penso mi abbia molto abituato ad adattarmi. Ho vissuto anche in Australia.
Stessa cosa nel lavoro: il desiderio di evoluzione, di introdurre delle migliorie, la voglia di mettersi in gioco quando si riceve un brief in agenzia, piuttosto che indicazioni dal capo in azienda o quando ci si trova di fronte a una situazione ereditata, che sia la gestione di una associazione, un portale in azienda o un sito preesistente in agenzia. Spostarsi e cambiare prospettiva… la flessibilità per me è l’essenza, perché il cambiamento non vuol dire necessariamente cambiare tutto, ma prendere il meglio, adattarlo e farlo evolvere.
E poi metodologia, qui ritorno alle origini tedesche: il metodo è molto importante, in qualsiasi ambito, ad esempio la creatività non potrebbe dare il meglio di sé senza insight basati su dati e una metodologia, e qui cominciamo a parlare di strategia, infatti se fosse lasciata a briglie sciolte, ovvero senza metodo, la stessa strategia sarebbe fine a sé stessa, specialmente in ambito digitale.
A proposito di flessibilità, come valuta la comunicazione dei marchi nell’emergenza Covid19?
Le dirò che in questo periodo mi è capitato molto più spesso rispetto al passato di vedere gli spot in tv e quello che mi ha lasciato inizialmente un po’ disorientata è il fatto che spesso la pubblicità non è cambiata: nonostante il lockdown si continuavano a vedere spot di scene di vita conviviale.
Pian piano qualcosa sta cambiando, di certo chi lavora in comunicazione e in particolare nel digital, quindi già piuttosto abituato allo smart working, non si è quasi mai fermato e quindi i tempi di reazione sono molto celeri garantendo una certa flessibilità. Per tutti, brand in primis, questo dovrebbe essere il momento – non di dire, ma di dare – per rimanere credibili agli occhi dei consumatori che oggi sono costretti ad affrontare un cambio di paradigma su molti fronti.
Per tutti, brand in primis, è il momento non di dire ma di dare
In questo scenario i social che ruolo hanno o dovrebbero avere?
I social possono rappresentare un’arma a doppio taglio, spesso vengono usati indiscriminatamente: tutti diventano protagonisti urlando al mondo quello che pensano e questo può diventare pericoloso, perché si generano facilmente conflitti incontrollabili, l’insorgenza di fake news e quant’altro. Al tempo stesso è possibile utilizzarli molto bene sia dalle persone sia dai brand. Porto l’esempio di quello che sta accadendo nel gruppo FB del mio quartiere, dove si crea una rete di mutuo soccorso, di aiuto, anche per le aziende, i ristoratori, i negozianti: hanno stilato una lista di contatti perché le persone possano comperare direttamente da loro senza andare a fare la fila nei grandi supermercati. Inizialmente le vendite venivano gestite nelle chat di WhatsApp, mentre ora stanno nascendo tanti siti e-commerce, per il momento ancora molto elementari, ma che contribuiscono ad affermare nuove modalità di business, di interazione tra le persone e che spero possano vedere uno sviluppo strutturato per il mondo che sarà domani. Infatti, quando usciremo da questa situazione, mi auguro che il lavoro, la scuola, gli acquisti, musei e cultura, gran parte di queste attività siano amplificate anche dalla fruizione di internet e degli strumenti social, è uno di quei cambiamenti evolutivi che auspico. Questo non toglie che abbiamo bisogno di tornare a fare esperienza diretta, fisica, anche perché non potremmo mai vivere immersi come in Matrix. I social e il web in senso lato però devono e possono diventare più funzionali, è qualcosa in cui credo da sempre.
Il digitale, la tecnologia può diventare uno strumento di costruzione più autentico? Penso, per restare in famiglia, alla Fondazione Homo Ex Machina, cui ha dato vita suo marito.
Sì e penso che in questo senso i marchi debbano agire più come persone che come brand, accelerando grazie alla tecnologia e seguendo i propri valori e il proprio purpose, è lì che si fa il salto. Un po’ quello che si vede nei film tratti dai capolavori di Asimov, la tecnologia che diventa persona: dove il brand dovrebbe potenziarsi relazionalmente per interagire in modo sempre più naturale con la propria utenza digitale. In Cina, ad esempio, sono molto avanti rispetto a noi per quanto riguarda i big data e la profilazione del proprio bacino di utenza e, quindi, dei clienti; riescono ad avere un contatto diretto, tailor-made, nel bene e nel male come sappiamo rispetto alla privacy. La comunicazione deve diventare sempre più personale e diretta. È in atto una trasformazione che rappresenta una opportunità per migliorare il modo di comunicare e soprattutto trovare e sfruttare in pieno tutti i mezzi di comunicazione che abbiamo a disposizione, in particolare il digital.
All’interno del settore c’è la consapevolezza del ruolo che la comunicazione può avere nella società verso un cambiamento?
Me lo auguro, mi auguro che si possa supportare la creazione di modelli nuovi su come porsi di fronte alla socialità e rispondere ai problemi.
La multidisciplinarietà è e sarà un elemento importante, sono dell’opinione che qualsiasi persona che lavori in comunicazione debba essere multidisciplinare. Nel mio primo Interactive Day in agenzia, peraltro il mio primo giorno di lavoro in assoluto nel mondo delle agenzie, il messaggio era questo:
‘tu non esisti senza di me, io non esisto senza di te’. Tutto è multidisciplinare
il mondo digitale è multidisciplinare, le persone sono multidisciplinari. Parlo della capacità di amalgamarsi per portare qualcosa di più funzionale alla vita stessa. Multidisciplinare significare anche collaborare, e qui si chiude il cerchio della citazione precedente.
In questo processo, quale può essere il contributo del femminile? Inteso anche come ‘principio’ comune a donne e uomini.
Il principio femminile sta nel coniugare il mero fine con l’empatia e la sensibilità: creare qualcosa di utile umanamente, eticamente e socialmente, mettersi al servizio dell’umanità. È un modo di vedere il mondo completamente diverso da quello che dominava fino a qualche anno fa (e che ancora esiste). Bisogna proprio cambiare quel modo di vedere e di vivere ciò che ci circonda.
Lei ha citato la Fondazione di mio marito, che mette al servizio del bene comune la tecnologia. La tecnologia è sempre stata utile a mio avviso, anche se in passato spesso è stata relegata in un angolino, trattata come un mero strumento senza adoperare una vera integrazione con le altre discipline. Ora ha il ruolo di legante.
La tecnologia è femminile perché sa unire
Da quel punto di vista sta cambiando il mondo: se io utilizzo uno strumento per andare da A a B mi baso un principio strettamente razionale. Se, invece, prendo lo strumento e lo arricchisco, lo faccio crescere e lo integro perché non voglio solo arrivare da A a B, ma pongo l’attenzione su come ci voglio arrivare, subentra l’empatia, la sensibilità, il dare valore al lato umano delle cose, il femminile.
Faccio un altro esempio, molto personale. Oggi si parla (finalmente) tanto di app e sanità digitale, potrei aprire un capitolo immenso su tutta la nostra esperienza del sistema sanitario negli ultimi tre anni: la gestione (ancora troppo poco) digitale, le barriere digitali che deve affrontare un Caregiver, come lo sono io per Massimiliano. Anche lì manca spesso la multidisciplinarietà, la visione d’insieme. Mio marito, un po’ per sdrammatizzare, dice di essere ancora vivo perché sono io la Project Manager che ha gestito il suo cancro. Il grande difetto del mondo di oggi è quello di lavorare a compartimenti stagni e di non sapersi integrare, vuoi per mancanza di fondi, di tempo o anche solo per mancanza di volontà, come dicevo manca quel ‘io non esisto senza di te e tu non esisti senza di me’.
Aspettiamo che il contributo delle donne possa crescere.
Quando si viene alle donne, soprattutto per quanto riguarda il mondo del lavoro e delle decisioni, la questione è sempre molto delicata.
E questa è un’altra storia. Di cui tornare a parlare.
Oltre 30 anni di esperienza nel mondo del giornalismo e della comunicazione aziendale; da oltre 5 anni è consulente alla comunicazione positiva.Si occupa dello sviluppo della persona attraverso strumenti a mediazione artistica espressiva, come professional counselor a mediazione corporea e teatrale