Lúcia Murat è una regista brasiliana. Prese parte ai movimenti studenteschi e di guerriglia contro la dittatura militare in Brasile negli anni ’60 e ’70. Arrestata e sottoposta a tortura da parte degli agenti militari, questa esperienza segnerà profondamente la sua opera.
Il suo primo lungometraggio, il docudramma Que bom te ver viva (1988), è stato presentato in anteprima internazionale al Festival di Toronto, rivelandola come una regista impegnata su temi politici e femminili. Il film alterna testimonianze di donne torturate durante la dittatura militare con scene di finzione interpretate da Irene Ravache. Que bom te ver viva ha ottenuto numerosi premi, tra cui quello per miglior film del Festival di Brasília del 1989, assegnato dalla giuria ufficiale, dal pubblico e dalla critica. Ha vinto anche il premio per la regia al Festival di Rio in due occasioni: con Quase dois irmãos e Praça Paris.
In occasione della recente edizione a Milano di Agenda Brasil, Festival internazionale di cinema brasiliano organizzato dall’Associazione Vagaluna, l’abbiamo intervistata.
Come pensa che l’arte possa aiutare chi vive esperienze difficili, sia chi la crea sia chi la osserva?
Penso che il cinema sia un mezzo di comunicazione molto importante, soprattutto per gli studenti liceali. Basti pensare al contesto in cui presento il mio film qui a Parigi e che presenterò in Italia. È il mio ultimo film, ed è incentrato sulla dittatura. Credo che sia molto interessante, perché mostra diversi modi di guardare alla dittatura in Brasile e nel nostro stesso Paese il film è stato mostrato a molti studenti che hanno potuto così sperimentare la differenza tra una lezione sulla dittatura e la visione di ciò che è stato vissuto, attraverso un film: un’esperienza molto utile.
Crede che l’arte possa essere accessibile a tutti come mezzo per esplorare se stessi?
Penso di sì. Perché credo che il problema più grave in Brasile sia legato alla memoria: non abbiamo un museo. Non c’è mai stato un processo per i torturatori. Come per tante cose nella storia brasiliana, cerchiamo solo di dimenticare. E penso che non possiamo dimenticare, perché se lo facciamo rischiamo di aprire la porta a situazioni simili che potrebbero ripetersi. Credo che questa memoria debba essere visibile e tangibile ovunque. Dobbiamo fare un museo, e molte cose che in Brasile non abbiamo fatto.
In che modo l’arte può farci incontrare e comprendere l’altro, anche in situazioni di conflitto?
Non credo che l’arte debba essere qualcosa che spiega. Penso che l’arte debba mostrare i nostri sentimenti. Per me è stato un privilegio realizzare tutti i miei film come desideravo. Certo, ho lavorato in televisione, e ho fatto molti lavori per guadagnare soldi, ma nel cinema ho avuto il privilegio di fare tutti i miei film perché venivano dal cuore, e penso che questo faccia la differenza. Puoi solo trasmettere un’emozione. E credo che l’arte sia questo: guardare, sentire. L’arte accade quando riesci a raggiungere qualcuno con un’emozione. È diverso dalla storia, dai libri, da ciò che si studia a scuola. È diverso…
Qual è il ruolo dell’arte nelle comunità in difficoltà? Che cosa può trasmettere in quei contesti?
Come ho detto, non volevo dare un messaggio preciso. Certo, ho fatto questo film, per esempio, perché ne sentivo il bisogno, a causa della polarizzazione in Brasile, del ruolo dei media, dei tempi di Bolsonaro e di tutto ciò che è accaduto. Non solo per ricordare cosa è successo, perché lui nega, lo nega continuamente, anzi, dice che va bene così. È terribile. Una volta ha perfino lodato un torturatore. Per me era importante mostrare di nuovo cosa è successo.
C’è un dettaglio legato al film che desidero raccontare; un soldato ha mandato un messaggio a mia madre, ed è stato molto importante per la mia famiglia. Parliamo di una storia vera, anche se il film è una finzione; non tutto è vero, ma quella parte è accaduta realmente a me e anche a molte altre persone. È successo a Caetano Veloso che, nel suo libro, racconta di un soldato che lo aiutò a poter stare con sua moglie. È successo a Cecília Coimbra, direttrice di un gruppo, e anche lei racconta di un soldato che le ha permesso di entrare in contatto con suo marito. È capitato spesso, perché, diversamente dall’Argentina, molti centri di tortura in Brasile erano nelle caserme, per questo, c’erano molti soldati che non erano coinvolti direttamente nel centro; erano lì solo perché obbligati a fare servizio militare.
Una situazione insostenibile.
C’era una retorica a cui dovevano credere, ma alcuni di loro – e volevo mostrarlo – erano in grado di dimostrare umanità ed empatia verso le vittime, anche in quella situazione. Era molto importante mostrarlo, perché per me significa anche che non possiamo demonizzare i 58 milioni di brasiliani che hanno votato per Bolsonaro. Dobbiamo rimanere in contatto con loro, senza giudizi definitivi. Al contrario, penso che abbiamo bisogno di riconciliazione. Il modo per raggiungere la riconciliazione è un giudizio storico. Dobbiamo avere un giudizio sulla dittatura. È essenziale cercare l’umanità in molte persone.
Ha visto cambiamenti in se stessa o nel pubblico attraverso le sue opere che trattano esperienze difficili?
Sai, penso che ovviamente sia diverso fuori dal Brasile, ma a Parigi, ad esempio (dove Lucia si trova al momento dell’intervista, ndr), abbiamo avuto un ottimo dibattito. È stato davvero molto interessante, ai francesi è piaciuto molto, e il dibattito è stato coinvolgente. Il problema non è capire, ma fare domande. Ci sono state molte domande su come affrontare il giudizio e il perdono, e penso che fossero molto aperti a discuterne.
Come l’arte può raccontare la condizione umana e farci riflettere su noi stessi?
Penso che l’umanità sia davanti a un momento difficile da affrontare, perché l’influenza della destra, estrema destra in Brasile è presente in tutto il mondo. Per me è ancora più difficile capire come questo possa accadere in Italia, dopo l’esperienza della Seconda Guerra Mondiale. Penso che ogni Paese possa comprendere un po’ di più di questa situazione, ma allo stesso tempo, il problema è la condizione umana. Credo che oggi, in un momento di tanti conflitti e sofferenza, i diritti umani debbano essere messi al di sopra di tutto.
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