Rilanciare nel presente l’avvio di un dialogo del passato. Offrire a mittenti anonimi nuovi destinatari. Far rivivere oggi quello che ieri è stato impresso in parole scritte e mai lette. Portare in luce l’ombra. Questi i significati cui si ispira Corrispondenze immaginarie, progetto d’arte pubblica partecipata dell’artista Mariangela Capossela, ideato nel contesto di Volterra Prima Città Toscana della Cultura 2022, approdato quest’anno a Trieste e Gorizia, e in fase di realizzazione in altre città d’Italia e oltre. Il processo di corrispondenza inizia dall’attivazione di memorie e di archivi locali, riportando alla luce le lettere che i pazienti degli ex manicomi non ebbero la possibilità di spedire, e che come loro rimasero recluse, per reindirizzarle a chi accoglie l’invito di diventare un nuovo interlocutore.
Prima della legge Basaglia in Italia (13 maggio 1978 ndr), e in altri luoghi d’Europa, era prassi impedire alle persone ricoverate qualsiasi forma di relazione con il mondo esterno, così queste scritture sequestrate giacciono nelle cartelle cliniche delle strutture sanitarie.
Corrispondenze immaginarie rompe il sistema di isolamento ed emarginazione, chiedendo una presa in carico del passato nel presente, rivolta al singolo e alle comunità. Il coinvolgimento della popolazione si articola in due fasi: la prima, Gli scrittoi pubblici, momenti performativi in cui scuole, abitanti, gruppi o individui, sono invitati a trascrivere le lettere degli ex pazienti.
La trascrizione amanuense è parte integrante del processo artistico e riprende la tradizione alto-medioevale della copia di testi manoscritti con l’obiettivo di preservare la loro esistenza.
Il secondo passaggio è una chiamata aperta a chiunque voglia ricevere queste lettere per rispondere idealmente ai loro autori, un invito a fare parte di un più ampio progetto di riconoscimento dell’altro attraverso una raccolta fondi. (qui il link per contribuire al fundraising https://gofund.me/76a03eb7).
Il ricavato sarà impiegato per liberare e amplificare il più possibile la circolazione di ciò che un tempo fu scritto da chi abitava gli ex manicomi, con l’obiettivo di permettere la spedizione di 365 lettere, una per ogni giorno dell’anno, oltre ad ampliare la ricerca d’archivio.
Perché, come ci dice Mariangela Capossela, portare nel presente la memoria di persone emarginate nel passato: “È un gesto politico in un tempo che ha messo al bando la memoria”.
Perché fare rivivere lettere di donne e uomini che dagli ex manicomi non furono spedite?
Come succede quasi sempre nella creazione artistica, nel momento di concezione dell’opera non c’è un perché. È un’evidenza, qualcosa che va da sé, un’impellenza che si iscrive nel momento dell’incontro. Non potevo fare altrimenti. Rimettere in libertà tutte quelle parole, quei fermi immagine sulla reclusione e i racconti in prima persona della malattia mentale era indispensabile e inutile al tempo stesso. Sì, in un certo modo le parole di persone che non sono più, lasciate sulle lettere, riprendono vita nel processo partecipativo degli scrittoi pubblici e della corrispondenza, ma come tutte le tracce ci parlano della presenza e dell’assenza di chi le ha lasciate. E diventa un “come se” rivivessero, un’affabulazione, un artificio e non una realtà. In questo modo quelle parole volano ancora più lontane dal loro primo significato, diventano più inafferrabili e ci parlano di libertà, di identità, di norma, di società e di rivoluzione.
Che cosa significa ‘rompere idealmente un sistema di isolamento ed emarginazione’?
Significa credere al “come se” dell’arte, e nella sua realizzazione constatare che possiamo uscire da noi stessi per rispondere a una lettera che non ci è stata destinata ma che abbiamo voluto attraverso un piccolo gesto di impegno.
Pensare e fare al tempo stesso un passo verso “l’altro” e sentirsi parte di un corpo sociale che interagisce empaticamente.
Chi sono gli emarginati oggi?
Avrei voglia di dire che sono tutte le persone a cui fare riferimento per migliorare la società, che sono il rovescio d’ombra che rende possibile la condizione di possibilità della luce. Ma nessun ragionamento mi permette di non cadere nella cosificazione dell’altro pensandolo in una categoria.
Che cosa è per te l’inclusività?
È un concetto un po’ ambiguo, perché comporta il suo contrario, è una sorta di vaccino che spera eradicare l’emarginazione. Sicuramente è qualcosa che non si decide dall’alto, che non si realizza per effetto della legge o della semplice volontà. La società è come la maionese, deve prendere a forza di energia, non basta aggiungere olio per non farla impazzire.
Qual è il potere della scrittura?
Immaginare e lasciare traccia di un mondo diverso, individuale e collettivo.
Perché fare dialogare a distanza di anni la memoria di persone del passato con un nuovo interlocutore?
Credo che possa funzionare quando si rivolge al singolare per parlare e fare del collettivo. Si danno per scontate cose preziose, ci si dimentica dei movimenti di idee che hanno rivoluzionato il modo di pensare la società come lo è stato quello degli anni 70 che ha portato alla chiusura dei manicomi.
Aprire idealmente un luogo simbolo di chiusura. Così tramite l’arte la dimensione simbolica può connotare di un nuovo significato la realtà.
Il progetto è nato all’uscita dal covid, in cui l’esperienza della chiusura e dell’isolamento per effetto della legge sanitaria è stata vissuta da tutti. Poi, quest’esperienza è stata archiviata. Lavorare sull’idea di archivio, di cosa si conserva e di cosa si ha bisogno di dimenticare porta a riflettere a cosa diviene storia, di chi la racconta e di quali racconti la scrittura della storia si nutre. In precedenti progetti avevo lavorato all’idea di archivio da inventare come un dispositivo dinamico per attivare processi di partecipazione (cfr https://www.trenodia.it/archivio/) in cui raccogliere i testi che sarebbero stati attivati nei momenti performativi dell’opera (in quel caso orale, le orazioni civili).
Nel caso di Corrispondenze immaginarie mi sono trovata davanti ai veri archivi in cui la dimensione di chiusura era doppia, sia quella del luogo della conservazione sia quella del luogo di provenienza delle lettere.
La difficoltà per riuscire a mettere in circolo quelle parole confinate mi ha dato la misura dell’importanza di quel gesto. Leggere le risposte che questa corrispondenza immaginaria ha attivato non è un’esperienza simbolica, mi dà una reale fiducia emozionale, ovvero una cognizione della realtà che non ha niente in comune con le esperienze del quotidiano. Uno di quei “significati” che non puoi spiegare razionalmente, solo sentire come un ragno, o come quando ascolti il merlo che viene a cantare davanti alla finestra.
La poetessa Alda Merini fu per otto anni internata in un ospedale psichiatrico. E i suoi scritti sono diventati opere d’arte.
Apprezzo molto l’opera di Alda Merini, la sua personalità e il suo orizzonte femmile. Ma quello che da sempre mi ispira e dà forza sono le voci che non ci sono arrivate, le mani che hanno scritto, tessuto, dipinto, scolpito e forgiato nell’anonimato.
Viviamo in una società che esalta una perfezione apparente ed è piena di fobie, difese e paure, nei confronti di se stessi e degli altri. Secondo te è possibile tornare a un concetto di umanità più allargato che comprenda luci e ombre di ciascun individuo?
Sono un’inguaribile ingenua e a tratti ottimista, quindi si’ mi sento di dire che certo, è possibile. Perlomeno, nell’immaginazione.
In che modo realizzare una umanità che risponda al significato di questa parola?
Intrecciando relazioni con l’altro da sé, qualsiasi altro, che attivi incontri epifanici, bagliori che seppur fugaci ci connettano all’universo.
Che cosa si intende per arte pubblica partecipata e perché è importante coinvolgere la comunità?
È un fare all’aria aperta e al di fuori, come il lavoro dei campi per potersi nutrire tutti.