(Dis)uguaglianze ed effetti ‘collaterali’ del lavoro agile: lo studio INAPP

Quali sono i potenziali effetti dello smart working sulla distribuzione del reddito? 

Da uno studio curato dall’INAPP, Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, emerge che attualmente in Italia, per come è praticato, il lavoro agile tende ad avvantaggiare i lavoratori con un reddito alto, in prevalenza uomini, accentuando così le disuguaglianze sociali.

Coloro che svolgono lavori caratterizzati da un’alta attitudine al lavoro da remoto hanno infatti un salario annuo più alto in media del 10% rispetto ai lavoratori con una bassa propensione allo smart working, che raggiunge il 17% tra i lavoratori con i redditi più alti. Insomma, in una ipotetica foresta di Sherwood lo smart working è come un Robin Hood al contrario, favorirebbe i ricchi e danneggerebbe i più deboli, almeno dal punto di vista del reddito. Sono questi alcuni dei risultati messi in evidenza dal Policy brief “Gli effetti indesiderabili dello smart-working sulla disuguaglianza dei redditi in Italia”. Uno studio che utilizza una banca dati unica, creata dall’unione di due indagini, entrambe condotte dall’INAPP: l’indagine PLUS (Participation, Labour, Unemployment, Survey) con un bacino di 45.000 individui in età lavorativa (18-74 anni) e l’Indagine Campionaria sulle Professioni (ICP) che raggruppa le 800 occupazioni italiane.

“Al di là del fatto che quello praticato fino ad ora in Italia non è stato un vero smart work bensì una mera delocalizzazione delle medesime mansioni che si svolgevano in ufficio – ha spiegato Sebastiano Fadda, presidente dell’INAPP – questo studio mette in evidenza gli “effetti collaterali’ del lavoro agile, che ha consentito a chi già aveva un reddito più alto di continuare a lavorare , mentre ha prevalentemente sospeso i lavori caratterizzati da bassa propensione allo smart work accentuando ancora di più le disuguaglianze tra generi e lavoratori. È un tema che va posto all’attenzione dei policy maker soprattutto se lo smart working, che ha interessato nel periodo culmine dell’epidemia una platea di 4,5 milioni di persone, continuerà ad essere una pratica molto diffusa, proprio per evitare di esacerbare le disuguaglianze già presenti nel nostro mercato del lavoro. Per questo servono politiche di sostegno al reddito per le fasce più deboli ma, soprattutto, politiche di diffusione delle nuove tecnologie e politiche di formazione professionale per i lavoratori più vulnerabili affinché il lavoro da remoto sia un’opportunità per tutti e non una scelta per pochi”.

Da quello che emerge infatti dallo studio condotto dai ricercatori dell’INAPP, “un’elevata attitudine a lavorare da remoto è più frequente nelle professioni svolte dalle donne, dai lavoratori adulti e da quelli sposati, con un alto livello di istruzione, con contratto full-time a tempo indeterminato”. Inoltre, scrivono i ricercatori, presentano una maggiore attitudine allo smart working coloro “che lavorano nel settore pubblico, che vivono in nuclei familiari poco numerosi e senza minori, nonché dai lavoratori che vivono in aree metropolitane, nelle regioni dell’Italia Centrale e nelle province che hanno riportato al 5 maggio 2020 un minor contagio COVID-19”.
Lo smart working tende infine ad essere più frequente “nei settori Finanza e Assicurazioni, Informazione e Comunicazione, Noleggio e agenzie di viaggi, Pubblica Amministrazione e Servizi Professionali”.

Quota dei lavoratori con alta attitudine allo smart-working e differenziale retributivo

I lavoratori con un basso livello di attitudine al lavoro agile sono più numerosi e riportano in media un reddito annuale lordo molto più basso rispetto a quelli con alta propensione allo smart working. Se poi si guarda al ruolo del lavoro da remoto nella distribuzione del reddito, è evidente che “al crescere del reddito da lavoro aumenta sia il divario salariale tra i lavoratori sia la percentuale dei lavoratori che svolgono una professione con elevata attitudine allo smart work”. In particolare, “se aumentassero le attività lavorative con alta propensione verso lo smart work si determinerebbe un aumento del salario medio lordo di circa 2.600 euro annui, pari a circa il 10%”; ma il vantaggio salariale riguarderebbe prevalentemente i maschi (allargando ulteriormente il divario retributivo di genere), i dipendenti più giovani e più anziani, nonché quelli che vivono nelle province più colpite dal COVID-19 (ovvero quelle del Nord e più sviluppate). Resterebbero indietro soprattutto le donne e gli adulti di età 51-64, mentre tra i dipendenti di età compresa tra 25 e 35 anni si avrebbe un effetto stabile e positivo. “I potenziali effetti di polarizzazione nella distribuzione del reddito associati al progresso tecnico – conclude il prof. Fadda- vanno quindi ridotti o neutralizzati con opportune politiche”.

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