Sin da piccolo racconta che lo abbia caratterizzato una attitudine all’osservazione. Una dote che ha portato anche nella professione e che gli ha suggerito quanto l’empatia sia necessaria nella costruzione di una relazione di qualità medico paziente.
Nicola Montano, Professore ordinario di Medicina Interna presso il Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità dell’Università degli studi di Milano, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano e Presidente della Società Italiana di Medicina Interna (SIMI) ha sperimentato in prima persona, in particolare modo nei duri mesi di lavoro durante la pandemia, la necessità di diffondere una cultura della comunicazione empatica in medicina, tanto da volerla portare nella formazione ai medici.
“L’empatia – ci dice – è una caratteristica della cura, consiste nella capacità di entrare in contatto con il paziente per stabilire un rapporto di fiducia, necessario alla adesione alla terapia.
Dato un contesto che rende sempre più sfidante la professione medica, qual è lo stato di salute della sanità oggi?
La sanità globalmente in tutto il mondo è in uno stato di salute non buono. Ogni Paese ha le sue peculiarità e il nostro Sistema Sanitario Nazionale, che è uno dei migliori al mondo, è gravemente minacciato. Se andiamo avanti senza riforme strutturali sarà impossibile mantenere questo livello.
Servizi essenziali: ribaltare il punto di vista
Istruzione e sanità sono pensati come costi attuali, in realtà nel mondo anglosassone si dice Health is Wealth, cioè la salute è ricchezza. Se la popolazione sta bene, lavora di più ed è più produttiva. Le politiche sanitarie non si possono fare dall’oggi al domani, perché hanno prospettive temporali molto lunghe. La politica ha una visione troppo breve.
Si cura il sintomo e si mettono delle pezze che sono inefficaci, ma i problemi restano e si ingrandiscono sempre di più.
Che cosa è l’empatia per un medico?
L’empatia per un medico è la capacità di comunicare in maniera efficace, anche non verbalmente, con il paziente. Questo significa comprendere, mettersi nei panni del paziente, mantenendo sempre un certo distacco. Bisogna stare attenti: l’empatia non è paternalismo, non è un generico sentimento di pietas, ma consiste nella capacità di entrare in un contatto con il paziente per stabilire un rapporto di fiducia, fondamentale, perché senza di essa non è possibile aderire a un trattamento o a un percorso terapeutico. L’empatia è una competenza che si può anche allenare. È vero che ci sono persone che nascono con un’intelligenza sociale ed emotiva maggiore di altre, ma si può lavorare sulla parte che riguarda la comunicazione”.
Lei si impegna in prima persona per portare una formazione alla comunicazione empatica ai medici. Perché?
Il rapporto medico paziente è una relazione di cura.
Così come il tempo dovrebbe essere inserito negli elementi di cura: noi medici dovremmo avere tempo per entrare in relazione e comunicare. Un medico, e mi riferisco all’internista soprattutto, alcune volte guarisce, la maggior parte delle volte accompagna, pochissime volte salva. Il nostro lavoro spesso è quello di accompagnare il paziente, laddove gli interventi terapeutici possono avere effetto anche a seconda di come venga percepita la terapia. È molto difficile che i medici cambino un percorso di un paziente solo perché prescrivono un farmaco, sarebbe troppo facile.
Il medico a volte non riesce a trasferire la sensazione al paziente di essergli accanto nel momento in cui è. Quando si sta con il paziente, dovrebbe esistere solo quello. Quando visito, ascolto, poi alla fine dell’incontro scrivo la relazione e la consegno. Calato in molto casi questo esempio è impossibile, perché se fuori c’è una fila di dieci persone ad aspettare non se la si può prendere comoda.
Guardarsi negli occhi, sedersi ad ascoltare sono elementi semplici ma fondamentali, che costituiscono elementi di connessione.
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In una medicina che usa sempre di più gli strumenti digitali, quanto conta la presenza anche fisica?
La tecnologia e la telemedicina saranno fondamentali, ma il primo approccio a un paziente non può essere telematico. Se dovessimo dirigerci verso una relazione mediata dal digitale, sarà una sconfitta, ma non può essere una scelta dettata da un’evidenza clinica di maggiore efficacia.
Viene insegnato ai giovani studenti quanto l’empatia sia elemento di cura?
Sono previste alcune lezioni, ma riguardano il terzo o il quarto anno di studi. Questi insegnamenti andrebbero rinforzati durante la specializzazione, il momento in cui la teoria si unisce alla pratica.
Non c’è nulla di strutturato. Io e i miei collaboratori siamo tutor dei nostri specializzandi e abbiamo una sensibilità per fornire una formazione che va oltre la tecnica.
Per esempio, quando parliamo con i pazienti voglio che gli studenti ascoltino come comunicano i colleghi più senior, poi man mano saranno loro a informare in presenza dei tutor.
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I medici più senior percepiscono la comunicazione come un tema da affrontare?
È un momento di grande difficoltà e di burnout della classe medica, in cui l’ospedale è visto come un posto troppo complesso, spesso tossico, in cui le problematiche non sono soltanto con paziente e caregiver, ma anche all’interno del team medico. Quando è così, è un disastro. C’è un disagio, e la risposta è quella di fuggire dall’ospedale, ad esempio, verso la medicina di base o studi privati, verso un tipo diverso di attività che sia meno legata ai ritmi ospedalieri. Osserviamo che le aggressioni nei confronti di medici e personale infermieristico sono in aumento negli ultimi anni, un trend che è l’effetto di una progressiva sfiducia non solo tra paziente e medico ma anche tra cittadini e istituzioni sanitarie. Una conseguenza anche di quello che è successo durante la pandemia.
Quanto i medici che svolgono un’attività di servizio sono consapevoli e si mettono nelle condizioni farsi aiutare?
I medici sono consapevoli, che poi questo si traduca nel farsi aiutare o meno dipende da diverse variabili: la prima è che si tratta di una scelta personale, la seconda che ci sia un sistema che si occupi di questi aspetti in maniera preventiva. Quando è iniziato il covid avevo iniziato con una psicologa alcuni incontri settimanali, per fornire supporto ai colleghi. Alcuni hanno apprezzato moltissimo, altri meno. La sfera empatica è una sfera sociale, ma personale.
L’incertezza è una variabile ineluttabile data dal tempo presente. Qual è il valore del dubbio per il medico e per la persona?
L’incertezza è un elemento che non elimineremo mai, nemmeno con l’intelligenza artificiale. L’IA per come è costruita può ridurre la possibilità di errore, migliorare la capacità decisionale, ma rimane comunque un margine di incertezza che non estingueremo mai. Non esiste nessun campo in cui non ci sia incertezza. Certo in medicina la si vorrebbe avere. Durante il covid gli esperti peggiori erano coloro che volevano comunicare certezze. Il comunicare l’incertezza può essere considerato debolezza, un segno di mancanza di conoscenza, ma l’essere sempre certi non fa aumentare l’apprezzamento della persona nei nostri confronti. Esiste una sola certezza al mondo, ed è che moriremo. Anche le diagnosi hanno tutte un margine di incertezza, perché sono probabilistiche: ci possono essere più quadri che si sovrappongono.
Quale lo spazio per lo spirito critico?
Ritengo che la dote migliore di un medico sia l’umiltà. Si tratta di una grande virtù, perché fa dubitare, studiare, pone in una situazione in cui si prendono in considerazione tutte le ipotesi.
Il pensiero critico è figlio di un atteggiamento umile, ma è faticoso.
Ci sono due tipi di ragionamenti: uno che è il pattern recognition, quello che un tempo si chiamava occhio clinico, l’altro è un ragionamento analitico, in cui si tiene presente tutto, ed è quello che deve guidare il medico.
Più ci si libera dal dover performare, più ci si libera dal ruolo.
Essere medici non significa che si sappia tutto o che si debba avere sempre la risposta. Noi cerchiamo la risposta, ma non sempre la otteniamo, perché gli strumenti che abbiamo sono comunque limitati.
Sono solito citare il caso del Doge di Venezia del 1670 che aveva uno scompenso cardiaco. Il ragionamento che si fa circa l’analisi del caso è lo stesso. Il metodo resta, le conoscenze cambiano continuamente. Che cosa è che mi fa tenere i piedi a terra? Il metodo.
A proposito di strumenti, quanto c’è spazio per un approccio olistico?
Ci sarebbero praterie, ma non vengono occupate. È un momento in cui questa visione sta emergendo.
In questo contesto si inserisce l’immagine del medico internista, che è come il direttore d’orchestra che ha la visione di tutta la sinfonia, se non c’è un direttore d’orchestra ogni strumento va per i fatti suoi. Questo è quello che fa l’internista, che non è specialista di un organo ma considera tutta la persona.
C’è una disciplina la PNEI, psiconeuroendocrinoimmunologia, che descrive un’interconnessione tra i sistemi. Come il corpo parla a più livelli, anche noi: siamo tutti connessi?
Sì. Rispetto a questo la pandemia ha fatto l’opposto di una guerra, che distrugge ma unisce: il covid non ha distrutto ma ha separato. La divisività stava nel fatto che le persone pensavano di essere connesse ma non era vero.
C’è stata una infodemia devastante. In Italia c’è un individualismo spinto e un’estrema polarizzazione. Noi siamo l’unico Paese in Europa in cui per ogni disciplina scientifica esistono più società scientifiche.
Tornando alle emozioni, quanto è importante per un medico mantenere una positività intesa come costruttività?
Fondamentale. Una delle cose che a me ha sempre aiutato è l’ironia, ma in ogni caso la comunicazione deve essere sempre costruttiva. La comunicazione positiva sta nel modo in cui si danno le notizie. Il medico non comunica mai a un paziente una notizia infausta senza aver prima sondato un possibile percorso, perché sarebbe sbagliato lasciare il paziente in balia delle domande.
Se Ippocrate fosse vivo oggi, rinnoverebbe il suo stesso giuramento o ci sarebbero degli ‘emendamenti’ da portare?
Dovrebbe fare i conti con tutta la parte di digitale, con la privacy, con un mondo che ha problematiche sociali, con una medicina in cui le ineguaglianze giocano una parte fondamentale, in cui fattori socioeconomici incidono su salute e malattia.
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Giornalista, counselor a mediazione espressivo artistica e corporeo teatrale, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.