Fra un anno diventerà maggiorenne il collettivo di fotografi documentaristi TerraProject, fondato in Italia nel 2006 da quattro professionisti – Michele Borzoni, Simone Donati, Pietro Paolini e Rocco Rorandelli -, convinti che l’immagine sia uno strumento incredibile per capire il mondo e la società, e agire su di essi in modo positivo.
Con un occhio rivolto sia alla realtà italiana che alle più rilevanti tematiche sociali e ambientali, i membri di TerraProject hanno prodotto numerosi progetti individuali e di gruppo, pubblicando sulle pagine delle più importanti riviste internazionali, tra cui Der Spiegel, Financial Times Magazine, GEO, Le Monde Magazine, Monocle, Newsweek, Paris Match, Stern, Time, The Wall Street Journal e, in Italia, su D La Repubblica, Internazionale, Io Donna, L’Espresso, Sportweek e Vanity Fair. I loro lavori sono stati esposti in varie sedi prestigiose in tutto il mondo ei membri del collettivo sono stati ospiti di numerosi festival fotografici internazionali. I fotografi di TerraProject hanno ricevuto molti prestigiosi riconoscimenti internazionali tra cui il World Press Photo (2010 e 2012), il Premio Canon (2010), il Premio Pesaresi per la Fotografia Contemporanea (2013) e il Premio Graziadei (2014).
Ce ne parla uno dei fondatori, Pietro Paolini.
Da quale esigenza è nato TerraProject? Con quali obiettivi?
Volevamo mettere insieme le nostre esperienze, nella convinzione che un lavoro condiviso faccia la differenza rispetto a quello singolo. Inizialmente c’era la necessità di essere più visibili attraverso il network, e subito è nata l’idea di realizzare progetti collettivi, attraverso una vera e propria scrittura a quattro – i progetti del gruppo sono firmati TerraProject – e, con il passare del tempo, si è strutturato un nostro stile collettivo. Questo approccio ci ha consentito di entrare nel mercato per l’originalità del nostro modo di lavorare; inoltre, essere in quattro rende possibile realizzare reportage anche molto ampi in breve tempo, e questo si rivelava molto utile soprattutto per i progetti destinati al mondo dell’editoria. Con gli anni, quindi, è andata fortificandosi l’idea che il lavoro collettivo dà i suoi risultati e consente a tutti di potere continuare a lavorare, anche in periodi in cui si è più impegnati sul fronte personale.
Come definite il vostro modo di fare fotografia?
Il nostro obiettivo è sempre stato offrire degli strumenti che permettano di comprendere il mondo e i fenomeni complessi tramite la fotografia e l’indagine giornalistica. Non realizziamo quindi fotografie spettacolari, che danno già un’interpretazione della realtà che ritraggono, ma, attraverso immagini statiche e distanti, cerchiamo di dare informazioni, presentando la complessità delle cose, con gli aspetti negativi e positivi, per suscitare domande. Definiamo quindi il nostro lavoro ‘militante’, non nel senso di schierato, ma anzi nell’accezione di appassionato, che punta a fornire degli strumenti per comprendere la complessità che ci circonda.
Quali sono i temi che trattate maggiormente?
Il primo filone che abbiamo seguito fin dalla nostra nascita è quello ambientale, che abbiamo affrontato sia a livello italiano sia a livello internazionale. Un esempio è il lavoro intitolato Land Inc. sul land grabbing, l’agricoltura industriale, che abbiamo realizzato in otto Paesi del mondo dieci anni fa, quando ancora nessuno ne parlava. All’epoca esistevano poche informazioni in merito e solo collaborando con le ong locali siamo riusciti a ottenere i dati che mancavano; grazie al nostro lavoro, siamo riusciti fare davvero informazione e conoscenza su un tema che oggi è ormai di dominio pubblico, ma che allora era ignorato. Ne sono usciti diversi servizi sui giornali anche internazionali, un libro e una mostra che abbiamo portato anche al Parlamento europeo. Inoltre, le nostre fotografie sono servite alle Ong e istituzioni locali che lavoravano sul tema per documentare la questione.
In Italia, poi, ci siamo occupati, sempre in questo ambito, di inquinamento nelle zone abitate e di rifiuti in Campania. In generale, siamo affascinati dall’esplorazione del paesaggio e delle sue trasformazioni a causa dell’impatto umano.
Un altro tema che abbiamo affrontato molto è quello della scuola, specialmente in Italia, dando spazio alle strutture più periferiche e meno visibilizzate della provincia.
Ora stiamo lavorando sui movimenti ambientalisti delle nuove generazioni, raccontando varie esperienze in Europa. Mentre io sto iniziando un lavoro in Messico sulla lotta alle tecnologie legate alla green economy in corso in America latina.
Com’è cambiata la tipologia dei vostri progetti nel tempo?
Mentre per i primi dieci anni abbiamo operato molto su scala internazionale, in questi ultimi anni stiamo focalizzandoci di più su attività di connessione con il territorio su cui lavoriamo. La rivoluzione digitale, che permette di fare circolare in tempo reale i materiali, insieme alla crisi dell’editoria, ha fatto sì che oggi l’idea del reporter che viaggia in luoghi lontani per raccontarli una volta tornato nel suo Paese, non sia più attuale. Siamo quindi tornati a un piano locale, con lavori di documentazione territoriale, che raccontano tessuti sociali ed economici di piccoli comuni della provincia italiana. In questo quadro, fondamentale per noi è l’interazione con le comunità, attraverso eventi, mostre, workshop e cataloghi che realizziamo per loro sulle loro realtà.
Un esempio eloquente è il lavoro che abbiamo fatto per il Comune di Figline e Incisa Valdarno, in Toscana, dove abbiamo realizzato una documentazione del territorio. Il progetto, intitolato ‘Il senso dei luoghi’ e realizzato tra ottobre 2021 e agosto 2022, un lavoro a lungo termine che ci ha permesso di approfondire il rapporto con il tessuto sociale della comunità e quello naturale e urbano del territorio, dando voce ad un dialogo tra l’elemento umano e quello paesaggistico. La sintesi è stata una mostra, in cui le persone hanno potuto vedere le immagini dei propri luoghi e approfondire la conoscenza della loro comunità. Sono quindi lavori che facciamo sul territorio, ma anche per il territorio, per creare un’immagine della comunità da cui essa stessa possa porsi delle domande e da cui possa nascere una riflessione sulla percezione di se stessi e del proprio territorio.
Un altro progetto molto importante è stato quello ad Amatrice, dove abbiamo seguito la ricostruzione per cinque anni, con il progetto ‘Di semi e di pietre’. Ad Amatrice e Accumoli abbiamo realizzato una grande mostra open-air, durata tre mesi l’estate scorsa: vedere le persone guardare le immagini di quello che avevano vissuto in prima persona mi ha dato emozioni impagabili, e mi ha fatto rendere conto che quello che facevo aveva un senso importante.
Lavoriamo anche per le aziende: molte che hanno a cuore la sostenibilità, ci chiedono dei lavori che raccontino ciò che fanno in questo senso, attraverso mostre e cataloghi.
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Per concludere, possiamo definire positivo l’impatto che volete avere con il vostro lavoro?
Assolutamente sì: con i nostri lavori aiutiamo chi li fruisce ad approfondire la conoscenza di se stessi in un meccanismo virtuoso. Questo perché la grande forza dell’immagine sta nella sua capacità di stimolare un pensiero critico e delle domande, che mettono anche in discussione le proprie convinzioni, per comprendere meglio la realtà in cui viviamo.
A Figline, ad esempio, grazie alle nostre foto molte persone sono venute a conoscenza dell’esistenza di una moschea sul loro territorio, di cui non avevano mai sentito parlare. Siamo infatti convinti che mettersi di fronte a una rappresentazione del proprio tessuto sociale, economico e lavorativo sia un modo per stratificare cultura in senso positivo.
Certamente, in un mondo in cui il mondo va nella direzione della semplificazione, proporre la complessità è una sfida, e siamo coscienti di essere controcorrente…. Ma a maggior ragione ribadiamo a gran voce ‘evviva la complessità’, che permette di conoscere se stessi e il mondo. Noi per primi siamo cresciuti notevolmente grazie alla fotografia, che ci ha consentito di non perderci e di leggere la realtà in modo complesso. Inoltre, mentre una volta i nostri lavori raggiungevano, attraverso i periodici, pubblici magari ampi numericamente, ma qualitativamente molto variegati, oggi grazie anche a internet e ai social media riusciamo a parlare a gruppi magari più ristretti quantitativamente, ma sicuramente più interessati, che si affezionano al nostro lavoro e, soprattutto, credono in noi. Perché la fiducia è il valore più grande.