“Questo evento è un pezzo di storia della comunicazione digitale e del domani che verrà”.
Le parole di Padre Paolo Benanti, francescano del Terzo Ordine Regolare – TOR, studioso da sempre impegnato nel mettere a fuoco il significato etico e antropologico della tecnologia per l’Homo sapiens, fanno da ponte tra umane vicende e diritti universali.
Su quanto accaduto a Washington e sulla decisione da parte di Twitter di sospendere permanentemente l’account di Trump scrive in questo articolo pubblicato sul suo blog: “Abbiamo bisogno di avere chiara la consapevolezza che non si tratta solo di come utilizziamo il mezzo ma anche di come vogliamo gestire lo spazio pubblico e democratico: come noi organizziamo le tecnologie e come le facciamo proliferare è il destino che scegliamo per la nostra società”.
Affiancare l’etica alla tecnologia, significa “guidare l’innovazione verso un autentico sviluppo umano”, come racconta a Quoziente Humano in questa intervista.
Partiamo da qui: che cosa ha a che fare l’etica con le tecnologie?
Per rispondere a questa domanda partiamo da un’altra questione, che relazione c’è tra uomo e artefatto tecnologico. Se noi guardiamo alla storia siamo una specie che ha fatto qualcosa di unico rispetto a tutte le altre, infatti già 60-40 mila anni fa abbiamo colonizzato ogni latitudine e longitudine. Quando un mammut dalle steppe siberiane si è potuto spostare in Africa ha dovuto aspettare che gli nascesse una discendenza non dotata di quella sua stessa folta pelliccia, cioè l’elefante africano. Quando noi ci siamo spostati nella steppa siberiana non abbiamo aspettato che ci nascesse un figlio dalla folta pelliccia, un hipster ante litteram, ma ci siamo vestiti della pelliccia del mammut. Laddove le altre specie hanno capacità che sono incluse all’interno del loro patrimonio genetico e possono modificare le loro competenze solo se cambiano il loro patrimonio genetico, noi trasmettiamo competenze alle altre generazioni mediante artefatti tecnologici: il primo e il più immediato di questi è il linguaggio, che è una tecnologia sociale che permette all’altro di partecipare di qualcosa di me. Ecco che l’artefatto tecnologico sta alla nostra specie come un complemento, come un di più, perché noi non siamo semplicemente la nostra costituzione biologica.
L’etica quindi…
L’etica è l’analisi su che cosa stiamo trasmettendo alle generazioni future, cosa stiamo includendo all’interno di questo artefatto, perché – tornando agli uomini primitivi – quando nelle caverne per la prima volta la nostra mano si è posata su una clava ci siamo resi conto che poteva essere uno strumento fantastico per sfamare meglio la nostra tribù o per darla in testa al nostro vicino e in quella maniera farla diventare uno strumento micidiale. Quindi ogni singolo artefatto tecnologico può essere un utensile o un’arma. Abbiamo dato le 4 coordinate che riguardano la finalità dell’umano nel nostro relazionarsi col mondo e con la tecnica; quindi la tecnica è il luogo in cui si vede chi siamo noi e quali sono le nostre intenzioni. Tutto questo afferisce a una disciplina molto antica: l’etica.
Lo sviluppo e la diffusione delle intelligenze artificiali sollevano nuovi problemi di natura etica. Che cosa accade, infatti, quando non sono gli uomini, ma le macchine, a decidere?
Come uomini possiamo decidere di delegare alle macchine di fare qualcosa per noi. L’uomo può arrogarsi il diritto di decidere per qualcun altro, la macchina non lo fa normalmente. Il linguaggio di programmazione di una macchina segue uno schema logico di questo tipo: if-this-then-that. Il programmatore figurava tutte le circostanze in cui si poteva trovare la macchina e rispondeva a quelle circostanze con alcune modalità con cui questa avrebbe risposto. Quindi se non era una cosa programmabile la macchina si fermava o faceva errore. Con l’A.I. cambia il modello, il programmatore non deve più pensare a tutte le opportunità o le occorrenze nella quale si troverà la macchina, perché questa in qualche misura sembra “imparare”, acquisisce delle competenze. Utilizzando sistemi come quelli dell’A.I., che non sono pienamente predittivi e spiegabili, mi devo chiedere cosa può decidere al mio posto la macchina? Che azioni posso farle surrogare? Con quali criteri? Con quali certezze? Ecco queste domande di fronte a un sistema di tecnologie che molto velocemente vogliono cambiare il modo con cui noi organizziamo la nostra vita ci interroga profondamente.
Che differenza c’è tra la scelta di un uomo e la scelta di una macchina?
Da quando Turing ha formulato il test dell’A.I. come una macchina che inganna l’uomo, ecco che l’uomo è in dubbio su quale sia il suo specifico e non sapendo più cos’è che ci fa uomini fino in fondo o macchine, non sappiamo più qual è lo specifico dell’A.I. e dunque siamo di fronte a un problema di tipo filosofico. Se un burattino come Pinocchio diventa umano, cosa significa essere umani? Qual è la differenza tra un burattino e un bambino? Ecco questa domanda molto antica noi oggi siamo chiamati a viverla dentro questi nuovi “Pinocchi”, questi nuovi utensili dalle sembianze umane che ci interpellano.
Quali possono essere i limiti dell’A.I.?
Ci sono due modi di capire la parola limite: uno può essere inteso come il ‘limite’ di velocità, per cui se un’A.I. deve cooperare con un umano il limite sarà quello che consente ancora all’umano di intervenire se quella prende una cantonata o dice una cosa non vera. In questo caso abbiamo inteso il limite in una modalità debole, della contenzione. Ecco qual è la contenzione che permette all’uomo e all’A.I. di coesistere?
C’è poi invece una maniera forte, che è molto più provocatoria e chiede più sferzo cognitivo. Andiamo per esempio alla definizione di cerchio che è quello che dà l’identità alla circonferenza, cioè quel luogo dello spazio che ha quelle determinate caratteristiche ed è tale perché ha quel limite. Allora il limite dell’A.I., in questo senso forte, è quello che le dà l’identità, che è quella di qualcosa e non di qualcuno, dunque dovrà limitarsi a funzionare come qualcosa in controllo con qualcuno.
Come uno strumento
Uno strumento che affianca e migliora le capacità dell’uomo e non un surrogato dell’umano. Un’A.I. che analizza l’immagine è molto abile a leggere le radiografie, un modello competitivo dice che dovremmo forse smettere di mandare all’università chi vuole fare radiologia perché è meglio la macchina, un modello cooperativo invece ci dice che l’uomo che saprà usare bene l’A.I. sarà un radiologo migliore di uno che non la sa utilizzare, allora sono due modelli completamente diversi, però è chiaro che giocano sul significato della parola limite. Dal mio punto di vista il limite è quello che ci ricorda che la macchina non è un uomo.
L’algoritmo può essere un nuovo attore nel mondo del lavoro?
Per algoritmo intendiamo non solo l’A.I. ma qualsiasi processo che voglia risolvere un problema in un numero finito di passi, dunque posso pensare di algoritmizzare il lavoro. Quanto la macchina potrà prendere il posto dell’uomo? I colletti bianchi saranno probabilmente quelli ad essere maggiormente minacciati da questo tipo di rivoluzione, poiché più il lavoro si datifica e più la macchina è brava, ma la genialità di trovare una soluzione da parte dell’umano è qualcosa che ancora la macchina non ha. Laddove il lavoro diventa digitale le interconnessioni tra noi vengono gestite anche mediante algoritmi, non sono più relazioni di ufficio solo tra le persone. L’algoritmo è un prodotto di proprietà intellettuale, è una scatola chiusa in cui non vediamo dentro, fatta di conoscenze che non sappiamo controllare fino in fondo, è dunque uno scenario complesso che va pensato da un punto di vista politico e sociale perché ha il potere di far cambiare le cose.
Lo scenario nuovo che stiamo vivendo ha investito molti settori della nostra vita, dal lavoro all’istruzione, dalla socialità alla salute. Lo sviluppo tecnologico che ruolo può avere? Quale rapporto possibile tra la tecnologia e la qualità della vita?
L’innovazione tecnologica che sa diventare sviluppo, cioè un servizio all’uomo e alla comunità, sarà quella che quantifica meglio la qualità della vita delle persone anche in un periodo come quello del COVID-19. Per esempio gli anziani che vivono una condizione di isolamento e solitudine possono essere supportati da algoritmi, robot ed altri dispositivi che anticipino i loro bisogni e necessità ma che allo stesso modo li possono anche profilare, schedare e sfruttare con una serie di cose che magari loro non sanno gestire. Entrambi sono strumenti molto innovativi, non tutti e due sono strumenti di sviluppo. Purtroppo il bene ed il male non si riduce dentro una macchina, ma passa dritta al cuore dell’uomo. Allora ciascuno di noi è chiamato a vigilare, a fare la sua parte all’interno di un contesto sociale affinché l’innovazione si trasformi in sviluppo.
Ci troviamo di fronte a una vera e propria rivoluzione di valori: le domande esistenziali rimangono, ma dove trovano risposta?
Quello che risuona oggi è ancora una ricerca di senso, di bello che riguarda la nostra vita; noi non siamo solo esseri di scopo, come le macchine. Quando la tecnologia può aiutarci a vivere questa ricerca di compiuto la sentiamo come partner e come amica, quando ci strappa questo in funzione di altro ecco la sentiamo come qualcosa di estraniante, di alienante, che ci toglie parte dell’umanità. Nell’uomo c’è questa categoria dell’esistere che richiede categorie altre che non sono semplicemente meccanizzabili e che ci fanno dire che il nostro valore è il non valere solo qualcosa ma essere qualcuno.
Come le tecnologie possono essere al servizio dell’uomo e non togliergli dignità?
Innanzitutto non emarginandolo, tenendolo al centro, e poi essendo al servizio. Se noi facciamo delle A.I. e delle tecnologie e le mettiamo in una sfida evolutiva darwiniana “homo sapiens vs macchina sapiens” ecco che c’è una lotta contro l’estinzione, come avvenne coi dinosauri. Se invece la macchina è tutto ciò che serve all’uomo per fiorire nelle sue potenzialità ecco che questa è già un’ottica volta al servizio.
Abbiamo vissuto in questi mesi un esplosione di abitazione del digitale perché spazio e tempo sono stati proibiti. Come rigenerare questa generazione forzatamente digitale?
E se noi vedessimo il COVID-19 per questa generazione come un’opportunità? Improvvisamente questa pandemia, la didattica a distanza, l’iperdigitalizzazione ha forzato i giovani a entrare in questo mondo, è chiaro che ora stanno soffrendo però si adattano perché hanno una grande caratteristica che è la resilienza e sapranno acquisire delle competenze che noi ce le sogniamo. Può risultare una risposta provocatoria ma forse potremmo dare delle letture molto interessanti di queste nuove capacità in maniera positiva. Un modo per interrogarsi sul presente potrebbe essere quello non semplicemente di piangere ciò che non c’è stato, quello di cui sono privati e la sofferenza, ma di aiutare questa generazione a vedere quel qualcosa in più che si ritrovano in tasca grazie alla situazione che hanno vissuto.
Nella spasmodica ricerca di contenere il dilagare della pandemia, sono stati approvati decreti emergenziali volti a ridurre il più possibile i contatti sociali dei cittadini. Se la speranza, per molti, è quella di un rapido ritorno alla normalità, è lecito chiedersi: come sarà il “dopo”?
Dipende. Qualcuno pensa che questa pandemia sia stata una sorta di alluvione per cui si riabbassa l’acqua, diamo una pulita e riaggiustiamo quello che si è sfasciato, piangiamo le vittime e poi si riparte. O potremmo non avere più la forza di stare insieme come stavamo prima, tanto le connessioni digitali in un attimo ci mettono uno davanti all’altro o potrebbe succedere che riscriviamo le città. Ecco è tutto molto incerto. Il dopo non sarà semplicemente l’effetto di adesso, ma anche i sogni e i desideri che viviamo nell’oggi. Allora leggiamo quello che in questi mesi ci è stato tolto per chiederci cosa veramente vogliamo e come vale la pena vivere, proviamo a impostare nuovi stili di vita che sappiano essere compatibili con tutto ciò che pensiamo importante per noi e per le generazioni che verranno, perché il domani sarà in base, in parte, a come lo sogniamo.