Francesca Nodari, filosofa
Francesca Nodari

Osiamo pensare con la nostra testa. Non siamo automi, siamo esseri umani

“Osare opporsi alla pratica molto usata del brainwashing”, “osare esserci anche quando costa”, “osare essere unici”. Osare è la parola chiave scelta per la diciottesima edizione di Filosofi lungo l’Oglio, maratona del pensiero che si fa nomade, un viaggio insieme a trenta pensatori italiani e stranieri, con 30 incontri in 23 municipalità, tra le provincie di Bergamo e Brescia.

Un cammino che, grazie a Francesca Nodari, filosofa che ha ideato e dirige il festival, fa tappa anche su Quoziente Humano.

Qual è la sfida dell’osare oggi?

È tornare a pensare con la propria testa, uscire da quello stato di minorità in cui spesso ci troviamo rinchiusi, perché assaliti da una miriade di notizie, tante fake news, e rischiamo di diventare passivi rispetto a ciò che ci circonda. Abbiamo scelto ‘osare’ come parola chiave, perché ha da un lato un aspetto estremamente positivo: il coraggio di dire si, di dire no, di utilizzare un linguaggio ‘ecologico’ che ci porti a mettere in pratica quella parola un po’ maltrattata che si chiama dialogo e di cui oggi abbiamo un grande bisogno.

Osare significa anche servirsi di un linguaggio, parresiaco direbbero i greci, che dice la verità, senza buonismi, senza giri di parole.

La cito, ‘implica anche tornare ad avere speranza’.

Sì, e calare questo tema nelle terre che hanno pagato un prezzo altissimo durante l’annus horribilis della pandemia ha un significato molto forte, qui l’elaborazione del lutto è stata estremamente complessa e, a mio avviso, è ancora in corso per molte persone. In un mondo iperconnesso ci si è sentiti di colpo sentiti prigionieri; calare il tema in queste terre significa anche osare guardare al di là della siepe, come direbbe Leopardi, recuperare quello sguardo attento, curioso e fiducioso sull’avvenire.

Comprendere, domandarsi, scoprire

E questo in un contesto molto più ampio, che è il nostro presente, in cui, come diceva un grandissimo sociologo scomparso, Zigmunt Bauman, viviamo in una situazione retrotopica, ovvero, per la condizione di instabilità che nel nostro paese si sta vivendo da troppo tempo, le persone, soprattutto i giovani, tendono a guardare verso il passato e non riescono più a spostare lo sguardo verso un futuro.

Quali parole ci possono aiutare a rialzare lo sguardo?

In apertura del Festival, Ivano Dionigi ha individuato tre verbi che costituiscono un suggerimento per vivere con delle teste ben fatte e non solo piene di informazioni: intelligere, il comprendere. Diceva Spinoza, davanti alle difficoltà non c’è da ridere, non c’è da piangere, ma c’è da capire per uscire dal guado, per cercare di risolvere i problemi che ci sono nella nostra quotidianità. E c’è, poi, bisogno di interrogare, il domandare. E, infine, il terzo verbo, invenire, scoprire: quello che c’è già di noto, con il coraggio di ‘inventare’ quel novum che ci consente di andare al di là di una realtà complessa, per vivere pienamente e meglio la propria esistenza.

Viviamo in una società che ci vuole bambini, incapaci di avere un nostro pensiero.

Non c’è più Kant che ci dice ‘fuori dal girello’, di diventare adulti e, purtroppo, questo è un problema molto legato a quella che è diventata una tecnocrazia: il velocissimo dirigersi verso l’intelligenza artificiale, la competizione tra l’uomo e la macchina, dove l’uomo è antiquato direbbe Günter Anders, diventano pericolosi. La tecnica deve restare un mezzo non può diventare un fine. Non credo di essere Matusalemme, ma non riesco a capire perché questa tecnologia stia diventando una protesi indissociabile da noi stessi.

Siamo unici e abbiamo bisogno dell’altro

Il tema del suo intervento all’interno del festival è osare essere corporei.

Nell’era in cui il corpo è esibito, cosificato, violentato, in cui le donne continuano a morire di femminicidi, paradossalmente, si è persa la consapevolezza della corporeità. Rimaniamo figli di Cartesio, c’è una dicotomia tra la testa e il corpo, tra la res cogitans e la res extensa, si fa fatica a comprendere fino in fondo che siamo una unità psicofisica e ciascuno di noi è una persona unica nella sua peculiarità. Grazie al cielo non siamo seriali, almeno fino ad ora, non siamo prodotti riproducibili in serie.

Serve riaffermare il senso della grandezza, della bellezza, della nostra unicità, nella nostra fragilità e finitezza. Tornare a essere consapevoli che siamo finiti e mortali non è una considerazione triste e banale, ma un tentativo molto forte di farci rendere conto che abbiamo del tempo prezioso a disposizione e che dobbiamo deciderci, come direbbe il mio grande maestro Bernard Kasper, dobbiamo prenderlo sul serio, perché abbiamo bisogno dell’altro.

Come si fa a prendere sul serio il tempo?

Per farlo e dare corso al fatto che abbiamo bisogno dell’altro per vivere e crescere, dobbiamo partire da noi stessi. Dobbiamo prendere delle decisioni, tornare a intelligere, come dicevo, diventare fonti di domande che non ci facciano rimanere sulla superficie nella quale la nostra società dei consumi e della tecnica, dove l’uomo è diventato un phono sapiens, direbbe Byung-chul Han, vuole farci restare.

No, noi siamo molto altro che un mero phono sapiens, o un mero automa in competizione con una macchina: va ribadita con forza e qua si deve osare farlo, la nostra umanità, la nostra unicità.

Relazioni feconde

Ha parlato di separazione tra mente e corpo. Aggiungiamo le emozioni.

Il recupero delle emozioni è fondamentale, tornare ad ascoltare se stessi, quel silenzio che non è una mera contemplazione, ma serve ad aprirsi all’altro, o diventeremmo tutti, direbbe Leibniz, “senza porte e senza finestre”. In un certo senso, siamo in questa situazione, perché le emozioni oggi sono bloccate, si ha paura, ma si ha paura di dire che si ha paura, perché la società ci ha voluti così: perfetti. Molti studiosi ripetono che siamo in una società, e non è una delle migliori possibili, dove v’è molta rabbia, senso del rancore, si arranca, forse per quel timore di non avere più la ‘certezza’ di un presente stabile. Ci troviamo forzatamente irretiti in un presente dove ci è chiesto il massimo e, così, dobbiamo soffocare la paura, il sentirci fragili e il bisogno di una parola che viene dall’alto.

E di amore...

Una grande emozione a cui se ne legano molte altre. Ci si crede molto poco, si preferisce non impegnarsi nelle relazioni, perché è molto più facile ‘cosificare’ l’altro invece che considerarlo: un altro che è totalmente irraggiungibile e che non potrò mai in alcun modo ridurre a me. Di qui, la paura e il diventare sempre più egocentrati, manifestare rabbia, rancore, anziché gioia, fiducia, tenerezza. Deve esserci l’antagonismo, devo mostrarmi migliore di un altro perché se così non faccio rischio di perdere il carattere, la forza della mia prestazione. Una società dove domina ancora fortemente l’insocievole socievolezza di Kant.

È uno sguardo pessimista?

È estremamente realista, sono anni che nel corso del festival si ripetono alcune considerazioni, una è che stiamo perdendo il legame sociale, stiamo minando la relazione, stiamo andando, per dirla come Sequeri, verso il ‘monoteismo del sé’ e ciascuno di noi si sta arroccando nella sua soggettività, perdendo di vista il fatto che non possiamo concepirci, sentirci, viverci indipendentemente dall’altro. Credo che questo sia un tema molto importante che riguarda non solo l’altro uomo, l’altra donna, ma anche le cose, tutto ciò che ci circonda.

Per questo avete deciso di proporre passeggiate tra le ‘cose’?

Sono passeggiate filosofiche, che abbiamo chiamato, forse con una parola difficile, “Maieutica delle cose”. Come Socrate faceva parlare le persone, allo stesso modo proviamo a far parlare le cose, a ridare dignità alla natura e ad avere il coraggio di stare in silenzio, perché anche attraverso la contemplazione del bello che ci circonda si può arrivare a godere degli istanti di felicità a cui ciascuno di noi mira. Riappropriarci di una sensorialità credo possa, ancora una volta, farci scoprire quelle emozioni di stupore, di gioia, di gratitudine nei confronti di tutto il creato, di cui siamo meri custodi e non padroni. C’è bisogno di questo sguardo, di trasformare l’ostacolo in slancio.

In una società che ci inonda di cattive notizie e ci vuole divisi, come si trova questo slancio?

Credo che parta dal ribaltare la dialettica tra servo e padrone: dobbiamo smettere di essere servi di questa società che ci vuole, come si diceva, bambini e pervenire finalmente a una consapevolezza piena che così non si può andare avanti, che il ‘ci penserò domani’ non ci aiuta. Come diceva Dionigi, siamo in un momento che si trova nel famoso ‘tra’: tra un’era che si sta concludendo e una che si sta schiudendo. Ci stiamo dirigendo verso una nuova dimensione della nostra umanizzazione che ci chiede di fare uno sforzo, di trovare le energie. In un momento così complesso, non è facile, non c’è una soluzione preconfezionata, ma io credo che ci si possa arrivare attraverso la pratica del farsi e fare domande, la famosa ars interrogandi.

Dire no alle derive tecnocratiche

Il soggetto ha bisogno di strutturarsi e andare avanti, di avere degli obiettivi e di sapere non si perseguono come dei soldatini, ciascuno per sé. Ribadisco, dobbiamo tornare a costruire relazioni feconde, che davvero ci consentano di superare quell’ostacolo, di prepararci a ciò che ancora non conosciamo, a ciò che è incerto e a cercare di inventare quel novum che non può che partire dalla consapevolezza della nostra piena condizione di ‘esseri di carne e di sangue’, per usare una espressione biblica molto forte.

E allora, senza voler demonizzare nulla, avere anche il coraggio di dire no a certe derive tecnocratiche, a quella vergogna prometeica che, se non si fa nulla, se non si dice nulla, non si mettono in atto azioni che diventano relazioni, ci può portare a una riproducibilità di noi stessi. Chissà tra quanto, o invece tra quanto poco…

Ciascuno a mio avviso dovrebbe partire dal riscoprire la sua straordinaria unicità, a dispetto di quanto tutta la tecnocrazia, la società dell’iper-connessione e dell’iper-informazione vuole farci credere.

Sulla unicità della sua storia, lei ha scritto un libro sul rapporto con il padre.

‘Storia di Dolores’ racconta la mia esperienza personale molto forte, un rapporto terribile con il padre, un rapporto violento, di inferiorità, dove il grido del ‘sapere aude’ l’ho sentito molto forte sin da quando avevo 16/17 anni. Quando mi si dice quello che è passato è passato, che va messo in un cassetto, mi arrabbio tantissimo. Secondo me non deve funzionare così, le esperienze, soprattutto quelle negative, richiedono una elaborazione, uno sforzo, un forte impegno psico-fisico ed emotivo.

La consapevolezza di quello che siamo, per quello che abbiamo vissuto e per come l’abbiamo vissuto, ci permette di mettere a frutto nella vita le esperienze fatte, con quella fiducia, quello sguardo lungo verso il futuro che niente e nessuno ci può togliere.

Sino ad ora abbiamo parlato molto di ‘realtà’, mentre spesso la filosofia può apparirne distaccata.

Spesso la filosofia è considerata come qualcosa che vive nell’iperuranio di Platone, non c’è niente di più sbagliato, noi stiamo parlando delle nostre vite. Hegel ha dato una definizione molto bella, ‘la filosofia è il nostro tempo appreso con il pensiero’. E io aggiungerei con la nostra corporeità.

La filosofia raggiunge tutta la sua potenzialità se sa calarsi nelle pieghe del reale, altrimenti resta sterile teoria per pochi, il festival ha questa missione, portarla in mezzo alla gente. Attraversare i confini perché diventino ponti, incontrare le varie comunità, portare loro il pensiero nello sguardo interrogativo, la provocazione, la riflessione di questo o quel relatore e relatrice.

Leggere il presente

Spesso ho visto giovani che stavano seduti per terra alle 11 di sera a prendere appunti. Li raggiungiamo giocoforza sui famosi social e vediamo che se li si sollecita rispondono. Il bello del festival è che il pubblico è davvero composito, una percentuale bassissima è composta da chi ha fatto filosofia e questa per noi è la vittoria più grande.

Il Festival parla a tutti quelli che sentono una forte richiesta di senso.

Le nostre agenzie educative, purtroppo, sono in riserva, per usare un eufemismo, e le persone hanno bisogno di dotarsi di strumenti critici per leggere il presente, sono curiose, sono parte integrante dell’incontro. L’attenzione, il silenzio religioso, molti che prendono appunti sono indice di un’alta divulgazione che, con umiltà ma anche perseveranza e convinzione, vuole andare a colmare il gap che c’è in un mondo così pieno di informazioni e così poco avvezzo all’approfondimento.

Questo senso può aiutarci a superare l’incapacità di capire che le nostre azioni hanno delle conseguenze sugli altri?

Quando si ascoltano le parole della persona che ha ucciso in maniera così crudele la compagna e il bambino che aveva in grembo ci si rende conto che siamo in una situazione di grande sfasamento, di grande confusione, c’è talmente rabbia, poco tempo, poco rispetto dell’altro, che non ci si ferma più neanche a pensare quelle che potrebbero essere le conseguenze delle nostre azioni.

E mi permetta di dire che siamo stanchi di sentirci ripetere che gli autori di femminicidio sono stati preda di un raptus. Non è così, la premeditazione, senza voler fare processi a nessuno ma volendo affrontare una piaga del nostro paese e del mondo, va preso in seria considerazione. Non vogliamo più sentire il rifugiarsi nella perizia psichiatrica, perché la possibile infermità potrebbe dare uno sconto di pena. Uno dei grandi problemi, è questa scarsa consapevolezza delle conseguenze delle nostre azioni, come se tutto fosse possibile, se tutto fosse permesso, il confine tra la libera scelta, fondamentale nel rispetto di quella altrui, e l’autodeterminazione, che è altrettanto importante finché non va a ledere l’altro: non posso in nome del mio libero arbitrio uccidere l’altro ed è, invece, quello che sta accadendo.

Un’ultima domanda ispirata al nostro nome, come definirebbe il quoziente umano?

È tutto. Quoziente umano è quella straordinaria possibilità che noi abbiamo oggi per non arrancare in un presente così difficile, non solo per dire la nostra ma per esserci pienamente nella nostra umanità, nel nostro esserci in carne e ossa, nel nostro prendere sul serio il tempo, che è un concreto toccare il fatto che senza gli altri noi non saremmo nulla, saremmo semplicemente degli ego tracotanti.

Osare ci ricorda, come hanno sempre fatto i greci, che non siamo Dio, che dobbiamo stare attenti a non superare quel limite, quell’hybris, che poi porta alla bestialità, perché chi tratta la propria donna avendo potere di vita e di morte che cosa si sente se non un dio e dove è finita l’umanità in quella persona? E si può ancora chiamare persona chi ha perso questo quoziente umano?. Credo che solo se si fa fruttare questo potenziale che abita ciascuno di noi, possiamo non solo credere, ma impegnarci per costruire, ciascuno facendo la propria parte, un mondo migliore.

Mi permetto di sottolineare un ultimo aspetto, oggi si continua a parlare di spazio e molto poco di tempo, dobbiamo tornare a mettere al centro l’importanza del tempo. Non solo il tempo degli orologi, che scandisce le nostre agende piene di cose da fare: esiste un tempo che Levinas chiama diacronico e scorre trasversalmente, diventa qualcosa di tangibile perché è scena dell’incontro importantissimo con quell’altro che non potrò mai ridurre a me, quell’altro che mi consente di considerarlo compagno o compagna di viaggio nella mia vita. E se il cammino è un rischiare, come dice Enzo Bianchi nella sua lezione, rischiare da soli o rischiare insieme è tutt’altra cosa.

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Monica Bozzellini
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Oltre 30 anni di esperienza nel mondo del giornalismo e della comunicazione aziendale; da oltre 5 anni è consulente alla comunicazione positiva.Si occupa dello sviluppo della persona attraverso strumenti a mediazione artistica espressiva, come professional counselor a mediazione corporea e teatrale

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