Una donna a volto scoperto, tra donne completamente velate con il burka

Fuorché il silenzio

Vietare alle donne di lavorare nelle ONG, e serrare le finestre che affaccino sui luoghi frequentati dalle donne. Sono solo la più recente stretta, in avvio di 2025, di una morsa che il regime talebano talebano opera sul mondo femminile in Afghanistan dal suo ritorno al potere.
Una realtà, quella delle donne afghane, che ritroviamo in un libro di recente pubblicazione, in trentasei storie autentiche e dirette: sono le protagoniste di ‘Fuorché il silenzio’ nato in contemporanea alle manifestazioni contro le leggi restrittive dei diritti delle donne, che si sono sollevate tra l’agosto del 2021 e l’aprile del 2022.

Un progetto, questo libro, che parte proprio dal 2021 e dalla presa di Kabul da parte dei talebani. Come ci racconta Shabnam, nome di fantasia dietro il quale, per protezione, c’è un’altra donna, che lavora per una organizzazione internazionale, vive tra l’Italia e l’Afghanistan e ha tradotto nella nostra lingua le storie di cui parleremo.

“Il titolo in lingua originale del testo era La libertà ha voce femminile, poi finalizzato in Fuorché il silenzio, che ne racchiude lo spirito: il punto fondamentale è la voce, il non aver paura ed esprimere, in questo caso, il proprio dissenso. Non accettare il silenzio imposto.
Non è facile per una donna in Afghanistan scendere in strada a protestare, ci sono una miriade di ostacoli e quelle poche coraggiose che l’hanno fatto sono davvero meritevoli di grande ammirazione”.

Una di loro si chiama Zainab Entezar.

Regista e scrittrice non ancora trentenne ha deciso di raccogliere alcune delle loro storie: ne ha intervistate 50 con l’idea di un documentario video, poi si è resa conto del pericolo che stavano correndo. Se mai l’avessero arrestata o uccisa avrebbe messo a repentaglio le loro vite, con il rischio che quelle voci non andassero mai oltre la sua telecamera.

Cosa ha cambiato il progetto?

Zainab si è messa in contatto con Asef Soltanzadeh, scrittore afghano in esilio che, dopo avere vissuto, pubblicato e vinto premi prestigiosi in Iran, da una decina d’anni vive in Danimarca. Si è subito reso disponibile, ha trascritto i racconti, cercato dei traduttori e chi lo potesse aiutare a spargere queste storie raccolte nel periodo più caldo. Le proteste sono poi state lentamente represse, ce ne sono state alcune dopo che alle donne è stata tolta la possibilità di frequentare corsi di studi medici (nel mese di dicembre 2024, ndr), ma restano limitate ai social media, a iniziative fatte in luoghi chiusi, in cui sono mascherate, irriconoscibili per non rischiare arresto, tortura, umiliazioni… che molte delle protagoniste di questo libro hanno vissuto.

Come sono arrivate a te queste storie?

Il testo è stato pubblicato per la prima volta in lingua originale Dari in Danimarca, poi arriva in Francia grazie a una famosa traduttrice afghana, Sabrina Nouri, che chiede aiuto a una ex studentessa di Ca’ Foscari, la quale a sua volta contatta Daniela Meneghini, curatrice dell’edizione italiana e professoressa di letteratura persiana che lo propone a me. Ho tradotto qualche racconto e ci siamo rese conto che era necessario dare voce a tutte le testimonianze. Poi altri tre traduttori si sono uniti al progetto, lungo e faticoso con 400 pagine di racconti: 36 storie ora pubblicate da Jouvence.

Le protagoniste hanno estrazioni molto diverse.

È ciò che distingue il nostro libro da altri simili pubblicati dopo il 2021. Si tratta di donne che si esprimono nella propria lingua, tante non parlano inglese; hanno età diverse, seppure in maggioranza molto giovani; alcune sono conosciute, giornaliste, attiviste; altre di cui non abbiamo mai sentito e non sentiremo più parlare.

Non per sé, per tutte

Tutte, da quelle con un profilo più umile a quelle che hanno ottenuto risultati importanti a livello pubblico, portano la testimonianza di una lotta personale contro ostacoli di ogni tipo: famiglia, società, guerra.
Nonostante la maggior parte di loro sia cresciuta durante l’occupazione americana, va chiarito che non c’è mai stata un’età dell’oro, nonostante si sia cercato di rimandare l’immagine del ‘prima com’era bello’, non è così. Le donne sono riuscite a ottenere risultati in Afghanistan con grande fatica, gli ultimi 20 anni hanno dato un po’ più di possibilità, principalmente nelle città, ma non si è passati dal giorno alla notte.

Cosa le tiene in questa lotta?

Sono pronte a sacrificare se stesse e la propria famiglia per un bene più grande: per tutte le donne, le ragazze, le figlie dell’Afghanistan. La consapevolezza di questa necessità di sacrificio è ciò che mi ha colpita di più e che direi essere il filo conduttore di questo libro.

Hai detto che per le donne non c’è mai stata una età dell’oro in Afghanistan.

Nel mondo, pur declinata secondo le varie culture, la condizione della donna sembra essere ancora troppo spesso quella di oggetto: di scambio, da possedere, da usare per vendetta.
C’è una sorta di perversione che faccio fatica a concepire. È quasi impossibile identificare i colpevoli, è un accumulo di secoli di pratiche di un certo tipo, di traumi generazionali. Non si può fare una distinzione netta tra uomini cattivi e donne vittime, traspare da alcune delle storie una complicità nella loro stessa vittimizzazione. Fa male, ma è qualcosa che esiste, meccanico e inconsapevole. Da un lato ci sono donne nemiche di altre donne, non è un fenomeno unico all’Afghanistan chiaramente, e dall’altra parte ci sono uomini che le sostengono, e anche questo si legge nelle storie. Non si può semplificare, come spesso vediamo nei media.

E poi ci sono le responsabilità familiari, le aspettative della comunità: in una società che dà molta importanza alla appartenenza etnica, all’onore e al rispetto di alcuni codici morali, tante non escono di casa per protestare per non mettere a repentaglio l’onore della famiglia e tante famiglie non fanno uscire le donne per questa ragione.
Però, capire come si sia arrivati alla situazione attuale… Che le donne possano avere un pensiero proprio, delle opportunità, una strada, una indipendenza sembra essere una minaccia per gli uomini afghani. È l’unico paese musulmano al mondo a mettere questo genere di restrizioni.
Sarebbe interessante comprendere anche a livello simbolico che cosa porti una società a reprimere il suo femminile in questo modo.

In tutto questo, il Paese vive un isolamento internazionale.

È una situazione molto complessa: da un lato la comunità internazionale non vuole legittimare questo governo, a meno che non accetti determinate condizioni, tra cui l’istruzione femminile.

Equilibrio necessario

Dall’altro, l’isolamento non impatta solo sulle donne, ma anche sui giovani e sulle loro prospettive per il futuro: tante organizzazioni se ne sono andate, l’economia del paese è sottozero, i livelli di povertà sono saliti tantissimo, la disoccupazione è alle stelle e tante famiglie non hanno da mangiare. Le problematiche si accumulano e rendono la situazione della donna comune afghana ancora più difficile da sostenere. Non c’è più la possibilità di sfuggire dalla violenza domestica, per quanto anche prima fosse molto difficile c’erano le cosiddette case sicure, dei rifugi che ora non ci sono più, così le donne che scappano da un matrimonio o da una famiglia violenti finiscono in carcere.

Vengono arrestate?

Da un lato, perché scappare di casa è un delitto morale; dall’altro, in alcuni casi, semplicemente vengono tenute in carcere per la loro sicurezza. Chiaramente non è una soluzione. È difficile trovare l’equilibrio come comunità internazionale, senza legittimare un governo che porta avanti una politica discriminatoria inaccettabile; d’altra parte, senza legittimazione non è possibile avviare progetti di sviluppo economico e se non ci sono investimenti per rimettere in piedi questo paese ne soffrono i civili.
Si è visto anche che la pressione internazionale non sta avendo i risultati desiderati.

In una situazione così complessa, qual è la tua storia?

Ho iniziato a lavorare a Kandahar come interprete di lingua pashto. Come sono diventata interprete di pashto? All’università avevo studiato hindi e urdu, poi nel 2017, vivendo in India a Delhi, dove ci sono tanti rifugiati afghani, ho iniziato a studiare pashto.
Faccio un po’ fatica a trovare una spiegazione razionale, ho sempre sentito il fascino dell’Afghanistan e il pashto era una sfida: una lingua difficile, con poche risorse per lo studio. La svolta c’è stata quando, mentre ero in Iran a studiare il persiano, sono stata chiamata da una organizzazione internazionale proprio per andare in Afghanistan, una decisione da prendere nel giro di pochi giorni: una opportunità che mi ha cambiato la vita, c’è stato un prima e un dopo. Ho vissuto lì da gennaio 2019 a settembre 2021, poi sono tornata in Italia, poi in Afghanistan poi in Italia e poi in Afghanistan. Una relazione che non riesco a chiudere, difficile dire cosa mi riporti lì…

In questo muoverti tra l’Italia e l’Afghanistan, nella tua identità di donna, c’è qualcosa che è cambiato?

È una domanda difficile, ma una cosa che ho notato, passando molto tempo in Paesi più chiusi come l’Afghanistan, l’Iran e per certi versi l’India, è quanto palese sia l’oggettificazione sessuale delle donne in occidente. Anche se forse non è corretto dire più ‘chiusi’, direi, anzi, quasi più ‘avanti’ in questo ambito. La sessualizzazione eccessiva che abbiamo in occidente mi dà quasi la nausea; accadeva anche prima, ma finché non hai un metro di paragone è tutto normalizzato. Queste società sono ai due estremi: in entrambi i casi si tratta di abusi e vengono a mancare i valori di dignità e rispetto, oltre a creare tutta una serie di conseguenze nel modo in cui viviamo e ci rapportiamo con gli altri.
Un altro tema è il valore delle relazioni. In Italia non siamo messi male come in altri paesi, ma c’è una tendenza all’individualismo molto accentuata, mentre là c’è molta più enfasi sul valore della famiglia, sullo stare insieme. Paiono forse concetti un po’ cliché, ma ci sono molti livelli di complessità.
E poi c’è una terza cosa che ho notato…

Quale?

Mi sembra che in quelle culture ci sia un po’ più di ‘innocenza’, da noi è tutto esplicito, tutto in vetrina, in vendita, anche le relazioni sono mercificate.
E poi la presenza pervasiva dell’alcool, di cui non ci si rende conto perché è totalmente normalizzata, ma cambia totalmente le interazioni sociali: uscire per bere un tè è diverso dall’uscire a bere una birra, non so se sia la parola giusta, ma l’ho trovato rinfrescante.
Senza voler demonizzare, oggi ci faccio più attenzione anche quando sono in Italia, cerco di trovare altri modi per stare insieme, ad esempio fare una passeggiata nella natura.

Una questione che ci riguarda tutti

Come e perché ci inviti a leggere un libro su un mondo che pare così lontano?

Innanzitutto, perché sono temi non distanti da me, da noi: traducendo questi testi mi sono trovata in loro, perché basta poco per scivolare in situazioni che sembrano lontane ma non lo sono, dobbiamo ricordarci quanto è stato difficile arrivare dove siamo noi, non è scontato.
E poi, il motivo principale, per prenderci la nostra parte di responsabilità: siamo anche noi generatrici di cultura.
Le storie del libro danno questo messaggio: loro sono poche, certo, e sanno che non cambierà niente da un momento all’altro, ma questo non toglie che sentano la responsabilità di fare tutto quello che possono per lasciare traccia per le generazioni successive. Leggiamolo per renderci conto che perché qualcosa cambi della cultura in cui ci troviamo, incredibilmente tossica, dobbiamo partire da noi.

C’è una sorellanza che non esclude una fratellanza?

L’unico femminismo che può funzionare è quello che riconosce che il femminile è un discorso che riguarda tutti e non deve essere una lotta tra uomini e donne, quella è solo una disfatta: di uomini, donne e società. Non può essere un movimento che demonizza il maschile per esaltare il femminile, e viceversa; non possiamo fare la stessa cosa che combattiamo. Anche se si può capire una reazione di questo tipo, serve andare oltre, è una responsabilità di tutti, che giova a tutti.
La repressione femminile danneggia le donne ma anche il maschile.

L’Afghanistan non è stato toccato dal femminismo occidentale, è interessante, il discorso dei diritti delle donne non può essere visto tramite quella lente. Zeinab ha consultato Soltanzadeh: perché un uomo non può essere dalla parte delle donne? È bene che un afghano si sia sentito oltraggiato da queste politiche, perché è un oltraggio a tutti. Questi racconti, nella loro semplicità, mandano un messaggio di grande complessità soprattutto delle dinamiche familiari: mostrano come, spesso, siano stati i mariti, i padri a supportare le donne, come ci siano stati dei cambi di posizione durante il loro percorso e che la realtà non è come sovente ci viene mostrato nei media.
Credo che l’unica soluzione stia nell’unione e nella consapevolezza che quando le donne vengono fatte oggetto di abusi ne risente tutta la

Monica Bozzellini
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Oltre 30 anni di esperienza nel mondo del giornalismo e della comunicazione aziendale; da oltre 5 anni è consulente alla comunicazione positiva. Si occupa dello sviluppo della persona attraverso strumenti a mediazione artistica espressiva, come professional counselor a mediazione corporea e teatrale

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