Giangi Milesi è uomo del mondo profit, dove è stato marketing manager e responsabile comunicazione in azienda; ha contribuito alla modernizzazione del non-profit italiano al Cesvi, prima come volontario per diventarne poi presidente per 13 anni e con lui nel 2019, il non profit è entrato in Pubblicità Progresso. Sempre dallo scorso anno è Presidente di Parkinson Italia, rete nazionale delle associazioni di persone, familiari e caregiver toccati da una malattia che a Giangi è stata diagnosticata nel 2017.
Il nostro incontro, via telefono, parte da qui.
In una intervista recente, hai detto che il potere (“di cui sei buon testimone, non solo oculare”) è come una droga e che da quando hai il Parkinson sei tornato una persona. “La vanità è un fardello inutile”.
Mi sono reso conto che la vanità è un peccato mortale e questo vale nel profit e nel non-profit. Il tema è molto importante dal punto di vista del passaggio generazionale, molte delle resistenze al cambiamento sono dovute al fatto che metti davanti te stesso al bene dell’organizzazione e della causa e questo è doppiamente grave nel non-profit, in cui l’organizzazione dovrebbe essere super pubblica e invece viene trattata come qualcosa di privato. Anche nelle grandi organizzazioni, non voglio dire nomi ed episodi, ma a qualche collega è capitato di sentirsi dire ‘vieni ti presento il prossimo presidente’ che non veniva deciso dal consiglio di amministrazione, ma dalla famiglia, come se quella realtà fosse sua. Parliamo di organizzazioni avvedute, non di chi non ha dimestichezza con i modelli organizzativi, quindi figuriamoci dove non c’è disciplina di management.
Il tuo contributo per la managerializzazione del non-profit è pionieristico.
Il primo a muoversi in questa direzione è stato Guido Venosta, fondatore dell’AIRC. Negli anni ’60 era dirigente della Pirelli a Londra e quando gli sono morti i genitori di tumore ha deciso di cambiare vita e dedicarsi alla ricerca sul cancro. La prima cosa che ha fatto è stata una indagine di mercato: al tempo esisteva un grande volontariato ma tutto schierato, di sinistra o cattolico, non esisteva un non profit di stile anglosassone, trasversale agli orientamenti. Come spiega Venosta in un libricino, ‘Dal profit al nonprofit’, nel fondare l’AIRC furono i primi a teorizzare una organizzazione per obiettivi: non importavano il credo religioso, la fede politica, il livello culturale o sociale, per associarsi bastava essere d’accordo sull’obiettivo, combattere il cancro. Questa credo sia stata la più grande lezione, o perlomeno quella che io ho appreso e portato a mia volta, 30 anni dopo Venosta, in Cesvi. Quando arrivo al Cesvi, come volontario negli anni ‘90, in Italia nasce Telethon e si professionalizzano una serie di organizzazioni, non siamo stati gli unici, nessuno inventa niente. Sicuramente ci ho lavorato sopra a lungo, anche se non sempre con successo.
La morte dei genitori cambia la vita a Venosta, il Parkinson ti ha fatto ‘tornare una persona’… serve sempre uno shock per cambiare la propria visione del mondo?
L’esperienza è fondamentale, come fai senza un passaggio esperienziale? Puoi viverlo di persona, o può essere che qualcuno te lo spara nella pancia. Recensendo il film di Spielberg ‘Schindler’s List’ Baricco scrive:
“i fatti diventano tuoi o quando ti schiantano la vita, direttamente, o quando qualcuno te li compone in racconto e te li spedisce in testa”
“Il racconto, e non l’informazione, ti rende padrone della tua storia”.
C’è sempre un fatto relazionale, quindi, se non è tua l’esperienza c’è una relazione di mezzo che ti fa vivere quell’esperienza, è inevitabile e la resilienza è proprio questo.
Quando mi sono occupato per la prima volta di resilienza (nel 2013, in occasione della presentazione dell’edizione italiana dell’Indice globale della fame) ho usato un’immagine, poi utilizzata da tutti, che viene dalla metallurgia: mi piego ma non mi spezzo. Poi, siccome sono un ignorante non ho mai studiato da ragazzo, ho scoperto l’etimologia di questa parola: dal latino ‘resalio’, un verbo che vuol dire risalire, risalire sulla barca dopo che l’onda ti ha sbattuto giù, quindi, dopo il trauma. Per questo non è assurdo dire che questa pandemia può essere una occasione, perché nel concetto stesso di resilienza è previsto il danno. E non puoi tornare come prima. Mi trovo con quelli che dicono che la resilienza è come l’arte giapponese del Kintsugi, quel modo di riparare con un filo d’oro o d’argento la porcellana che si rompe: dalla rottura, con il Kintsugi nasce una scultura nuova, che può essere addirittura anche più bella di quella di prima.
È la vita nuova, è il fatto che abbandoni la Pirelli per fondare l’Airc.
Vedi i semi di questo ‘nuovo’ negli interlocutori che incontri, aziende, istituzioni o società civile?
Tutti noi abbiamo assistito a cambiamenti impensabili in una situazione ‘di normalità’, quindi, c’è una disponibilità al cambiamento, il problema vero è che non è automatico che avvenga in meglio, può essere anche in peggio.
Non è possibile fare previsioni, ma possiamo prepararci per fare il Kintsugi.
Dobbiamo intanto trovare l’oro e l’argento…
Credo che ce ne sia a bizzeffe di potenzialità e di cose non fatte. Lo vedo nel mio piccolo con Parkinson Italia: da quanto tempo si parla di telemedicina? Con il Coronavirus c’è stata una evoluzione impressionante in quella direzione, il Besta sta facendo delle visite a distanza e si sta addirittura riflettendo sul fatto che queste visite neurologiche non siano di serie B, ma sotto certi aspetti diventino più interessanti di una visita di persona. Il malato viene visitato nel suo ambiente naturale e questo, in una malattia degenerativa, può essere importante, perché viene visto in modo più trasparente. Faccio un esempio, anni fa avevamo chiesto l’accompagnamento per mia mamma, non ci vedeva, al punto che potevi rubarle il piatto da cui stava mangiando e non se ne sarebbe accorta. Quando siamo andati alla visita di controllo è riuscita miracolosamente a leggere alcune lettere dell’alfabeto e quindi l’accompagnamento è stato contestato. Cosa è stato? L’amor proprio gioca questi scherzi, è sempre la vanità di cui parlavamo prima. Lo vedo su di me, la malattia ha degli effetti contenuti e va tutto molto bene, vado in giro e la gente mi dice ‘ma stai benissimo’, in realtà ho i miei acciacchi ma, nonostante io abbia fatto coming out, per questo amor proprio non racconto tutti i giorni quello che mi accade.
Hai parlato di tecnologia e di impatto sul sistema sanitario, due temi di attualità estrema.
Nella rete di Parkinson Italia, non solo facciamo telemedicina e abbassiamo i costi, ma con un servizio reso gratuito grazie a Careapt – start up del gruppo Zambon -, si sta sperimentando il case management: una infermiera super specializzata fa da coordinatore di tutte le competenze necessarie. Parliamo del Parkinson che è particolarmente complesso, ma è un discorso che vale in maniera allargata: serve il neurologo, il fisioterapista, devi curare la qualità della vita e quindi serve il nutrizionista, poi si scopre che il 70% dei malati di una malattia del movimento, in realtà, soffre di problemi psicologici e allora serve lo psicologo. Vedi quante medicine abbiamo tirato in ballo, perché usiamo solo il neurologo? Perché è quello che ci dà la cura farmacologica
sappiamo che la cura è efficace anche per le parole che l’accompagnano
quindi, forse, è opportuno che il neurologo sia affiancato da un infermiere. Non solo per centellinare il suo impegno ma perché questa persona potrebbe essere più qualificata del medico stesso, nel rapportarsi con la persona ammalata. Tutto questo riduce il numero delle visite specialistiche, solo un terzo dei casi che l’infermiere affronta ha bisogno di fissare un appuntamento, a quel punto in telemedicina. Che ventaglio di cambiamenti potrebbe portare tutto questo?
La multidisciplinarietà di cui parli sta acquisendo sempre più valore, dalla sanità alla comunicazione.
Il ruolo delle persone che come noi lavorano in comunicazione è nato proprio per affiancare gli specialisti: il marketing e la comunicazione sono lo sguardo dell’azienda verso l’esterno, verso gli stakeholder e già questo ci impone di essere integratori di tante competenze diverse. Ricordo che quando ho iniziato questo mestiere il vicepresidente dell’azienda in cui lavoravo, ingegnere a cui stavo sulle palle perché portavo giacche un po’ strane, mi diceva: ‘Milesi mi dica la quotazione del metallo di oggi’. Io rispondevo, ‘dovrei riconoscere che oggi ho perso tempo se sapessi la quotazione del metallo, c’è lei che la guarda, a me tocca raccontarle cosa succede d’altro”. Nel caso della salute vale lo stesso: oggi non si parla più di cura della malattia, ma di cura della persona, che è un insieme complesso.
La scienza ha decretato che l’approccio biologico non basta più, che ci vuole un approccio biopsicosociale e, poi, ci sono studi che, a partire dall’effetto placebo, dimostrano che il cervello reagisce al farmaco o alle parole che accompagnano il farmaco nello stesso modo. Torniamo al discorso della centralità della relazione. Secondo Toni Muzii Falconi (decano del mondo delle pr, ndr) questa tragedia ha messo in evidenza come la gestione dei numeri abbia perso l’oggettività che le davamo: se pensi, invece, che persino i giornalisti professionali e intelligenti da mesi per avvalorare le loro tesi danno i numeri, cifre ridicole per indicare tendenze, sbagliate dal punto di vista della statistica… Questo succedeva anche prima, ma mi fa molta specie che i giornalisti non studino prima di parlare. Non voglio scaricare responsabilità che riguardano tutti. Nel mio piccolo anch’io ho in tasca una tessera di pubblicista…
Passando dall’informazione al mondo delle aziende, quanto potrebbero fare per supportare il cambiamento di paradigma?
Vale la pena recuperare un economista italiano, Marco Vitale, che ha sempre descritto l’imprenditore come l’animale sociale per eccellenza. Penso che sarebbe importante raccogliere le case history di quanti imprenditori hanno convertito la loro azienda, pur di non mandare a casa il personale. Ti cito IVS, quei signori con i furgoncini bianchi e azzurri che vedi in giro a riempire le macchinette del caffè, sono i leader di mercato nazionale e stanno qui a Seriate. Durante questo periodo, hanno fatto un accordo con un ristorante stellato e, soprattutto a Pasqua, hanno chiamato il personale a consegnare su Bergamo centinaia di pasti. Questo mi riporta a un tema generale: perché tutti stanno misurando quante attività chiudono, ma – che io sappia – nessuno sta misurando cosa accade di nuovo, quante cose stanno cambiando in meglio? Il rinculo c’è, al tempo stesso potrebbe esserci un grande movimento che nasce come forma di resilienza.
Sappiamo poco su di noi, c’è una ricerca finanziata dalla Fondazione Edison sull’economia italiana, l‘Indice Fortis Corradini delle eccellenze competitive’, in cui il Paese viene analizzato dal punto di vista del saldo commerciale diviso per settori: vengono fuori dei dati sbalorditivi sulle famose multinazionali tascabili e su quanti primati ha l’Italia e nel medagliere internazionale. Tra i primi dieci prodotti in cui deteniamo il primo posto mondiale per saldo commerciale nel 2016 oltre a borsette e valigie di pelle in cuoio, con 3 miliardi di surplus commerciale quindi di vantaggio rispetto a quanto importiamo, ci sono turismo, paste alimentari, ma anche ambiti meno scontati come quelli delle macchine da imballaggio, per un surplus commerciale di 3,6 miliardi.
Cosa ci dice questo in termini di progettazione di un cambio di paradigma rispetto alla società, che contributo potrebbe venirne?
Perché vince la tendenza a non valorizzare il positivo della società?
Per lo stesso motivo per cui una grande giornalista che fa una intervista a un politico che racconta bugie, non è capace di dirgli ‘le palle non le racconti nella mia trasmissione’.
Nando Pagnoncelli (ad di Ipsos Italia, ndr) dice che siamo passati dal mondo dei numeri al mondo delle percezioni, non conta la temperatura dell’aria, conta quanto viene percepito, come se il percepito fosse la verità, quindi non c’è un interesse a capire le cose.
Ti faccio un altro esempio, si è sempre detto che la forza della Silicon Valley fosse il fatto che tutte le aziende del settore sono concentrate nello stesso luogo, motivo per cui, veniva detto, gli indiani non hanno battuto l’America: lì, anche se ogni azienda si fa i fatti suoi, gli ingegneri che passano da una all’altra creano una competenza trasversale. Proprio come accade in quello che viene considerato un punto di forza del nostro Paese, i distretti. Ora i distretti si sono trasformati in reti di aziende, grazie a una legge che riconosce i contratti di rete. Ma chi ne parla? Io non trovo più niente di questo argomento, eppure sembra che sia importante perché ci sono diverse migliaia di contratti già realizzati.
Se ti chiedo di dov’è il leader di mercato delle spillatrici per la birra, cosa rispondi? Tedesco, e invece no è un’azienda di questa zona, Vinservice, nata qualche anno fa, quando è venuto di moda fare l’aperitivo con il prosecco: se apri una bottiglia di spumante diventa imbevibile il giorno dopo, così hanno pensato di sostituirla con un impianto alla spina e nel tempo si sono presi clienti come Coca-Cola e Pepsi Cola, diventando leader di mercato. Sempre in zona c’è una azienda, Fassi Gru che produce macchine che servono per sminare a distanza: piccole gru con cui disinneschi la mana stando a 20 metri di distanza. Sono leader mondiali e, se andavi a Ground Zero mentre era in costruzione vedevi le loro gru.
E ritroviamo realtà cosi in tutti i campi e in tutto il Paese.
A proposito di messaggi costruttivi, sei vicepresidente di Pubblicità Progresso come sta la comunicazione pubblicitaria?
Quando mi è stato proposto di candidarmi a Pubblicità Progresso l’ho fatto perché mi sembrava un impegno civile in una trincea molto avanzata. La mia presentazione all’assemblea partiva da Vannoni di Stamina e dal fatto che nel giornalismo prevalgono ormai gli epigoni di Funari, per dire che le imprese, che hanno fatto nascere pubblicità progresso per diffondere l’utilità della pubblicità rispetto all’evoluzione dei consumi, in questo momento hanno responsabilità più generali: tanto che in questo momento sono più le aziende che fanno comunicazione sociale che commerciale.
La comunicazione sociale non è più solo quello: è responsabilità sociale
l’azienda è cambiata, dal punto di vista delle dimensioni del cambiamento probabilmente siamo ancora una minoranza, ma la tendenza ormai è segnata.
Cosa si può fare per sensibilizzare ulteriormente il mondo profit?
Stiamo proprio discutendo di questo in Pubblicità Progresso, sul tavolo c’è il tema della preoccupazione per il lavoro, che sta risalendo e supererà quella per il Covid. Ma dobbiamo affrontare il tema come abbiamo fatto in questa chiacchierata: mettendo a fuoco le buone notizie. Abbiamo una percezione pessimistica della realtà e non vediamo tutto quello che di buono, martellati da tutto quello che di brutto c’è.
Come la positività può fare bene al nostro sistema immunitario, parlare di ciò che c’è di buono può fare bene al sistema immunitario del Paese?
Per me è un fil rouge, ho iniziato così nel ’92, con la comunicazione positiva, e mi porto dietro ancora questo posizionamento.
In questo senso c’è un altro tema fondamentale, quello sulle fake news (consiglio sul tema il libro di Giuseppe Riva ‘Fake News’), un fenomeno molto più grave di quanto venga percepito – c’è gente che studia, pianifica e fa girare queste notizie – e nei confronti dei quali uno dei doveri che abbiamo è creare consapevolezza.
A proposito di consapevolezza, il tuo lavoro adesso è anche relativo a quella sul Parkinson. Qual è il tuo obiettivo?
Se dico rendere Parkinson Italia come l’AIRC forse esagero, non ci sono quei numeri, però stiamo parlando di 250 mila persone, probabilmente anche molte di più, che non sono rappresentate.
Il mio obiettivo, nei tre anni del mandato, è di lasciare una organizzazione che sia reputata, visibile e solida economicamente. In questi giorni tra l’altro, c’è stato l’incoraggiamento di uno dei più grandi neurologi del mondo, l’olandese Bastiaan Bloem, il quale ha detto che dobbiamo fare nel Parkinson come è stato fatto contro l’Aids. Nel mio piccolo sto proprio rivisitando le stesse strategie che seguimmo in Cesvi nella campagna contro l’Aids nel 2001.
In questo momento sto lavorando sull’ipotesi di una grande campagna basata su una mostra fotografica itinerante e sul come gestirla in questo momento. Ci sono parecchie innovazioni, perché la mostra è supportata da una audioguida che, invece di essere un device da sanificare ogni volta, è un’app da scaricare direttamente sul proprio mobile: una volta all’interno della mostra, l’app riconosce la fotografia e fa partire la voce di Claudio Bisio e di Lella Costa che interpretano Mr e Mrs Parkinson e raccontano cosa ci sia dietro quella foto.Doveva essere fatta al Chiostro del Piccolo in Via Rovello, capiamo come vanno le cose… e la riprogrammiamo.
Oltre 30 anni di esperienza nel mondo del giornalismo e della comunicazione aziendale; da oltre 5 anni è consulente alla comunicazione positiva. Si occupa dello sviluppo della persona attraverso strumenti a mediazione artistica espressiva, come professional counselor a mediazione corporea e teatrale