I miti fondativi della nostra fede tecnologica: la neutralità

Questa pubblicazione è resa possibile dalla partnership con L’altra medicina, mensile diretto dal dottor Luca Speciani,  nato per diffondere un’idea di medicina più vicina al paziente e dare spazio a tutte quelle voci, mediche e sanitarie, che, basate su solide fondamenta scientifiche, offrono una alternativa al sistema dominante. 

Articolo pubblicato sul numero 127 de L’ALTRA MEDICINA Magazine 

di Enrico Manicardi

Prosegue il nostro viaggio tra i miti che fondano la tecnolatria. Oggi tratteremo di quello che è forse il più incrollabile tra tutti, perché ci conduce alla pia illusione di poter controllare la Tecnica e di poterla dirigere a nostro piacimento: è il mito della neutralità della Tecnologia.

Quando si parla di Tecnologia c’è un luogo comune che viene considerato perlopiù indiscusso, un dogma: è l’idea che la Tecnica non sia né buona né cattiva, ma dipendente dall’uso che di essa si fa, se l’uso è positivo essa è “buona”, diversamente è “cattiva”. Secondo questo mito, dunque, basterebbe dirigere la Tecnologia verso il bene e quel pervasivo processo che condiziona a tutto tondo l’esistenza di ogni essere della Terra si trasformerebbe – come per incanto – in un’occasione favorevole. Purtroppo non è così. 

L’idea che la Tecnologia sia neutrale è soltanto una convinzione superficiale e falsa. Superficiale perché il pensare che la Tecnica non sia né buona né cattiva preclude ogni possibilità d’indagarne l’essenza. Falsa perché la capacità che la Tecnologia ha di condizionare negativamente tutto ciò che tocca prescinde dall’uso che di essa si faccia.

Un esempio concreto dovrebbe chiarire l’assunto.

Prendiamo l’autoambulanza. Nessuno metterebbe in discussione il fatto che sia costruita e usata per il fin di bene. Eppure, guidare un’autoambulanza significa anche contaminare l’ambiente: con i suoi gas di scarico, con i suoi dischi dei freni che rilasciano nano-polveri nocive, con il suo consumo di pneumatici, eccetera. Eppure, guidare un’autoambulanza significa anche percorrere strade che hanno lastricato e cementato la terra, inquinato l’habitat, traforato catene montuose, ostacolato lo scorrere dei fiumi, sbarrato vie di accesso ad animali, persone, sementi. 

Eppure, guidare un’autoambulanza significa anche utilizzare impianti (meccanici e sanitari) altamente sofisticati, i cui elementi di composizione provengono dallo sfruttamento ecologico del Pianeta, come l’alluminio che si ottiene dall’estrazione della bauxite. In un Rapporto del 2018 a firma dello Human Right Watch dal titolo La maledizione della bauxite, è descritto molto bene l’impatto devastante provocato dall’estrazione di questo minerale in Guinea: esproprio di terre e popolazioni sloggiate con violenza dalle loro abitazioni; acque contaminate; suoli completamente coperti di polvere rossa; aria carica di particelle pericolosissime per la salute umana, animale, vegetale.

Dunque, l’autoambulanza produce effetti disastrosi; e attenzione: sono tutti effetti ineliminabili al suo utilizzo. Naturalmente si potrà dire che il gioco valga la candela, ma anche dando per ammessa questa valutazione di convenienza resta il fatto che quegli effetti indesiderati si producono lo stesso, contro la nostra volontà. Anzi, trovarsi a ragionare in termini di opportunità rispetto ai danni che la Tecnologia provoca, ci rende ancora più cinici in quanto ci porta a giustificare ciò che non vorremmo si verificasse.

E infatti, persino quando sembra essere sviluppata per il nostro bene, la Tecnologia ci rende irresponsabili di quello che facciamo, dei danni che arrechiamo, delle miserie che procuriamo come effetti di ritorno del suo utilizzo; e questo ci dice ovviamente che la Tecnica è tutt’altro che neutrale.

D’altra parte la Tecnologia non è neutrale perché, come aveva denunciato già negli anni Cinquanta del Novecento il sociologo francese Jacques Ellul, essa è una specie di forma che forgia: la Tecnologia è «una forma e tutte le cose vi si modellano», è scritto in Tecnica, rischio del secolo. Detta in parole povere, tutto quello che viene a contatto con la Tecnologia vi ci si adatta e ne assume l’impronta. Basta pensare alle modalità per pagare il pedaggio autostradale con la carta di credito o all’uso del mouse o dello smartphone: non c’è alcuna possibilità di stabilire un altro modo di interazione con un dispositivo tecnologico che non sia quello imposto dal dispositivo stesso. Perché davanti a una macchina è sempre la nostra intelligenza a doversi piegare, a doversi uniformare alla macchina. Charlie Chaplin ce lo ha spiegato con la sua proverbiale ironia già nel 1936 quando, nel film Tempi moderni, ha messo il suo Charlot alle prese con un’inesauribile catena di montaggio: nel mondo delle macchine è sempre l’individuo che si adatta alle macchine, mai il contrario.

E questo è un fatto talmente pacifico che venne addirittura riportato a caratteri cubitali già nell’insegna che campeggiava all’ingresso della Fiera Mondiale di New York del 1934: “La scienza esplora, la tecnologia esegue, l’uomo si conforma”.

La Tecnologia, dunque, non è neutrale: è condizionante, e ad essa bisogna conformarsi; è pervasiva, e si deve sopportare ogni sua insinuante invasione; è carica di effetti devastanti totalmente insopprimibili. 

D’altronde, anche se si guarda da dove viene, la Tecnologia si mostra tutt’altro che neutrale. Essa non cade dal cielo. Per avere oggetti tecnologici bisogna appunto sventrare montagne, saccheggiare terre e bacini minerari, depredare fiumi, disboscare foreste, inquinare l’ambiente in generale. E, come si diceva, lo si deve fare non solo per soddisfare esigenze sciagurate, come quella di costruire armi o slot machine, ma anche per realizzare oggetti o servizi considerati di grande utilità: serbatoi necessari a distribuire acqua potabile in una città; abitazioni in legno o in cemento armato; impianti medici e paramedici; strutture sportive; piste ciclabili; opere pubbliche.

Del resto, se per produrre oggetti tecnologici servono bauxite, ferro, rame, nichel, manganese, silicio, coltan, terre rare, eccetera, e dunque servono miniere dalle quali predare questi elementi, vuol dire che per produrre oggetti tecnologici servono anche persone che lavorino in quelle miniere.
Chi sono queste persone? C’è forse qualcuno, sano di mente, che desidererebbe sacrificare tutta la propria esistenza per sgobbare come uno schiavo 15-18 ore al giorno in una cava sotterranea, così da poter garantire ai consumatori del mondo progredito di veder prodotti i loro smartphone, i loro computer, i loro navigatori satellitari, i loro elettrodomestici smart, le loro auto elettriche? Sicuramente no. Nessuno vorrebbe essere privato in questo modo della propria vita. Dunque, quel che ne deriva è un fatto: per disporre di oggetti tecnologici occorre costringere migliaia di persone a fare quello che nessuno vorrebbe fare.

La perpetuazione di quel tecno-mondo che noi, destinatari ultimi dei suoi prodotti lindi e finiti, abbiamo pure la faccia tosta di considerare neutri, non avviene per miracolo: occorre seppellire ogni giorno migliaia di individui che, ricattati dai meccanismi impietosi dell’economia e incatenati dalle necessità di una penosa sopravvivenza civilizzata, sono costretti a scendere in giacimenti bui, insani, soffocanti, ricavandone spesso, insieme ai pochi spiccioli coi quali vengono miseramente pagati, anche tutto un complesso di affezioni croniche che, nel tempo, procureranno loro la morte dopo atroci sofferenze. E tutto ciò senza alcuna minima compassione: per estrarre coltan, ad esempio, vengono utilizzati bambini, perché possono infilarsi molto meglio degli adulti negli stretti crepacci della terra in cui quella sabbia nera viene portata alla luce. Quanti ne muoiono ogni giorno? Quante persone vengono straziate e uccise perché possa essere garantito a noi “liberi” cittadini del Mondo Giusto di comunicare con whatsapp?

La Tecnologia gronda del sangue di tutte le migliaia di persone che sono costrette a sacrificare la loro esistenza perché qualcuno ne possa usare i relativi gingilli. Altro che neutralità! Per dirla alla maniera di John Zerzan, per avere oggetti tecnologici dobbiamo schiavizzare migliaia di persone. E allora, quando parliamo di Tecnologia occorre avere ben chiaro che stiamo parlando di schiavitù. Per cui, a chi, scendendo dalle stelle, si domandasse ancora: “È possibile fare un uso sostenibile di tecnologia?”, basta ricordare che è sufficiente mettere le parole nel loro giusto posto affinché la risposta giunga da sola: c’è forse un modo sostenibile di fare uso della schiavitù?

(Segue). Per leggere l’articolo completo vai al sito de L’Altra Medicina

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Enrico Manicardi

Enrico Manicardi (Modena, 1966). Avvocato, saggista, conferenziere sui temi della critica radicale alla civiltà. Da sempre aspira a vivere in un mondo libero, ecologicamente intatto, contrassegnato da relazioni calde e non consacrate al culto della Tecnica. È autore di quattro libri pubblicati da Mimesis Edizioni, uno dei quali scritto a quattro mani col filosofo americano John Zerzan.

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