Se dovesse paragonare l’impresa che ha fondato a una pianta, Fabio Brescacin, presidente di NaturaSì, realtà che conta oggi circa 300 aziende agricole e 315 punti vendita per un fatturato di 422 milioni di euro, la immagina come una betulla. “Non la rappresenterei ad esempio come una quercia, che potrebbe apparire un albero rude, piuttosto come una pianta bella, gioiosa, fresca che risponde al vento e alla terra”. Una terra che va tutelata anche salvaguardando coloro che la lavorano, come sottolinea in questa intervista a Quoziente Humano Brescacin, a partire dal riconoscimento di un giusto prezzo da conferire agli agricoltori. “Non si può parlare di accessibilità dei prodotti biologici sulle spalle dei contadini, della natura, del sistema sanitario, dei costi ambientali”. La chiamata alla responsabilità individuale è per tutti: “Ognuno deve porsi delle domande, fare delle scelte, capire che cosa vuole mangiare e come vuole usare il proprio denaro”.
Il primo seme 38 anni fa
Nel 1985 nasce Ariele, quale la visione e la missione da cui poi è nato il progetto Naturasì?
Ariele nasce come punto vendita a Conegliano, Naturasì si sviluppa dallo stesso impulso che ha dato vita al negozio, ma con dimensioni diverse. Abbiamo fondato Ariele con l’intenzione di mettere al primo posto l’agricoltura naturale. In quegli anni abbiamo visto arrivare in agricoltura la chimica, che distruggeva non solo i campi e la qualità del cibo, ma un certo tessuto sociale che ruotava intorno al settore. Ci siamo interrogati se un’altra agricoltura, sana che rispettasse la terra e la salute delle persone, fosse possibile. Abbiamo iniziato da questo punto vendita con l’obiettivo di mettere in relazione i primi contadini biologici e biodinamici che stavano nascendo in quel periodo con quei consumatori che chiedevano un prodotto di qualità. Da qui, la nostra intenzione di sostenere un rapporto positivo ed economicamente sano, basato sul retribuire in modo giusto i produttori.
Oltre 30 anni dal primo seme, come sta la pianta e in che terreno si muove?
La pianta oggi sta abbastanza bene, ha vissuto 38 anni di vita, è un albero ormai, è un fusto pluriennale che ha passato momenti buoni e altri più complicati. In questi ultimi anni post covid, la situazione è stata molto complicata e il contesto è stato stressante. Oggi ci stiamo rimettendo sulla strada giusta, quello che mi sento di dire è che le radici sono solide, solidissime, e sono quelle di quel seme che abbiamo piantato 38 anni fa. Quello che valeva allora per Ariele, che oggi è divenuta una cooperativa di consumo, conta allo stesso modo per Naturasì, la società per azioni che siamo. Gli ideali che ci hanno mosso sin dall’inizio sono forti, ambiziosi e in qualche modo c’è una tensione ideale per fare sempre meglio. L’albero si è ingrandito e al contempo è più articolato, non è più un virgulto come era il negozio di Conegliano, questa complessità va gestita anche con forme organizzative e tecniche diverse, però la struttura, il dna, lo spirito sono quelli di un tempo. La determinazione che si oppone alle intemperie è la stessa. L’anima di questo albero è quella del seme che abbiamo piantato nel 1985.
Secondo lei siamo in un’epoca in cui c’è molta cultura e poca natura?
Credo che quello che manchi davvero è una vera cultura. Si immagini la cultura di fine ‘800, dei primi del ‘900, i grandi filosofi e pensatori dell’epoca. Oggi siamo di fronte a un’aberrazione, a una totale superficialità dei messaggi. Di conseguenza manca anche la natura.
Se si ha una certa cultura si ama anche la natura, la si rispetta, la si cura, la si conosce, si entra nei suoi processi.
La cultura è amore per la vita, è amore per la conoscenza. Oggi c’è tecnicismo, ma il sapere è altro. Senza voler generalizzare, ci sono germi culturali, ma non possiamo dire che oggi siamo in una società con una elevata cultura. Ci sono opinioni, idee, ma non conoscenza. La profondità dell’essere umano richiede tempo, maturità, sacrificio, siamo bersagliati dalla superficialità. Allo stesso tempo ci siamo allontanati dalla nostra essenza umana. Siamo poca cultura e poca natura.
Il produttore è il primo anello della catena che fa da garante a una buona alimentazione. Se alle persone portate un certo tipo di prodotto, come supportate gli agricoltori?
Siamo partiti con un’attività economica e commerciale e con un’attività agricola. Conosciamo le difficoltà in ambito agricolo, quindi, abbiamo allargato l’interesse verso l’agricoltura al nostro ecosistema. Abbiamo circa 400 agricoltori che lavorano per noi, con i quali abbiamo una relazione di partnership. Uno dei grandi problemi di chi lavora la terra è l’incertezza: “Semino e poi?”. Cerchiamo di garantire l’assorbimento del prodotto, concordiamo con i produttori un prezzo adeguato affinché possano continuare l’attività, pareggiare i costi e fare degli investimenti. Abbiamo un’organizzazione sul settore agricolo che coinvolge agronomi che seguono i contadini anche tecnicamente, anche perché oggi con i cambiamenti climatici ci sono problematiche talmente grandi che si ha bisogno di aiuto. L’agricoltore è essenzialmente una persona sola: entrare a fare parte di una comunità, di un percorso, di un progetto, è importante. Per noi il sostegno a chi ha le mani nella terra è una priorità.
Riconoscere il giusto prezzo
A fronte di un impegno sociale per sostenere equità economica, salute della persona, salute della terra, c’è ancora un tema di accessibilità ai prodotti.
Un prodotto biologico e biodinamico ha un prezzo elevato, si tratta di un costo obiettivo. Nell’agricoltura tradizionale industriale la chimica si è diffusa perché con certe tecnologie sono stati abbassati drasticamente i costi. Noi non ci arriviamo. Il nostro principio è pagare un giusto prezzo, fare sì che gli agricoltori possano fare il proprio lavoro. Oggi molte aziende agricole stanno chiudendo, perché abbiamo pagato talmente poco gli agricoltori che in Italia abbiamo perso un 25% della superficie coltivata degli ultimi 40 anni. È un dramma. La domanda da farsi è quale sia il giusto prezzo per ciascuno. Certo è un tema di accessibilità, ma io credo che sia una questione di scelte. Oggi il 17% in Italia del reddito va nel cibo, l’altro 83% è speso altrove. Se vogliamo mangiare un prodotto sano, se vogliamo che i contadini continuino a produrre, dobbiamo riconoscere un giusto valore. Ci sono persone che purtroppo fanno fatica ad acquistare certi prodotti e questo è un dato obiettivo, al contempo ci sono consumatori che scelgono di pagare poco pur avendo possibilità economiche. Per esperienza ritengo che la scelta del bio sia culturale prima che economica. Magari si può provare a essere più sobri, a risparmiare, a mangiare qualcosa di più essenziale. Abbiamo alcuni clienti che fanno fatica rispetto ai costi ma scelgono di acquistare i beni essenziali e di puntare sul benessere, alcuni lo fanno scegliendo di comprare i prodotti biologici per i bambini o per le persone con problemi di salute.
A influenzare il costo vi è anche un tema di certificazioni?
Sì, ma non pesa particolarmente. È la tecnica agricola che incide sui costi: se hai il diserbante ci metti 10 minuti a lavorare un terreno, se devi zappare ci metti 3 giorni. Oggi il prodotto chimico è stato venduto e continua a essere commercializzato a prezzi bassissimi e risolve moltissimi problemi tecnici. La concimazione chimica azotata fa produrre i campi il 50% in più, però è una forzatura che ha una ripercussione sulla salute dei terreni e delle persone. Si dovrà tenere conto di un costo anche sanitario che poi dovrà essere sostenuto.
Scegliere con responsabilità
La salute è un tema di interesse generale. Chi si deve muovere?
Ogni singola persona, ogni singolo individuo. Certo dobbiamo fare in modo che le istituzioni collaborino, ma io credo che siamo nell’epoca della responsabilità individuale.
Ognuno deve porsi delle domande, ognuno deve fare delle scelte, ognuno deve capire che cosa vuole mangiare e come vuole usare il proprio denaro.
Se si fanno le giuste domande, poi si trovano anche le risposte corrette. L’interesse deve partire dal singolo, oggi sono le persone che cambiano la società, non viceversa. Esiste una libertà individuale. Ognuno ha la possibilità di informarsi, ci sono tutte le conoscenze reperibili. Non bisogna stare là a dormire, altrimenti ci si farà abbindolare dal mainstream.
Quali sono gli elementi su cui si può lavorare per l’accessibilità dei prodotti?
Oggi, ad esempio, distribuire il prodotto biologico è molto costoso perché il consumo in Italia è ancora limitato e ci sono costi accessori che sono elevati. In Italia sono più alti che in altri Paesi come la Germania, per fare un paragone, dove il biologico è più diffuso. Aumentando i consumi e razionalizzando la rete distributiva si possono diminuire i costi, questo è fondamentale: occorre creare efficienza, la giusta economia di scala, pur mantenendo la retribuzione dovuta agli agricoltori.
Tra le varie iniziative volte a salvaguardare gli agricoltori, avete istituito il prestito obbligazionario remunerato in cibo.
Lo abbiamo fatto per sostenere le aziende agricole che hanno bisogno di denaro, perché si semina oggi per raccogliere domani. Il tema non è solo la giusta remunerazione, ma avere anche denaro finanziario, non solo denaro economico. Serve anticipare, questo lo chiediamo ai consumatori.
Ognuno di noi deve preoccuparsi del cibo di domani.
Non possiamo aspettare più il sistema bancario, la Comunità Europea, lo Stato. Dobbiamo intanto pensarci noi, poi facciamo di tutto affinché anche le istituzioni collaborino.
C’è interesse a formare e sensibilizzare una sana alimentazione?
Direi di sì, trent’anni fa non parlava nessuno di alimentazione. Oggi se ne parla tanto, forse fin troppo, a volte se ne discute con una certa consapevolezza e conoscenza. Il tema è importante, e lo sanno tutti, perché coinvolge la sfera della salute, dell’ambiente.
Quando si vuole screditare qualcosa, si getta confusione: è tutto e niente biologico. Le persone come fanno a scegliere?
Sono pronto a fare vedere a chiunque lo desideri una nostra azienda agricola. L’informazione a volte può essere fuorviante, ma la realtà è verità. Le persone hanno il dovere di informarsi. Recentemente (domenica 16 ottobre ndr) abbiamo fatto una giornata con Seminare il futuro e abbiamo riunito circa un migliaio di persone. Bisogna saper distinguere quello che si vuole. L’informazione a volte è fallace, ma dobbiamo andare oltre, oggi si può. Occorre capire come stanno le cose e decidere come proseguire.
La terra riconosce una cultura del sacrificio.
La terra è una grande educatrice. Chi ha lavorato la terra è abituato al sacrificio, al tempo, non tutto si può avere subito, bisogna sapere aspettare. La terra insegna ad avere una certa sobrietà, a portare rispetto e a saper riconoscere ciò che è vero ed essenziale. Oggi c’è di tutto, ma dobbiamo imparare a scegliere.
Un altro tema caldo è quello della sovranità alimentare.
È un problema drammatico. Credo che oggi sia la questione principale da indagare.
Penso che andremo incontro a momenti in cui rischierà di mancare il cibo.
Abbiamo bistrattato i contadini, non li abbiamo pagati sufficientemente e questi hanno mollato. Pochi sono i Paesi che sono sovrani dal punto di vista alimentare. L’Italia non è sovrana, non ha autonomia alimentare, questo è un problema veramente grande.
Stanno nascendo piccoli circuiti che, con una moneta complementare, si propongono di consentire alle persone di comprare alcuni prodotti che diversamente non potrebbero permetterseli. Che cosa ne pensa?
Ho studiato le monete complementari e provo rispetto per coloro che si muovono in tal senso, credo che dentro ci sia un germe sano, ma non penso sia una soluzione che risolve il problema. Bisogna agire sulle coscienze. Non è cambiando la moneta che si risolve la questione, occorre fare delle scelte chiare, usare bene i propri soldi, interloquire con le persone giuste e dare il valore che si deve. C’è la convertibilità perché siamo all’interno di un sistema, che può evolvere cambiando la coscienza delle persone. Credo che il denaro sia un mezzo e non reputo che sia sufficiente sostituire il mezzo per cambiare la sostanza.
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Giornalista, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi attraverso strumenti a mediazione espressiva. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.