Togliere l’etichetta della malattia e rimettere la persona al centro: è questo la missione della Walter Vinci Onlus, associazione che propone a persone soggette a fragilità – cognitive (Alzheimer e demenza), dei movimenti (morbo di Parkinson), e delle relazioni (caregiver) – diverse attività di tipo terapeutico. La punta di diamante è senza dubbio il coro per persone malate di Alzheimer e i loro caregiver, che sfrutta l’enorme potenziale della musicoterapia per lavorare sulla memoria e sull’interazione sociale. Ma sono tante altre le iniziative della Onlus: partirà infatti in estate il progetto ‘Unisono‘, eventi di clubbing inclusivo per ragazzi con fragilità cognitiva (sindrome di down e forme di autismo) e ricomincerà il giardinaggio terapeutico con il FantaOrto.
A spiegarcelo, la coordinatrice delle attività delle associazioni (e già presidente) Marta Vinci.
Supportare le fragilità è da sempre la mission della Walter Vinci Onlus? Ci spieghi come è nata e si è evoluta nel tempo?
L’associazione è stata fondata nel 2008 da mio padre, Walter Vinci, medico ginecologo, e dei suoi colleghi per supportare le campagne di informazione sulla spina bifida e le malformazioni congenite prevenibili con l’acido folico; in seguito il raggio di azione si è esteso ad altre malattie rare e orfane. La missione della onlus era sostenere le segreterie scientifiche delle associazioni che si occupano di queste malattie, che nella maggioranza sono realtà molto piccole che non hanno risorse.
Con la scomparsa improvvisa di nostro padre, nel 2009, io e mia sorella (ginecologa anche lei) abbiamo deciso di continuare l’attività dell’associazione – che fino a quel momento si chiamava CoRo (acronimo di condivisione rotariana, dato che lui era rotariano) – dedicandola a nostro padre. L’obiettivo rimaneva dare sostegno alle persone con fragilità congenite o acquisite per mancanza di accesso alle risorse, culturali, alla salute ed economiche. Uno dei primi progetti che abbiamo sviluppato era rivolto alle scuole ed era dedicato all’Hiv e alle malattie sessualmente trasmissibili: in un mese, grazie al contributo del fotografo Nanni Fontana, abbiamo incontrato più di 2000 ragazzi. Ci siamo quindi resi conto che, pur essendo una piccola realtà, potevamo fare grandi cose.
Per studio sono venuta in contatto con l’esperienza di un coro per malati di Alzheimer a Valencia, in Spagna, e lì ci si è aperto un mondo. Nel 2016 abbiamo lanciato il primo coro in Italia per malati di Alzheimer e caregiver, e questo è tutt’oggi il nostro sforzo principale. Nel contempo, abbiamo esteso il focus dell’associazione a diversi tipi di fragilità: delle memorie – quindi Alzheimer e demenza -, dei movimenti, quindi morbo di Parkinson, e delle relazioni, cioè quelle dei caregiver, che sono i malati di ritorno di queste malattie, quelli che ne subiscono l’impatto in maniera più violenta.
In questi ultimi sei anni il nostro lavoro si è concentrato su queste utenze, con l’obiettivo dichiarato di cercare di intercettare il periodo che precede la diagnosi definitiva: purtroppo, infatti, spesso prima che si arrivi a individuare la malattia passano anni, nei quali la persona capisce di non stare bene, ma non sa cos’ha, e quindi vive malissimo, e anche la sua famiglia non sa come agire. Per questo cerchiamo di intervenire prima della diagnosi, attraverso la musica, che è riconosciuta dalla comunità scientifica come strumento terapeutico potentissimo. Mentre però in alcuni paesi europei c’è una conoscenza maggiore delle sue potenzialità per l’Alzheimer – in Olanda ad esempio nasce l’esperienza degli Alzheimer Caffè -, in Italia mancano ancora delle azioni in questa direzione: da noi la musicoterapia viene usata come extrema ratio, quando il malato non risponde più a nulla, mentre può essere utilizzata molto prima. A monte c’è la consapevolezza che il malato di Alzheimer non è un bambino da intrattenere, ma una persona adulta che nei momenti di lucidità si rende perfettamente conto della situazione in cui si trova.
“La musica è uno strumento terapeutico potentissimo”
Che tipo di lavoro fate dunque con la musica? In particolare, come funziona il coro?
È ormai noto, e supportato da una letteratura scientifica sterminata, che l’Alzheimer non colpisce la memoria musicale, quindi lavorare su questo aspetto significa recuperare una parte residuale importante. Noi abbiamo fatto un passo ulteriore creando, sette anni fa, un coro di malati di Alzheimer e i loro caregiver, in cui all’aspetto terapeutico della musica si aggiunge anche il valore della relazione sociale. Ci si trova una volta alla settimana nella sede della nostra associazione, in via Correggio a Milano. Lì stiamo insieme per circa due ore, due ore e mezza, e, sotto le indicazioni del nostro giovane direttore del coro, si cantano canzoni legate alla biografia musicale di ognuno. Ed è pazzesco vedere che anche persone che ormai non riescono più a fare una frase di senso compiuto, riescano a ripescare nella propria memoria le parole di canzoni imparate decenni prima… è un vero miracolo! Il repertorio è composto principalmente da brani degli anni ’50-60 – ‘Hey Jude’ è diventata il loro cavallo di battaglia! – con incursioni più avanti nel tempo a seconda della conoscenza di ognuno: abbiamo anche coristi stranieri che portano le loro canzoni. E se non ricordano le parole, continuano comunque a cantare a squarciagola seguendo il ritmo.
Prima della pandemia ne facevano parte 44 persone, mentre oggi siamo la metà: non abbiamo però mai smesso di incontrarci online, perché era importante mantenere questo flusso di vita, e continuiamo con questa modalità per le persone che non sono più autonome o non hanno più la possibilità di venire in sede. Con loro condividiamo anche delle playlist terapeutiche, sviluppate da un musicoterapeuta e basate sulla loro biografia musicale. Importante è anche il lavoro che facciamo con i caregiver: a loro insegniamo ad aiutare anche se stessi con la musica.
Dopo il canto, infine, facciamo tutti una sana merenda preparata con cura dai nostri volontari. Una volta a settimana, poi, cantiamo all’aperto in piazza Sicilia (l’associazione fa parte del patto di collaborazione della gestione delle piazze): l’obiettivo non è solo fare conoscere il coro e il valore della musicoterapia, ma anche di fare capire che l’Alzheimer non è una malattia per cui si deve stare chiusi in casa isolati, ma è qualcosa che può vivere nella piazza, come tutti, con cui si può tranquillamente convivere. Durante la pandemia, poi, abbiamo portato il coro nelle scuole, con il progetto ‘Fuori dal coro’: abbiamo creato una piattaforma tecnologica su cui gli studenti di due scuole hanno potuto incontrare i coristi e cantare con loro, e su Instagram è stato creato il profilo ‘Fuori dal coro 2020-2021’ con le storie delle persone. Un’esperienza emozionante e arricchente.
Importante da dire è che da settembre stiamo lavorando per valutare l’impatto dell’intervento del coro, con una neuropsicologa e scale validate che misurano il benessere e la stimolazione cognitiva, sia nel setting corale che a casa dopo il coro. Riusciremo quindi, verso l’estate, a dare dei risultati concreti sulla valenza dell’impatto di questa attività.
Quanto l’attività che fate riconosce e restituisce l’umanità di queste persone?
La nostra associazione è nata proprio per questo scopo: vogliamo togliere l’etichetta della malattia e ricollocare la persona al centro. In questo modo vogliamo anche fare capire che la fragilità è un elemento comune a tutti, e che accogliere quelle degli altri significa riconoscere le nostre.
Un altro aspetto che restituisce dignità e umanità al malato è inserirlo in un contesto piacevole ed esteticamente bello: per questo il coro si svolge nella nostra sede, uno spazio non connotato dalla malattia, perché chi l’ha detto che chi ha una patologia debba vivere in spazi brutti? Purtroppo mi sono spesso imbattuta in ambienti poco curati, come se le persone fragili non meritino di essere in un contesto piacevole, mentre la bellezza è il primo fattore di accoglienza. La malattia chiama e merita bellezza e cura, perché i malati sono prima di tutto esseri umani e hanno diritto alla bellezza e alla gioia come tutti.
“La nostra mission è togliere l’etichetta della malattia e rimettere la persona al centro”
Su quali forze potete contare?
Abbiamo un coordinatore scientifico, la dott.ssa Mancini, che è una neurologa, psicoterapeuta e musicoterapeuta, un’equipe composta da quattro musicoterapeuti e una neuropsicologa che si occupa delle valutazioni e dei monitoraggi. Agli esperti, poi si affiancano numerosi volontari, molti dei quali sono giovani, che prima di entrare nell’associazione fanno un percorso accurato di formazione, data la delicatezza dei soggetti: a loro chiediamo di rimanere almeno per un anno, perché è importante che i malati possano riconoscerli. In particolare i volontari più giovani seguono un percorso di formazione costante nell’arco dell’anno, per fornire loro gli strumenti per sapere gestire in modo coretto un’esperienza emotivamente moto forte come è quella del coro. Perché il coro è per tutti, ma non tutti sono per il coro.
Il fronte economico è quello più critico; in quanto parte del tavolo Alzheimer riceviamo dei fondi dal Comune di Milano ma sono purtroppo esigui. Viviamo di donazioni, partecipazioni a bandi e contributi: dal 2020 chiediamo una piccola quota per il coro, che copre però solo l’assicurazione. Non avendo sponsor o la possibilità di finanziamenti continuativi non possiamo fare una programmazione nel medio e lungo termine. Vorremmo fare capire alle istituzioni che il rapporto costo-beneficio è straordinario.
Su quali altri progetti lavora la Walter Vinci Onlus?
Ultimamente stiamo lavorando a un progetto di clubbing inclusivo, con l’organizzazione di feste in discoteca calibrate sulle soglie di tolleranza dei ragazzi con disabilità cognitiva, cioè con sindrome di Down e alcune forme di spettro autistico. Il progetto, chiamato ‘Unisono’ e ispirato a un’analoga esperienza di Manchester, è stato sviluppato dai giovani dell’associazione e ha vinto di recente il bando del crowdfunding civico del Comune di Milano. Si tratta di organizzare delle feste in alcuni locali in cui ci siano degli accorgimenti specifici per i disabili cognitivi: quindi ritmi e soglie di tolleranza della musica adeguati, così come luci e colori non troppo forti (non le luci stroboscopische!) e una decompression room, dove i ragazzi fragili possono riposarsi quando sono troppo stanchi. Inoltre, gli spazi dovranno essere disposti ad anticipare gli orari degli eventi e avere anche un’accoglienza e della security formate per accogliere persone con fragilità. I primi appuntamenti, su cui stanno lavorando molti professionisti – una neurologa, una musicoterapeuta e tecnici per il light design e la fonoacustica – si terranno nella primavera-estate di quest’anno e saranno belli e divertenti, con artisti famosi, come si fa per le persone non fragili: perché anche i ragazzi fragili hanno diritto alla gioia, ad avere occasioni di divertimento uguali agli altri.
Per il prossimo futuro, stiamo lavorando a un progetto di giardinaggio terapeutico: si chiama ‘FantaOrto’ ed è destinato agli anziani fragili affetti da demenza, Alzheimer o Parkinson, e ai caregiver. Dopo una prima esperienza che ha riscosso con grande successo al Bosco in città, abbiamo deciso di spostarci, per questioni di distanza, in una zona più centrale, all’interno dello Spazio Partecipato (via Gattamelata): lì stiamo progettando la zona in cui lavorare, con vasconi sollevati da terra e percorsi obbligati in modo che non si perdano.