“Non siamo noi a cambiare il mercato: è il mercato che sta cambiando. Se non impariamo realmente cosa significa sostenibilità e continuiamo a pensare che possa esserci una crescita illimitata in un pianeta a risorse finite, ci estingueremo”. Una nuova visione per creare valore e proteggere il futuro, si presenta così quella che Massimo Mercati, ad di Aboca, healthcare company italiana che si occupa di cura della salute attraverso prodotti 100% naturali, propone nel suo libro ‘L’impresa come sistema vivente’.
Per operare insieme nella direzione del bene comune, come ci racconta.
Partiamo proprio dal bene comune: qual è la relazione tra crescita e profitto aziendale e sostenibilità collettiva?
A fronte del fenomeno Covid, il tema è talmente evidente e strutturale che non capisco come si possa pensare a una crescita che non guardi al bene comune.
Penso che la pandemia ci abbia messo di fronte agli occhi le conseguenze di un modello costruito su una crescita quantitativa, mirata unicamente a una crescita basata su valori monetari e che non tiene conto delle disfunzioni che può generare: un collasso del sistema, in quel caso non si parla più di impossibilità di crescita di una azienda, impresa o individuo, salta la possibilità di una crescita e di uno sviluppo globale. E i due termini diventano inscindibili: non vi può essere crescita senza contributo al bene comune.
Stiamo sopportando i costi di una pandemia già prevista, le cui determinanti sono conosciute e non sono state affrontate prima perché non avrebbero generato un profitto immediato. È la stessa situazione che ci troviamo di fronte rispetto alla resistenza antibiotica, che sarà il dramma del futuro. Una lettura illuminante è ‘Il peggior nemico’ di Michael T. Osterholm (membro del consiglio consultivo COVID-19 del presidente eletto Joe Biden, ndr): uscito due anni fa il libro è più che profetico su quello che stiamo vivendo e sulla miopia dei settori sanitari e farmaceutici nella visione del valore, che valore non è.
Rispetto a questa consapevolezza, cosa percepisce confrontandosi con il mondo delle imprese?
A mio avviso vi è un profondo deficit culturale sulla capacità di retroagire rispetto a un modello sociale ed economico al quale tutti tendiamo ad adeguarci, quando in realtà dovremmo risalire alle origini di questo sistema e dare un significato diverso alle parole. Come scrivo nel libro, la prima di queste è CRESCITA.
Sappiamo che una crescita lineare e illimitata non ha senso in un sistema finito, la crescita in natura non può essere che un equilibrio tra i diversi fattori e ritornare a definire il concetto di valore, integrando le esternalità positive o negative, significa impattare sulla teoria dei prezzi e riequilibrare la concorrenza: noi diamo per scontato un mercato basato sulla concorrenza, che tale non è e non può esserci se non ridefinisci determinati valori. A partire dal concetto di proprietà come diritto non illimitato: è un assurdo pensare che io possa legalmente alterare il bene in maniera irreversibile per le generazioni future, quando quel bene non sarà più mio. Serve rimodulare gli istituti giuridici, dalla proprietà all’impresa, una istituzione che si è progressivamente svuotata della propria funzione economico sociale per virare esclusivamente al profitto. Molto difficilmente trovo la consapevolezza di quanto sia grande questa sfida, innanzitutto culturale.
Cosa significa parlare di ‘impresa sistema vivente’?
Significa acquisire la consapevolezza, prima di tutto scientifica, che facciamo parte di un insieme, il sistema vivente, che parla lo stesso linguaggio; siamo tutti interconnessi e le determinanti che consentono di gestire un sistema complesso sono diverse da quelle riduzionistiche a cui siamo abituati. A partire dallo studio della salute delle persone, l’ambito in cui si muove Aboca: il modello di farmacologia consueto, molecola-recettore è per definizione riduzionistico, non riesce a leggere la rete delle connessioni.
Impresa sistema vivente
Cosa possibile oggi, perché l’evoluzione tecnologica – dalla system biology alla system medicine – ci ha messo nelle condizioni di iniziare a comprendere i meccanismi di funzionamento del tutto e questo può e deve essere traslato al ruolo dell’impresa nella società e ai suoi meccanismi di funzionamento.
All’alba del nuovo millennio, abbiamo basi nuove su cui rifondare da una parte appunto la visione scientifica – interconnessione tra tutte le forme del vivente – e dall’altra quella economica: il legame indissolubile tra bene individuale e BENE COMUNE non può più presupporre un ente che si muova unicamente per il profitto, con un vantaggio proprio che prescinde da quello degli altri. La visione di un uomo contro l’altro non ha semplicemente senso biologico, deve essere sostituita da una visione propria delle più evolute teorie scientifiche, come la simbiogenesi (la formazione di nuove entità composite per mezzo della simbiosi di organismi precedentemente indipendenti, ndr) che vede ogni persona legata all’altro e la comunità al centro. Solo da questa visione potrà nascere il valore per l’individuo.
Quali ostacoli incontra nella società questa visione?
Come Aboca abbiamo questi concetti nel dna, per il lavoro che facciamo, è un imprinting molto forte sviluppato nel tempo da un punto di vista scientifico e culturale-filosofico per determinare una visione solida, che andiamo a distribuire all’interno e all’esterno dell’azienda.
Il punto più importante è che per farlo si deve avere una logica di medio-lungo periodo. Il vero problema è che nell’ottica manageriale pura, o in quella finanziaria, dove masse enormi di capitali si muovono sul mercato alla ricerca di rendimenti inconcepibili, si potrebbe dire usurai, se le aspettative della finanza sono tali per cui io devo triplicare il mio investimento in tre anni è chiaro che il mio obiettivo sarà massimizzare il profitto nel breve, piuttosto che creare valore nel tempo.
Visioni a lungo termine
La creazione di valore nel tempo è invece la chiave per una libertà di azione che si focalizzi sul creare il rapporto. La chiamo l’economia della fiducia, una relazione con tutti gli stakeholder che ti consenta di salire un gradino alla volta, investendo per una redditività che non viene massimizzata oggi, ma si mantiene nel tempo tale da consentirti continue crescite progressive. Credo che questo sia il vero ostacolo a un cambiamento profondo nella visione imprenditoriale.
A questo aggiungo che troppo spesso, mentre nelle aziende aperte al mercato si ha questa distorsione, nel tessuto della piccola e media impresa italiana, che invece svolge una funzione economico sociale sul territorio, questo non viene ricondotto all’impresa come istituzione, ma all’imprenditore. Iniziano i ragionamenti sull’imprenditore illuminato, che per me sono ancora più disfunzionali: non è che sia io il benefattore magnanimo, è l’impresa, l’istituzione che genera il valore. E in Italia, non si riesce a vederlo, c’è anche un problema di dignità dell’impresa.
Come scrive nel libro, è fondamentale il passaggio a nuove forme societarie? B Corp, Benefit Corporation…
È importante non confondere Bcorp e Società Benefit.
B Corp è una certificazione di tipo privatistico effettuata misurando il tuo impatto secondo determinate reportistiche e logiche che danno l’accesso a questo brand internazionale, Bcorp: è una logica di misurazione dall’esterno di quello che fai, ma non ti vincola a farlo. Diverso è quanto accade in Italia, dall’introduzione, nella finanziaria 2016, dell’Istituto della società Benefit la quale prevede che gli obiettivi di bene comune e, quindi, la gestione trasparente e sostenibile a livello generale e la declinazione specifica in impatto positivo sulla società e l’ambiente, diventino vincoli statutari.
Cosa significa questo? Faccio un esempio, il caso di Farmacie comunali di Firenze di cui noi abbiamo l’80% e il Comune il 20%: abbiamo trasformato questa società in benefit cambiando lo statuto, per farlo c’era bisogno dell’assenso dell’altro socio, quindi, ora, qualunque siano i passaggi di proprietà, quella società sarà tenuta a svolgere il ruolo deciso salvo che tutti i soci siano disponibili a cambiare di nuovo lo statuto. È un vincolo che fa si che sia l’impresa a perseguire i fini di cui abbiamo parlato e ciò se è importante verso l’esterno, è fondamentale anche verso l’interno: non è la mia ambizione personale, è la nostra impresa, quella di tutti i lavoratori che deve raggiungere quegli obiettivi. Si tratta di un cambiamento radicale che andrebbe pensato non più come un istituto speciale, ma dovrebbe entrare in una profonda revisione del Codice Civile italiano.
Com’è la situazione a livello normativo?
Quella è la nostra difficoltà, in un contesto in cui quello che sto dicendo rimane di nicchia, marginale e non trova una rispondenza nella legislazione, o nella sua applicazione, è chiaro che tutto resta estremamente difficile. Pensi al tema del principio ‘chi inquina paga’, è totalmente disapplicato perché l’onere della prova grava su colui che è inquinato: noi abbiamo coltivazioni biologiche e a volte troviamo nei nostri campi sostanze chimiche che non abbiamo immesso, arrivano per l’effetto deriva, in linea generale varrebbe il principio chi inquina paga ma è indimostrabile chi sia il responsabile. Il corpus normativo a livello di principio c’è già, la sua applicazione assolutamente no.
Come in alto così in basso
Pensi, ancora, al controllo delle falde acquifere, siamo all’anno zero e la speranza sta negli input che arrivano dall’Europa, finalmente chiari: i documenti che stanno sotto il Green Deal, dal From Farm to Fork alla New Chemicals Strategy, prendono atto di quanto sto dicendo e cercano di riorientare in questa direzione le imprese. Ma lo sforzo è tanto proprio perché manca una base culturale condivisa.
Dall’alto l’Europa, dal basso le persone, in particolare le nuove generazioni. Vi siete dati un compito di ‘educazione’?
Abbiamo investito molto in quella che si definisce cultura, dal recupero storico della medicina tradizionale con Aboca Museum, fino al lancio della casa editrice Aboca Edizioni che si occupa del rapporto tra uomo e natura. libri ed eventi come il Festival ‘A seminar la buona pianta’, le ‘International Lectures on Nature and Human Ecology’ o la mostra su ‘La Botanica di Leonardo’, pensatore dalla visione sistemica.
Agiamo molto anche sull’educazione dei più giovani, con un’area didattica del nostro museo e altre collaborazioni: quest’anno non è stato possibile, ma normalmente riceviamo in azienda 6/7 mila tra bambini e ragazzi.
In quest’ottica rientra anche la pubblicazione de L’impresa come sistema vivente?
Sì, anche se in realtà nasce come corso di formazione aziendale perché pensiamo che ci siano due elementi determinanti e il primo è che investendo in questa attività si fa ricerca. I primi a domandarsi quale sia il valore del naturale per la salute siamo stati noi al nostro interno. Dall’altra c’è la volontà di proporre argomentazioni e temi per farli conoscere, a fronte di una assenza di approfondimento generale che deriva dal fatto, torno a ribadirlo, che noi pensiamo di poter agire le crisi che stiamo vivendo a valle: scegliere soluzioni senza andare a ripensare le DETERMINANTI che hanno portato a queste situazioni è come se volessimo arginare il mare. Come diceva Seneca, ‘animum debes mutare, non caelum’, dobbiamo cambiare noi, non possiamo pensare di adattare la natura al nostro sistema di vita e, invece, questo è quello che ci sta portando verso le deviazioni del transumano del ‘Novacene’ descritto da Lovelock, un mondo in cui l’uomo, come lo vediamo oggi, non esisterà più.
Io credo sia abbastanza irrazionale e, soprattutto, ci sta già conducendo a una deprivazione di valore che non è solo economica, ma morale, personale.
Il futuro si prepara oggi…
Parlavamo dei giovani, mi ci confronto molto spesso, ho figlie in età adolescenziale e abbiamo creato anche un progetto particolare ‘Valtiberina Young’. Noi abbiamo la responsabilità non solo di rispondere alla sostenibilità, inquiniamo meno o risolviamo il cambiamento, dobbiamo dare nuove prospettive. Avremmo le strade per una rivoluzione scientifica e sociale, per aprire a una nuova fase di crescita armonica dove sfidare i giovani a un pensiero nuovo, non solo a farsi strada a gomitate per lo stipendio migliore. Sono punti essenziali di responsabilità che credo abbia in particolar modo la mia generazione.
Noi siamo una piccola azienda nel settore in cui ci muoviamo, nonostante 230 milioni di fatturato e 1.600 persone, guardando al mercato pharma, siamo ancora all’inizio di un percorso e nonostante questo vediamo che la risposta degli stakeholder e, soprattutto, delle persone che utilizzano i nostri prodotti è molto solida. Vediamo la creazione di una relazione di fiducia che a noi fa ben sperare, fiducia che si traduce in risultati economici: la base delle persone inizia a informarsi, a saper scegliere, non c’è più quella voglia di comprare di tutto, siamo stanchi della nozione devastante di ‘consumatori’, di persone che per contribuire alla società devono distruggere per consumare, fino a consumare loro stessi.
Dal basso arriva una risposta che si riflette in valori economici e finanziari, perché una azienda che dimostra di essere sostenibile è più credibile perché meno rischiosa nel tempo. E questo fa dire che forse questa strada è a maggior valore aggiunto dell’altra, che posso guadagnare di più ed è esattamente quello che io vedo: si può fare profitto e allo stesso tempo creare valore, anzi, come diceva Olivetti, dalla creazione di valore deriverà poi il profitto. Non è una frase filosofica, è una esperienza concreta.
Il movimento dal basso si sta moltiplicando, che possa diventare però maturazione nei decision maker della necessità di un cambiamento che sia veramente un new green deal e questo, anche nella politica come nell’azienda managerializzata, tende a perdersi, perché, ne abbiamo l’esempio ogni giorno, si fa politica per ottenere il consenso di breve e non si ha più la forza di una ideologia che possa guidare nel tempo.
Conciliare gli obiettivi immediati mantenendo una visione del futuro. Anche per la politica.
Come azienda non posso perdere fatturato, devo stare in equilibrio tra una redditività nel breve, che ci può comunque essere, ma non deve essere massima nel momento se ho un obiettivo a 10 anni. E, soprattutto, si dovrebbe avere la consapevolezza che la crescita di cui parliamo, nel mondo che verrà, non potrà essere per tutti illimitata, sarà selettiva e la selezione viene orientata dalle scelte politiche e sicuramente posso perdere consenso in una fase quando spingo verso la transizione al differente…
È il dibattito di oggi: andiamo a salvare realtà già morte, già a prescindere dalla pandemia, e investiamo su nuovi modelli o andiamo a fare assistenza a modelli che non hanno più speranza?
C’è un ruolo che può avere la finanza in questo cambiamento?
Questo è l’altro passaggio determinante. Perché la finanza dovrebbe scegliere aziende sostenibili? In primo luogo c’è un tema di marketing, investire in una azienda sostenibile è bello, allora si parla di compliancy o ESG, il che per me è un pochino fastidioso perché restiamo sempre all’esterno, a responsabilità sociali di facciata che non entrano nella struttura costitutiva dell’impresa e che per me sono un grandissimo pericolo. Dall’altra parte c’è una ragione molto più strutturale e cioè che l’azienda sostenibile è molto meno sottoposta a rischi e si è visto nel mercato con quello che è successo per lo scandalo dei glifosati negli Stati Uniti, per esempio, quel giorno le quotazioni di Bayer-Monsanto sono crollate se non erro del 40%; altro caso, Volkswagen per le emissioni di Co2, anche lì crollo in borsa. La sostenibilità garantisce una affidabilità nel tempo, già oggi tantissime grandi banche non finanziano aziende dei settori tabacco o armi e non lo lo fanno solo per marketing, ma perché i rischi sono più elevati.
Creare relazioni
E poi c’è un altro aspetto: credo siamo stati i primi in Italia con BNL BNP Paribas a chiudere il mutuo che hanno chiamato ‘Positive loan‘: il costo del denaro viene agganciato a premi di fine anno, che vanno a ridurre il costo dell’indebitamento e del tasso di interesse, a fronte del raggiungimento di target di impatto sociale e ambientale. Nel nostro caso nostro il mantenimento del punteggio di B Corp raggiunto, la certificazione di biodiversità e la riduzione di CO2 oltre i parametri. Un esempio concreto di come la finanza, in qualche maniera, riconosca la costruzione di valore e possa agevolare l’accesso al credito a realtà che si impegnano in concreto per realizzare una visione differente.
Aziende, Terzo settore, Istituzioni, cittadini. Qual è l’anello debole?
Anche su questo abbiamo delle cornici, torno sulla parola ‘ideologia’ perché penso che sia importante uno schema di significato all’interno delle quali le persone si possano riconoscere e che oggi manca fondamentalmente a tutti i partiti. La cornice dell’economia civile, ad esempio, già spiega tanto: l’anello debole è la mancanza di relazioni e di rete tra tutti i soggetti, ognuno è per conto suo, svolge il proprio ruolo individuale ma non si crea quella che l’economista Stefano Zamagni chiama ‘sussidiarietà circolare’, che si può avere solo con un orizzonte di senso comune: l’azienda persegue il profitto, il terzo settore il bene sociale, le istituzioni dovrebbe governare l’insieme, si occupano del bene pubblico e non del bene comune, e i cittadini del bene individuale. Così non si va da nessuna parte e si vede. In realtà, non è neanche così difficile, gli esempi che abbiamo in Italia di Distretti di economia civile, hanno creato un modello e l’Italia, in questo percorso, potrebbe essere protagonista.
Siamo in chiusura, a proposito di relazioni, in un anno che è stato contraddistinto dalla ‘distanza fisica’, come le avete alimentate in azienda?
A prescindere dalla pandemia, a fronte del crescere della azienda, ho sentito la necessità di far sì che i valori che possono essere ricondotti in prima battuta alla nostra famiglia, proprietaria, o all’imprenditore si diffondessero nell’organizzazione, in maniera da essere realmente patrimonio comune. Non possiamo pensare di apporre un significato dall’esterno: dico a tutti il naturale è bello e tutti ci credono, non funziona così.
La cosiddetta vision è un processo di continua emergenza dal basso. Le questioni che approfondisco nel libro sono anche modalità gestionali, un sistema a rete si gestisce in maniera diversa da un sistema lineare, per questo ho lavorato, soprattutto negli ultimi anni per portare in azienda tematiche che sembrerebbero distanti e questo è il primo passo, far emergere dall’interno valori e significati prima di guardare fuori. Questo è stato utilissimo nel momento in cui, pur essendo distanti, eravamo consapevoli che la pandemia non faceva che evidenziare quello in cui crediamo. C’è stata poi la contingenza del libro, già pronto, e ci siamo concentrati molto nel formare le persone: gli informatori medici, che non potevano girare per lavoro, hanno studiato i testi di Fritjof Capra (fisico e teorico dei sistemi, ndr); il mio libro è stato tradotto in 5 lingue, diffuso fra tutte le persone dell’azienda, discusso e approfondito.
Abbiamo ritrovato pur nella distanza una vicinanza forse superiore rispetto al passato, perché grazie a questi strumenti tecnologici siamo in grado di vederci, di interagire molto più di prima, ad esempio con l’estero.
È stato un passaggio epocale fatto in due mesi; l’azienda è stata molto brava, abbiamo girato tutto sulla digitalizzazione e questo è stato un plus: compattare l’azienda attorno ai significati, al bene comune, e attuare nuove modalità di lavoro.
L’aspetto critico?
Il fatto che questa situazione altera i rapporti e i ritmi, in maniera difficilmente sostenibile secondo me nel lungo termine, si lavora più di prima, non ci sono pause, è una relazione che non lascia spazio all’estemporaneo, l’emergere improvviso della relazione non pensata salta e ti priva di quella vicinanza per cui una volta si diceva se devo fare un affare sento il profumo di quella persona, beh questo è un mondo senza profumi e io spero si possa tornare presto a quel mondo profumato, quantomeno a una via intermedia e ne sento la forte necessità anche nelle persone, hanno bisogno di tornare a ‘vivere’ una vita non solo elettronica.
Io sono tornato in ufficio, siamo pochi, però percepisci che questo è un altro modo di lavorare, non torneremo indietro, il digitale usato così è anche utile, ma speriamo si esca dalla crisi con una via di mezzo, quel punto di sintesi in cui avremo scoperto quale può essere il positivo del digitale.
Oltre 30 anni di esperienza nel mondo del giornalismo e della comunicazione aziendale; da oltre 5 anni è consulente alla comunicazione positiva.Si occupa dello sviluppo della persona attraverso strumenti a mediazione artistica espressiva, come professional counselor a mediazione corporea e teatrale