“Fino a qualche anno fa la gestione della disabilità era, in tutti gli ambiti, gestita dalle associazioni o dal volontariato, ma mai approfondita dalla società come un argomento di cui occuparsi in modo corretto, preciso e non improvvisato, un argomento da studiare al pari qualsiasi altro, per le quali ci vogliono conoscenze e competenze. Per questo è nata la figura del disability manager, ed è di questo che mi occupo tutti i giorni». Parola di Haydée Longo, avvocata milanese di 37 anni, che ha scelto di diventare disability manager quando ancora in Italia non si vedeva la necessità di un ruolo professionale dedicato a tutti gli aspetti legati a questo tema. Eppure, di cosa da fare ce n’è tante su tanti fronti: da quello dei diritti sul lavoro a quello sociale, fino a quello dell’accessibilità digitale, e molto altro.
I dati Istat del 2019 parlano chiaro: considerando la sola popolazione dei disabili in età lavorativa (compresa tra i 15 e i 64 anni), stimata intorno alle 700.000 unità, risulta occupato solo il 31,3%, vale a dire poco meno di 220.000 unità. Tale percentuale scende al 26,7% tra le donne (circa 100.000 unità) ed è pari al 36,3% tra gli uomini (circa 120.000). Nella popolazione generale il corrispondente tasso di occupazione totale è del 58%; per donne e uomini i valori sono pari rispettivamente al 48% e al 67%. Ma il dato che più preoccupa è che il 18,1% dei disabili in età lavorativa è in cerca di occupazione: si tratta di circa 120.000 persone (70.000 uomini e 50.000 donne) per lo più di giovane età che vorrebbero partecipare attivamente al mercato del lavoro ma ne vengono praticamente rifiutate. Il 3,6% dei disabili è studente, con leggera prevalenza delle donne (3,9%) rispetto agli uomini (3,2%); il 12,6% risulta, invece, inabile al lavoro per via, evidentemente, di limitazioni estreme che riguardano più gli uomini (16,1%) che le donne (9,3%). Il restante 34,4% delle persone con disabilità in età lavorativa (in prevalenza femmine con una quota pari al 45%, rispetto al 23,1% dei maschi) si trova in “altra condizione professionale”: si tratta per lo più di donne casalinghe o di persone che hanno già raggiunto i requisiti per la pensione o di persone ormai disilluse che hanno rinunciato a cercare un posto di lavoro.”
“Oggi finalmente la società sta capendo che la disabilità esiste solo se ci sono delle barriere che impediscono di avere una vita come tutti. Il focus si sposta quindi sull’interazione con l’ambiente”.
Da quando in Italia si parla di disability manager?
Quella del disability manager è una figura professionale arrivata in Italia da poco. Se ne è iniziato a parlare intorno al 2009-2010 in occasione di un convegno internazionale del Comune di Parma in cui si ipotizzava una figura più politica che fosse di supporto nei comuni e negli enti territoriali, per favorire l’inclusione della disabilità. È però solo nel 2015 che il disability manager entra nel nostro panorama normativo nel con il Jobs Act, che invita le aziende a dotarsi di un responsabile Hr specializzato in disabilità per i dipendenti con disabilità. Nel 2017, poi, la legge Madia obbliga tutte le pubbliche amministrazioni con più di 200 dipendenti a dotarsi di questa figura professionale, che viene configurata come responsabile risorse umane specializzato in disabilità. Manca però una gestione a livello nazionale, ed è uno dei fronti su cui stiamo lavorando con la Federazione Disability Management (Fedman) che ho fondato con altri colleghi.
La “Legge Delega sulla disabilità”, approvata nel dicembre 2021, ha però introdotto una revisione importante dell’impianto normativo, facendo diventare obbligatoria la presenza di un disability manager in tutte le pubbliche amministrazioni indipendentemente dal numero di dipendenti. Si sta, insomma, ampliando il raggio di azione, con decreti attuativi che ancora devono essere emanati.
A monte di tutto c’è la convenzione Onu del 13.12.2006 sui Diritti delle persone con disabilità, che ha consacrato il tema a livello giuridico, riconoscendo dei diritti universali. L’Italia l’ha ufficialmente portata nella sua legislazione con una legge del 2009.
Come la società italiana si è evoluta sul tema della disabilità?
In generale trovo che sempre più aziende enti e realtà si stiano ponendo il problema di come creare un ambiente – che sia di lavoro, scolastico, di comunità – più inclusivo, e capire come trattare la disabilità e farla conoscere. Il problema principale, però, è che la disabilità non è mai stata considerata come meritevole di studi scientifici non medici, mentre oggi è ormai accettato che l’aspetto da prendere in considerazione è quello bio-psico-sociale: concepirla quindi non solo legata alla malattia, ma come interazione fra la condizione fisica e mentale e l’ambiente. Fondamentale è andare a capire se sono presenti o meno delle barriere nell’ambiente che ci circonda e di quale natura sono per poterle abbattere. Questa idea ha una portata rivoluzionaria perché fa capire come il focus fino a oggi fosse su aspetti non controllabili, quando invece ci sono molte cose che possiamo controllare e che vanno a creare un ambiente in cui tutti possono fare tutto. Oggi si sta accettando il fatto che si ha una disabilità quando ci sono delle barriere che impediscono di avere una vita come tutti. Il focus si sposta quindi sull’interazione con l’ambiente.
Che cosa intendiamo quando parliamo di disabilità?
La disabilità è la barriera: questo è il messaggio principale che deve ancora entrare nella testa di tante persone, è un po’ la missione che ci dobbiamo dare come professionisti. Dobbiamo fare capire che le barriere sono state create dalla società, siano esse fisiche o mentali. Le prime sono i pregiudizi, primo fra tutti pensare che una persona con disabilità non possa svolgere alcune attività, perché gli ostacoli insuperabili sono in realtà davvero pochi.
In quest’ottica la nozione di disabilità è diventata molto ampia, non più limitata quindi solo a invalidità, handicap o malattia, ma estesa a qualsiasi condizione psico-fisica si trovi davanti a una barriera.
Come sei arrivata a fare la disability manager?
Io ho da sempre avuto a che fare con la disabilità, è stata spesso in famiglia e nelle prime interazioni sociali, ed ero quindi già sensibilizzata al tema. Ho iniziato a studiare giurisprudenza perché fin da bambina avevo forte l’idea della giustizia e di volermi occupare di qualche cosa di grande, ma all’epoca questo tema non esisteva nei programmi di studio. Solo più avanti, mentre cercavo un corso per acquisire nuove competenze, sul sito della Statale di Milano ho trovato un corso post-laurea intitolato “Diritti e l’inclusione delle persone con disabilità in una prospettiva multidisciplinare”. Incuriosita dal programma, anche se titubante perché troppo particolare, ho deciso di farlo. E mi si è aperto un mondo: mi sono innamorata del tema, e mi sono resa conto quanta noncuranza ci fosse nei confronti di questi temi da parte di chi si occupa di diritto e quanti aspetti c’erano da approfondire, che interessavano moltissime realtà diverse. Mi sembrava di avere scoperto un Nuovo Mondo, e che quella fosse la mia strada fin da quando ero una bambina.
Bisognava però capire come dare a questo interesse un contorno professionale, e questo non è stato per niente facile…
Quali sono le difficoltà maggiori che hai dovuto affrontare?
Innanzitutto mi sono trovata di fronte a dei pregiudizi, che ho subito io stessa nel momento in cui ho deciso di fare della disabilità il mio lavoro, perché la reazione tipica – a casa, fra amici o colleghi – era uno sguardo di sufficienza. Non capivano la necessità, non interessava il tema, che è di fatto poco glamour, e in tanti mi sconsigliavano di intraprendere questa strada. In più non c’erano studi legali che si occupassero del tema, era di fatto tutto da mettere in piedi: allora ne ho creato uno io. Ho dovuto ampliare conoscenze e competenze: ho fatto un corso per disability manager, per entrare negli aspetti pratici di gestione, ho studiato tantissimo i temi legati all’accessibilità, tanto che sono diventata un’esperta dell’accessibilità digitale, e ho lavorato al Parlamento, con la onorevole Lisa Noja che ha fatto una mozione sulle donne con disabilità. Ho poi iniziato a insegnare all’Università al corso che un anno prima avevo frequentato come studentessa e oggi continuo a essere nel corpo docenti. Nel frattempo ho iniziato a lavorare in altre università: al Milano Fashion Institute, dove mi occupo di come la moda si sta evolvendo aprendosi anche alla disabilità, all’Università Cattolica al master per disability manager, e all’Università di Torino, ma ho fatto anche dei corsi a Londra.
La pandemia ha aiutato a fare crescere la consapevolezza della necessità di occuparsi di questi temi e io in questi cinque anni ho visto il mondo cambiare tanto crescere la curiosità su questi temi e da quella che, nel 2018, veniva guardata con sufficienza, ora sono diventata quella che viene chiamata come esperta.
Quali sono le situazioni per le quali vieni più spesso interpellata?
L’inclusione lavorativa sotto tanti punti di vista: dalle persone che lamentano di essere discriminate alle aziende che vogliono essere maggiormente inclusive. Un altro tema importante è quello dell’accessibilità, sia fisica che digitale: nello specifico quest’ultimo è un tema di cui mi occupo tanto e per il quale arrivano tante richieste. E poi c’è la questione di come si parla di disabilità: da un lato sta crescendo interesse e curiosità, dall’altro però questa attenzione crescente sta generando un senso di noia e saturazione. Per questo cerco di spiegare come dietro ogni parola ci sia una storia di lotta e di diritti: handicap, disabilità, invalidità sono tutti termini che si portano dietro dei diritti e dei non diritti che hanno portato all’evoluzione del genere umano.
Inoltre, tante persone con disabilità hanno iniziato a parlarne, superando una vergogna che nel passato esisteva, e questo senza dubbio aiuta molto la conoscenza dell’argomento.
C’è poi tutto un lavoro di sensibilizzazione e formazione che viene portato avanti dalle associazioni e anche dalle aziende. Inoltre noto che le scuole sono sempre aperte a queste iniziative e organizzano tante iniziative, ed è molto importante che fin da piccoli vengano educati al rispetto e alla conoscenza dell’altro.
Parallelamente, sono consigliera nella sezione milanese di AISM- Associazione Italiana Sclerosi Multipla, per cui ho anche l’incarico di responsabile advocacy: mi occupo quindi di tutela dei diritti, linee strategiche per cercare di comprendere i problemi che le persone con sm si trovano ad affrontare e le criticità che vivono quotidianamente, da qualsiasi punto di vista. Sono molto contenta di ricoprire questo ruolo perché mi permette di entrare nel vivo dei diritti in un modo molto attivo.
Quali sono ancora le mancanze su questo territorio? Cosa c’è ancora da fare?
C’è ancora da fare tutto. Questo non è un campo in cui abbiamo forse fatto il 30%. In Italia noi abbiamo un impianto normativo in teoria moto ben fatto, il migliore in Europa, ma le leggi che abbiamo sono molto poco applicate perché non c’è il controllo e non c’è chi sanziona. Per fortuna sta cambiando. Ma c’è tanto da fare perché la disabilità non è conosciuta, non si sa come comportarsi e con questa pandemia abbiamo perso il contatto umano. Io sono comunque fiduciosa perché vedo tanta curiosità e tante acque smuoversi. Mio padre quando ho iniziato a lavorare mi ha detto ‘ti accorgerai che in questo paese le cose non cambiano mai’. Io invece credo che anche qui possano migliorare. E mi batto perché questo avvenga.