“È il momento del cambiamento. Bisogna poter esercitare il potere del fare le cose”. Non ha dubbi Isa Maggi, coordinatrice nazionale degli Stati Generali delle Donne sulla necessità di unire le forze per uscire dalla logica della frammentazione e del patriarcato. “È il momento di voltare pagina, affinché si possa pensare al benessere collettivo. Dobbiamo pensare al dopo, ai nostri nipoti e a quello che verrà. Bisogna cambiare il paradigma della cura. E noi donne siamo storicamente abituate ad averne dentro di noi il senso”.
Fare rete per problemi condivisi è uno degli obiettivi degli stati Generali delle Donne. Quali sono attualmente le difficoltà che le donne incontrano nel loro vivere quotidiano?
Con gli Stati Generali delle Donne il 27 giugno dell’anno scorso abbiamo dato avvio a una grande alleanza, per attivare uno spirito condiviso. C’è ancora molta resistenza da parte di alcune associazioni con un forte senso del protagonismo, chiediamo a tutte le realtà di aggregarsi per poter condividere lo zoccolo duro delle necessità che ancora oggi le donne incontrano in Italia. Il nostro Paese è il fanalino di coda in Europa per quanto riguarda l’occupazione femminile. Abbiamo un problema strutturale di violenza a cui spesso è correlata la questione della mancanza di lavoro, perché molte donne, non avendo l’autonomia economica, sono costrette a stare a casa, dove vivono situazioni di disagio domestico. C’è un dato di non riconoscibilità delle donne sul quotidiano, alcuni obiettivi sono stati raggiunti, penso ad esempio al caso della rappresentanza nei Cda in alcune società quotate in borsa, ma ci dobbiamo rendere conto che i risultati riguardano una piccola porzione di donne. Quello che chiamano ‘tetto di cristallo’ è già di per sé lontano, non riusciamo ad arrivarci, in quanto il primo gradino della scala è rotto. L’ascensore sociale è sparito sia per le donne che per i giovani. Nelle regioni del Nord Italia, dove in passato la disparità di genere era meno evidente, i dati sono peggiorati. Per esempio, in Lombardia, esiste un sud nelle province di Pavia, Cremona, Lodi e Mantova dove i tassi di disoccupazione sono ancora alti. Se le imprese non hanno lavoro da offrire, non assumono né donne né uomini. Non bastano la detassazione e la decontribuzione. Bisogna seguire le vocazioni territoriali e ascoltare le varie associazioni di categoria.
Donne che cambiano gli stili di vita
Sappiamo che gran parte dei fondi del PNRR sono destinati al campo della transizione ecologica e del digitale. Sono ambienti prevalentemente maschili, dobbiamo fare il salto di qualità e pensare che anche le donne ci possano entrare. Lo scorso 29 settembre in occasione della #PreCop abbiamo presentato a Milano il Manifesto “Il Patto delle Donne per il clima e l’ambiente”, a testimonianza di quello che le donne possono fare per incidere sulla quesitone climatica.
Come? Cambiando gli stili di vita.
Le donne sono le determinanti dei modelli di consumo. Ci sono comportamenti che, come donne, già mettiamo in atto.
I consumi incidono anche sui modelli di produzione. C’è poi la questione mobilità: sappiamo che sono soprattutto le donne a usare mezzi pubblici. Con il progetto Città delle Donne, la mobilità si inquadra come fattore chiave non solo per eliminare il problema dell’inquinamento, ma anche per dare un servizio adeguato allea collettività. Bisogna mettere nella cassetta del pensiero di chi sta prendendo le decisioni tanti elementi. (Donne e tecnologia: la ricerca sulla digital equality ).
Il tema della gender equality è di grande attualità. Quali sono le azioni concrete che le istituzioni possono mettere in atto per riempire questi termini di significato?
Abbiamo fatto la richiesta al Governo di scrivere un piano nazionale per l’occupazione, perché il tema dell’uguaglianza di genere sul lavoro è centrale, ma deve essere inteso nelle sue varie sfaccettature. Chiediamo la creazione di un’Agenzia unica per le donne: se le cose non funzionano bisogna rivoluzionare gli strumenti e cambiare dal basso. Significa avere una visione unitaria. Dobbiamo far diventare l’Italia un laboratorio di innovazione. In alcune istituzioni c’è davvero il pink washing, non c’è una visione di cambiamento che abbia delle radici concrete.
Qual è l’anello debole in termini di parità: cultura dei cittadini, imprese, istituzioni?
L’anello debole sta nell’idea che si possa procedere da soli e lavorare per singole associazioni. L’alleanza delle donne ha questo significato: è una chiamata alle armi di tutte le donne e gli uomini illuminati, la frammentazione non produce nulla. Le istituzioni sono in ascolto, sono i partiti a essere divisivi, per fare propaganda politica usano le donne per portare avanti le proprie istanze. Dobbiamo smetterla di essere alla corte degli uomini forti, bisogna uscire da questa logica. Fra due anni avremo elezioni, stiamo chiedendo a viva voce che la presidenza della Repubblica sia in capo a una donna, ci sono molte regioni che andranno al voto e occorre essere pronte a entrare in gioco politicamente. Non è più possibile delegare gli uomini a fare qualcosa per noi.
Ognuno faccia la propria parte
La chiamata è all’assunzione di responsabilità da parte di ciascuna di noi. Durante l’estate abbiamo lanciato il progetto dei Caschi Rosa per aiutare le donne afghane che sono in Italia completare il loro percorso di studi. Abbiamo interpellato i Comuni delle Città delle Donne, abbiamo dialogato con l’ANCI, abbiamo scritto al MIUR, abbiamo avuto una risposta territoriale seria e concreta.
Bisogna cambiare il paradigma della cura. A essere in crisi è la cura e noi donne siamo abituate storicamente ad averne dentro di noi il senso.
Quanto il linguaggio della politica può incidere sulla cultura di genere?
Bisogna rimanere con uno spirito critico molto concreto e guardare l’esito finale. Alcuni provvedimenti vengono presi a livello partitico come specchietto per le allodole rispetto all’idea di uguaglianza e non producono niente. Se si detassa l’assunzione di una donna, ma le imprese non hanno lavoro per assumerla, non si produce nulla di fatto. Stesso discorso vale per la creazione di una certificazione di qualità nelle imprese che inseriscono l’equality gender nelle loro attività: l’ennesimo bollino blu. Sono provvedimenti eclatanti dal punto di vista mediatico, ma non hanno effetti nell’immediato.
A proposito delle parole, ce ne sono alcune che fanno la differenza?
Le parole hanno il potere della trasformazione. Sulle parole abbiamo lavorato molto e abbiamo scritto un wikilibro. Fra i termini che abbiamo sdoganato c’è ‘conciliazione’, non è pensabile conciliare il tempo di cura con quello professionale. Si può conciliare una multa, non il tempo. Si mettono insieme i momenti, si condividono con chi vive con noi, il tempo viene armonizzato con quelli delle città, ma non può essere conciliato. Stiamo sdoganando la parola ‘inclusione’, perché rivela una visione delle donne come segmento ‘debole’, che deve essere inserito nel mercato del lavoro, nella società, nella politica. Noi non dobbiamo essere ‘incluse’, dobbiamo essere protagoniste come lo sono gli uomini.
La parola inclusione è un ossimoro rispetto alla visione di uguaglianza e di evoluzione.
Alcune parole poi hanno un significato deleterio, come ‘multitasking’, è vero, riusciamo a fare tante cose, ma non è sempre un valore aggiunto. Bisogna sapersi dividere i compiti e imparare anche a delegare.
C’è chi pensa che le donne siano mamme anche quando non lo sono, per la capacità di prendersi cura: questo significa attribuire loro un grande potenziale creativo. Come portarlo alla luce?
Siamo madri e veniamo dalla grande madre terra. Penso che la violenza che è compiuta su di noi sia la stessa che viene perpetrata sulla madre terra. Questa correlazione mette al centro la capacità delle donne di essere protagoniste di questo mondo che ha vissuto anni e anni di patriarcato.
La terra adesso ha bisogno di cura, e le donne questo lo sanno, perché fa parte del proprio modo di vivere, in quanto sono capaci di generare la vita.
Le donne sono solidali? Se sì, quando di più?
Le donne sono solidali quando hanno una consapevolezza interiore del bene comune. C’è un passaggio da fare mettendosi a disposizione, perché quello che fai per gli altri, lo fai anche per te. Nel momento in cui si percepisce qual è il percorso da fare verso la consapevolezza di sé, si comprende che cosa bisogna compiere.
La solidarietà passa attraverso la condivisione, anche la nuova economia basata sui valori è prettamente al femminile.
È un’economia che non nega il profitto, ma mette al centro l’attenzione e la cura. È una nuova idea di innovazione sociale. Quando abbiamo aperto gli Stati Generali a Roma nel 2014 al Parlamento Europeo abbiamo lanciato un modello di economia al femminile. Le Città delle Donne sono luoghi dove le imprese femminili vivono questa realtà e si radicano nei territori, diventano imprese di valore e si integrano con l’economia generale.
Quanto sono consapevoli i giovani sul tema?
C’è una presa di coscienza in atto. È un processo lungo, che però è avviato. La scuola è fondamentale. Nel momento in cui i giovani si rendono partecipi, divengono soggetti di consapevolezza, questo significa aver compreso la situazione e mettere in gioco azioni di cambiamento.
Quali sono i progetti futuri che con gli Stati Generali prevedete di mettere in campo?
La Città delle Donne è il primo grande contenitore. I comuni, grandi e piccoli, adottano una delibera e costruiscono azioni positive. Le città si rigenerano attraverso lo sguardo delle donne, si coinvolgono realtà diverse per realizzare un cambiamento positivo.
L’altro passaggio è l’internazionalizzazione: stiamo facendo un viaggio attraverso l’Expo di Dubai con alcune imprese femminili. Costruire l’internazionalizzazione significa che anche le nostre imprese femminili possono unirsi, creare filiere e vendere all’estero, per condividere una rete stabile e sicura. Abbiamo realizzato un sito che si chiama https://madeinwomanmadeinitaly.it. Già a ExpoMilano 2015 avevamo realizzato con 181 donne la Carta delle Donne del Mondo, firmata poi da altri 24 Paesi. La Carta sarà riproposta all’Expo di Dubai (iniziato lo scorso 1 ottobre ndr), saremo là per essere soggetti attivi e scriveremo con l’apporto di tutti la Carta delle Donne del Mondo di Expo Dubai, per il nostro futuro.
Perché è importante continuare a mantenere lo sguardo vivo sulla questione della gender equality?
Perché siamo il 51% della popolazione. E bisogna pensare sempre alla parte di donne meno fortunata di noi.
Serena Adriana Poerio
Giornalista, counselor a mediazione espressivo artistica e corporeo teatrale, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.