Un impegno nel nome dello Stato.
“Combattere le mafie significa ridurre la possibilità che penetrino nell’economia legale”, il senatore Franco Mirabelli, membro della seconda Commissione permanente di Giustizia e della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, ci introduce al tema della criminalità organizzata e ai suoi intrecci con le vicende economiche e sociali del Paese.
“L’allarme sociale è bassissimo”, avverte. Parole che suonano da monito e che richiamano la necessità di tenere alta l’attenzione e l’assunzione di responsabilità. “C’è spazio di impegno. Il rischio c’è sempre, qualunque azione si faccia si deve tenere conto che le mafie possono essere favorite o contrastate”. Stato, terzo settore, cittadini, imprese possono fare la propria parte. Con una certezza, che alimenta la fiducia: “Penso valga la pena”.
La lotta alla mafia ha ricadute economiche sul sistema Paese. Con i beni confiscati e il riutilizzo sociale è possibile applicare il concetto di economia circolare anche a questo ambito? In che modo?
Avere un’economia condizionata dai soldi della criminalità organizzata derivanti da attività illecite è un problema democratico per il Paese. Se per economia circolare applicata a questo ambito, intendiamo ridurre la possibilità di circolazione delle mafie nell’economia legale e recuperare attraverso l’uso intelligente e positivo l’ingente numero di beni confiscati con la messa a disposizione della società, la lotta alla mafia può e deve agire in questo senso.
Su tutto questo pesa che le mafie hanno insediamento internazionale, si sono globalizzate. Ci sono stati processi sulla ‘ndrangheta in Canada, in Australia, negli Stati Uniti.
Quanto la pandemia sta incidendo sull’avanzare delle mafie?
A oggi siamo nelle condizioni di conoscere i rischi che si stanno correndo. Questo ci ha consentito di alzare il livello di attenzione e quindi anche le difese. In ogni momento di difficoltà le mafie sono avvantaggiate.
Quando c’è una crisi economica e di liquidità le mafie sono in grado, con sistemi diversi, di offrire servizi: dal recupero crediti alla facilitazione di procedure amministrative. La criminalità organizzata, che ha risorse economiche, può sfruttare momenti di difficoltà delle imprese per finanziarle.
Dai segnali che abbiamo riguardo il Nord del Paese sappiamo che in questi mesi e negli ultimi anni c’è stata una disponibilità delle aziende a cercare finanziamenti di ogni tipo. Nel Sud Italia le mafie lavorano per rafforzare il proprio consenso sociale e territoriale. Se non avessimo fatto il reddito di emergenza e se non ci fosse stato il reddito di cittadinanza in qualche piccola realtà le mafie si sarebbero proposte come agenti di welfare territoriale. In una fase come questa la capacità che hanno le mafie di penetrare le amministrazioni e orientare i sussidi è un modo per costruire il consenso, così come conquistare appalti e posizioni all’interno di sistemi sanitari: sono operazioni che danno prestigio e legittimazione.
Far dialogare le banche dati
“Altra questione è quella legata al tentativo che faranno le mafie per poter concorrere all’utilizzo dei soldi del Recovery Plan – sottolinea Franco Mirabelli e continua – Abbiamo dimostrato negli ultimi anni – faccio l’esempio di Expo, del Giubileo e di grandi opere – di riuscire a mettere in campo una serie di provvedimenti che rendono più difficile per le mafie accedere a questi appalti. I sistemi di certificazioni antimafia e le misure interdittive devono essere rafforzati dalla capacità delle banche dati di dialogare fra di loro. Così riusciremo a prevenire. Non deve passare l’idea che siccome si debba ripartire in fretta, si possa rinunciare ai controlli”.
La crisi ha messo in ginocchio molte attività commerciali, una occasione in più…
Rispetto alla penetrazione nell’economia, un modo che le mafie hanno per sfruttare la crisi è riciclare i proventi illeciti acquisendo esercizi commerciali, bar, ristoranti e negozi. Si sta lavorando con le prefetture per potenziare i controlli anche sulle provenienze dei finanziamenti con cui si fanno queste transizioni. Va rafforzato il sistema normativo: in questo momento non c’è l’obbligo di comunicare le compravendite di esercizi commerciali e questo facilita le mafie. Anche questo è un fenomeno che c’era già prima, lo si riconosce anche dalla tipologia dei beni confiscati.
I dati sono tema di interesse per le mafie?
Le mafie hanno interesse a conoscere ciò che le può orientare per proporre i propri servizi o per indirizzare i propri investimenti. Fondamentale avere banche dati – dei diversi corpi dello Stato, dei Comuni, delle Camere di Commercio – che dialoghino fra di loro. Se i dati sono messi in relazione, si ha la capacità di scandagliare le società e capire da dove arrivano i pericoli. Le mafie sono attente osservatrici dei mercati e dei fenomeni economici, sanno differenziare le proprie attività in maniera straordinaria. In questi ultimi anni, soprattutto al Nord, le mafie lucrano con le false fatturazioni: è un fenomeno diventato un giro d’affari molto significativo. Su questo c’è una professionalità che non può prescindere dai dati, una collaborazione dei colletti bianchi molto significativa.
Come si intensifica il dialogo tra Stato e aziende su questo tema?
In questi mesi si è diffusa con volontà del ministro Lamorgese una modalità di lavoro e monitoraggio che riunisce forze dell’ordine, organismi inquirenti, associazioni di impresa, commerciali e altre. L’obiettivo è riconoscere spie di infiltrazioni mafiose. C’è purtroppo da segnalare che non tutti i corpi intermedi hanno finora raccolto l’invito a responsabilizzarsi e a fare la propria parte. Ci sono alcune eccezioni: Assolombarda ha lavorato molto sul tema. Con la collaborazione del mondo delle imprese e dell’associazionismo, si può evidenziare che quello che può apparire un affare straordinario nel momento in cui si dispone di soldi dalla criminalità organizzata, non solo inquina la libera concorrenza – e quindi penalizza tutti – danneggia anche chi si rivolge a questi ‘finanziatori’. Il tema non è solo l’usura, il condizionamento violento e l’intimidazione sono molto forti.
Cooperazione transnazionale: la Procura europea
In generale, spiega il senatore Mirabelli, la corruzione e l’evasione fiscale sono due terreni che favoriscono le mafie. “Il perché del primo è evidente, per il secondo bisogna sapere che per combattere le mafie – lo diceva Falcone e noi lo stiamo applicando da tempo – occorre seguire i soldi. Ci vuole grande trasparenza sui finanziamenti, sui percorsi monetari. È evidente che questo faccia a pugni con l’evasione fiscale. Ci sarebbero molte parole da spendere sui sui paradisi fiscali e sui Paesi Europei che si rendono disponibili ad accogliere i soldi senza verificare da dove arrivano. Ci stiamo lavorando anche con la Procura europea, con l’istituzione si ha la possibilità di confiscare i beni in qualunque posto dell’Unione si trovino. Le imprese devono fare di più. L’allarme sociale nel momento in cui le mafie non sparano e non mettono le bombe si è abbassato moltissimo: bisogna fare sensibilizzazione, far capire la pericolosità che queste organizzazioni comunque continuano a mantenere. Si può essere aggressivi con la violenza o mettendo nelle condizioni di cedere la propria attività”.
Si può avere fiducia nell’aiuto dello Stato?
Avendo storicamente avuto insediamenti mafiosi, siamo il Paese che ha la migliore legislazione antimafia che esista, tutti ce la copiano. Abbiamo anche gli apparati – e anche questo ci viene riconosciuto – dal punto di vista investigativo capaci di contrastare il fenomeno. Abbiamo evitato che la pandemia coincidesse con una forte capacità delle mafie di re-insediarsi in alcuni territori perché siamo riusciti a dare sostegno ai cittadini più in difficoltà, credo al contempo che le imprese abbiano avuto ristori non sufficienti. La strada delle mafie, a prescindere dalla pandemia, se guardiamo le ultime inchieste venete, lombarde, piemontesi, è la strada più facile da intraprendere. Dopodiché la paura fa il resto. Bisogna avere fiducia nello Stato, che è in grado di mettere in sicurezza le persone.
Torniamo ai beni confiscati. Quali sono i risultati raggiunti negli ultimi anni e quali le criticità?
I risultati sono a macchia di leopardo. Ci sono realtà dove i beni confiscati hanno fatto il percorso previsto dalla legge e sono tornati alla disponibilità della società, o attraverso il loro utilizzo diretto da parte Stato o attraverso associazioni del terzo settore. Penso che sull’uso dei beni restino ancora molte difficoltà nonostante sia stata fatta la riforma del Codice antimafia alla fine della scorsa legislatura. Abbiamo aumentato il numero dei dipendenti dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC), abbiamo preso diversi provvedimenti, ma non è sufficiente. Molto dipende dalla capacità, volontà e dimensione dei Comuni. Riguardo al finanziamento, i beni confiscati sono un patrimonio che viene trasferito ai Comuni, che per essere riutilizzato per finalità sociali ha bisogno di interventi, anche economici, più o meno grandi, a seconda di quanto le mafie si sono accanite durante il possesso. Il fondo che abbiamo istituito recentemente, con un emendamento mio, per consentire ai Comuni di accedere ai soldi per sistemare la proprietà è un primo passo. Con la Commissione Parlamentare antimafia stiamo realizzando un vademecum per i Comuni.
Quando a essere confiscate sono le aziende come si procede?
È un problema che abbiamo risolto solo in parte, nonostante le modifiche alla legislazione siano state le più significative, è quello delle aziende confiscate.
È un tema serio, perché molte di queste aziende godevano delle risorse che provenivano dalle mafie e al loro interno contavano lavoratori onesti che rischiavano di perdere il lavoro. Un’azienda, una volta confiscata, perdeva – adesso non dovrebbe essere più così – ogni possibilità di accesso al credito. Abbiamo previsto dal un punto di vista legislativo una serie di ipotesi di lavoro per mettere in una situazione di vantaggio queste aziende: si fa un’operazione, che prima non si faceva, per verificare con professionalità se l’impresa ha un futuro e in caso affermativo bisogna costruire un piano industriale, sapendo che ci si possa avvalere di una serie di facilitazioni che la legge prevede. Questo ha funzionato in diverse realtà grazie all’ottimo lavoro dei magistrati di misure di prevenzione. A Roma, una mattina di 5 anni fa, arrivarono gli elicotteri sul centro, confiscarono 19 tra pizzerie e locali, attività che dopo due giorni erano già funzionanti. Il magistrato aveva preparato l’operazione, messo chi doveva nelle condizioni di riaprire subito, assumendo personale. In quel caso è stata salvata l’occupazione, l’economia e, dopo la confisca definitiva, molti beni sono stati venduti. Lo Stato ci ha guadagnato potendo vendere quel patrimonio al massimo della sua redditività senza avere il problema di un’emergenza sociale. Il punto dello Stato è non far chiudere le aziende che hanno una prospettiva. Le imprese sane possono avere interesse a sostenerle e acquisirle. Alla fine della confisca quella deve essere la prospettiva.
Occorre secondo lei maggiore trasparenza nell’informazione che si dà sul tema ai cittadini?
Molte amministrazioni non sanno come muoversi. Che esista il Fondo istituito lo sanno pochi Comuni. Le informazioni circolano poco. A Milano i beni confiscati sono quasi tutti utilizzati, ma stiamo parlando di una realtà grande con competenze e strumenti per intervenire. Credo vada valorizzato l’Istituto. Questa è una delle finalità che il Comitato della Commissione Parlamentare antimafia si sta proponendo.
Serve più l’alleanza tra Stato e terzo settore?
Il terzo settore fa moltissimo. Penso che sui beni confiscati da Libera Associazioni, l’organizzazione che coordina centinaia di associazioni locali, altre realtà non profit e i sindacati stanno lavorando molto su questo fronte. Occorre rendere questi mondi protagonisti di tutto il percorso. Nella progettazione, riflessione, costruzione di soluzioni, penso occorra maggiore disponibilità ad ascoltare e accogliere le opinioni che vengono dal terzo settore. C’è bisogno di un quadro di prospettiva su quello che serve al Sud o in altre aree del Paese, dove è necessario uno stimolo sociale e culturale alla lotta alla mafia.
Comunicare per raccontare la necessità della lotta alle mafie
Come sensibilizzare sul tema?
Si fa fatica a dare concretezza e materialità a un fenomeno che esiste ed è drammaticamente pervasivo. Sempre più avremo organizzazioni criminali che si occuperanno di trovare strumenti nell’economia legale. Il fatto che siamo lontani da fenomeni che hanno portato a una reazione sociale forte, rende più complicato tenere alta l’attenzione e la tensione dell’opinione pubblica contro le mafie. I colpi che le mafie hanno ricevuto, sono stati inferti dallo Stato, dagli inquirenti, dalle forze dell’ordine, ma anche da un grande sostegno popolare.
I media vanno a cicli. Su tutta la questione delle mafie purtroppo c’è sempre una ricerca del folclore. Una mafia che come la ‘Ndrangheta si fonda su rapporti familiari e che come finalità ha quella del potere puro e semplice e di sostenere una comunità, è molto difficile farla percepire in termini di pericolosità.
Come si coinvolgono i giovani?
Ai giovani bisogna raccontare quello che succede. Continuo a pensare che il tema non venga percepito nella sua totalità. Bisogna fare una riflessione sulla dimensione transnazionale delle mafie.
Con il suo lavoro ha scelto di scalare una montagna infinita…
Sono cresciuto nei movimenti per la pace. Ho scelto già da quando ero in Regione di occuparmi di lotta alla mafia, perché mi sembrava importante farlo. Sto da 8 anni in Commissione antimafia e questo mi ha dato la possibilità di conoscere il lavoro che si è compiuto e i risultati che si possono raggiungere. Ho incontrato una straordinaria ricchezza di competenze investigative e capacità di contrasto. Questo è il posto in cui si rende chiaro che chi dice che lo Stato non c’è, sbaglia. Lo Stato c’è e si fa sentire.
Giornalista, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi attraverso strumenti a mediazione espressiva. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.