Luca Morari

Luca Morari (Ricola): politica, aziende, individui, ciascuno faccia la propria parte

Tra le iniziative più recenti in termini di CSR c’è ‘Io tengo a te’, realizzata per sostenere nell’acquisto di presidi DPI l’associazione La Nostra Famiglia, che si occupa di riabilitazione e cure a bambini e ragazzi affetti da disabilità.
Ma il rapporto con la sostenibilità di Ricola, l’azienda ‘familiare’ svizzera fondata nel 1930 dalla famiglia Richterich che ancora oggi la guida, impronta sin dall’inizio la gestione aziendale sotto il profilo economico, sociale ed ecologico.

Uno spirito, che incontriamo anche in Luca Morari, vicepresidente Southern Europe di Ricola e ceo di Divita, società che commercializza i prodotti Ricola sul territorio italiano.
Partiamo dal fenomeno che ancora oggi ci fa incontrare a distanza, su una piattaforma digitale che ci consente però di guardarci negli occhi mentre cerchiamo di capire se la sostenibilità possa essere a portata di tutti.

Il fenomeno Covid ha riacceso i riflettori sulle persone. Vede dei semi per il futuro nelle aziende?

Per la mia azienda posso dire di sì. Le persone vengono prima di tutto ed è stato così al 100% sia in Svizzera, sia in Italia: al primo caso di positività, la fabbrica è stata chiusa, con quello che comporta, anche se gli svizzeri sono previdenti e avevamo fatto tutti un po’ di overstocking. Abbiamo messo tutte le persone in smartworking e dotato di wifi e personal computer chi non l’aveva, così per l’esterno l’azienda ha funzionato come e meglio di prima.

Se invece devo parlare della comunità economica sono un po’ perplesso; fin quando la politica non riprenderà il ruolo guida di questo mondo, negli ultimi vent’anni ceduto clamorosamente all’economia, tutto questo non può succedere. Non le nascondo che noi abbiamo potuto godere di un privilegio in questa emergenza perché siamo una azienda privata, che si autofinanzia, non ha shareholder in una stock exchange, non ha acceso linee di credito con banche e rende conto solo alla famiglia Richterich. Immagino un mio collega che lavora per una multinazionale e ogni quarter deve portare l’andamento del fatturato e il profitto… probabilmente qualcuno avrà avuto un po’ di buon senso in questo momento, ma poiché l’essere umano tende ad adattarsi, non vedo grandi speranze non appena ripartirà la corsa verso il profitto esasperato e gli obiettivi di breve termine.

È un circolo vizioso…

Se c’è una coscienza collettiva che dà più forza alla politica e la politica, come dicevo, riprende il suo posto allora si può evolvere. Vedo che le aziende, ancora tante, ragionano in un’ottica temporale di mesi, non di anni.
Non ci autoregoliamo, qualcuno dovrebbe dare delle guideline molto precise. Le faccio un esempio, il consulente che mi segue per l’efficienza energetica mi ha proposto una batteria di accumulo che regala 1500 kwatt all’anno se si fa network con le altre batterie in zona: come dice Rifkin da 20 anni, se invece di avere mega centrali elettriche o nucleari diventassimo tutti piccoli produttori di energia le cose andrebbero meglio, ma è la politica che con gli incentivi può guidare in questa direzione. Vale anche per le aziende, da Adam Smith in poi l’impresa è guidata dalla sua efficienza economica e il senso della collettività che aveva la borghesia milanese del precedente secolo non esiste più nel mondo dei ‘Diavoli’, giusto per citare una serie in voga adesso.

Però lo scorso anno a decretare il primato delle risorse umane sul profitto sono stati 200 ceo di multinazionali.

Penso che sia un effetto della globalizzazione. In buona o cattiva fede i ceo si accorgono sempre di più che è con le risorse umane che si fanno le aziende. Poi le aziende possono essere più forti delle singole persone, se metto dieci travi per costruire una casa posso anche buttarne giù una e la casa sta su. Ma se prendo dieci travi marce, la casa crolla dopo sei mesi.
Sempre di più c’è la consapevolezza del costo che comporta formare e motivare una risorsa. Anche l’andamento verso lo smart-working muove con una velocità impensabile verso la valorizzazione di una risorsa umana per gli obiettivi che raggiunge, piuttosto che per il tempo che sta in azienda. Ormai negli uffici non c’è più una struttura ‘militare’: 20 anni fa lavoravo in una azienda in cui fu vietato ai dipendenti navigare su internet, ma c’era uno schermo fisso su un computer fisso, oggi basta uno smartphone sulle gambe per passare la giornata su FB se quello che ti chiede l’azienda è spendere 480 minuti al giorno in un ufficio, indipendentemente dal risultato.

Autonomia e responsabilità non sono un passaggio automatico per aziende, dipendenti e capi.

Ho la fortuna di lavorare in una azienda, almeno nella filiale italiana, medio piccola e non abbiamo mai avuto una macchina timbratrice per l’entrata e l’uscita. Al di là di funzioni come il customer service, che ha orari precisi, se una persona finisce un quarto d’ora prima o un quarto d’ora dopo, per me va a casa un quarto d’ora prima o dopo; non vedo perché devo costringerla a stare a guardare il soffitto e il giorno dopo devo pagare lo straordinario per compensare un picco di lavoro.
Da questo momento difficile abbiamo capito che per noi lo smartworking funziona bene e da settembre continueremo a farlo per il 20%, con un 80% di lavoro in ufficio. La comunità, il rapporto umano, lo scambio di idee sono meglio vis a vis, ma è anche vero che se siamo elastici facciamo un favore ai nostri colleghi che hanno dimostrato maturità completa e convinta: l’azienda ti viene incontro e tu vai incontro all’azienda. Le direi una cosa forse imprevedibile, la produttività è aumentata, sia perché le persone si sentivano in dovere di non farsi riprendere, sia per gratitudine: in una situazione economica in cui tanti hanno perso il lavoro o visto ridotto il salario i miei colleghi, al netto di tutto, hanno guadagnato di più, perché non hanno avuto spese di trasporto, hanno ricevuto lo stesso il buono pasto e hanno lavorato da casa.

Sostenibilità della vita e business, quindi, possono vivere insieme.

Quando me lo chiedono, amo dire che la sostenibilità in Ricola esisteva prima del termine. La nostra azienda è nata sostenibile per default: usando ingredienti naturali, si è accorta prima di altri, magari di chi stampava plastica, che se non rispettiamo la natura il nostro ingrediente principale ci arriva di qualità inferiore. A Milano, se ho un bambino piccolo mi accorgo prima delle polveri sottili rispetto a una coppia senza figli 40enni che va a fare l’aperitivo in corso Como…
Da 37 anni lavoriamo con Herzog & De Meuron, le prime Archistar sostenibili, almeno in Europa, e tutti i nostri stabilimenti e uffici sono stati progettati già 30 anni fa con criteri di sostenibilità. L’ultimo nato, ormai più di 5 anni fa, il Palazzo delle erbe, è la più grande costruzione in argilla d’Europa, costruita secondo principi naturali e antichi, a impatto zero in termini di mobilità dei materiali e ad alta efficienza energetica. Non siamo mai stati e non possiamo essere talebani dell’ecologia, ma siamo stati tra i primi a capire che bisogna sfruttarne le potenzialità.

Il Palazzo delle erbe di Ricola progettato dallo studio Herzog & De Meuron

È più semplice per una azienda grande, che fa fatturato, dedicarsi ai temi della sostenibilità?

Direi che è proprio il contrario, se si ha una business idea chiara è molto più facile da piccoli essere sostenibili, perché da grandi c’è un impatto organizzativo completamente differente. Invece chi si vuole differenziare, chi ha l’intuito di capire che la sostenibilità non è più una moda, ma è un trend obbligatorio per continuare a vivere in pace con il nostro pianeta ha il dovere di partire.
Se ho una casa vecchia devo mettere il cappotto per isolarla, ma se costruisco la mia casetta nuova la farò già con una classe energetica buona, perché so che mi conviene. È sempre lo stesso discorso, Ricola non è una azienda di benefattori, dà una remunerazione in linea con quella del mercato ai suoi azionisti, semplicemente ci arriva in una maniera più logica e più sostenibile; da una parte guadagna, dall’altra parte è in pace con il mondo e con la filosofia dei propri consumatori, perché cresce il bisogno delle persone di conoscere l’eticità dell’azienda. Ho una figlia di poco più di 20 anni che, prima ancora di scegliere gli articoli, vuole sapere quanto sia sostenibile l’azienda che li produce: diventa il primo fattore discriminatore del prodotto che acquista.
È chiaro che quando si ha fame si compra quello che costa meno, ma visto che, checché se ne dica, siamo ancora in una economia dell’abbondanza, è un discrimine importante soprattutto per le nuove generazioni.

Ci sono alcune categorie che faranno più fatica a rispondere al bisogno di sostenibilità.

Se si deve produrre acciaio non si può farlo scaldando con la legna l’altoforno, però, il mercato dell’automotive ci dice che invece di consumare risorse fossili possiamo fare funzionare le nostre macchine con l’energia prodotta dai pannelli solari. Quindi, credo che qualunque settore, con maggiore o minor fatica e velocità, sia in grado di adattarsi a questa nuova realtà.

Esiste un movimento trasversale di sensibilizzazione all’interno del mondo di imprenditori e manager?

Noi ad esempio, dalla nostra nascita in Italia quasi 15 anni fa, collaboriamo con LifeGate e spesso troviamo partner che hanno le stesse nostre caratteristiche con i quali ci scambiamo idee, suggerimenti, o facciamo co-marketing.

La special edition pensata per sostenere l’associazione ‘La nostra famiglia’

Tornando dentro Ricola, come comunicate con i dipendenti in questa fase, come mantenete coesa la popolazione?

Dall’inizio della pandemia abbiamo fissato un appuntamento settimanale in cui tutti i lavoratori si trovano su una delle molte piattaforme digitali a disposizione, si condivide e si fa il punto della situazione. Certo è faticoso, ma è incredibile come, in una situazione di emergenza, siano state al passo anche risorse non propriamente digitalizzate, che se avessero dovuto fare un corso avrebbero avuto bisogno di mesi e di un convincimento personale che in quel momento non c’era.


Come comunicate con la filiera?

Questo è uno dei ruoli della divisione marketing dell’azienda, proprio perché l’anello debole in questo caso è il trade. Come dicevo, il consumatore va alla ricerca del prodotto sostenibile, mentre, soprattutto nel mass market e salvo qualche piccolo esempio e qualche azione di facciata

il trade è rimasto drammaticamente arretrato rispetto all’industria

La contrattazione è sempre sul prezzo, sulla convenienza che è un fattore importante, sì, ma se all’inizio del ‘900 una famiglia italiana spendeva dal 20 al 40% del proprio stipendio per cibarsi, oggi parliamo di cifre inferiori al 10%; sarebbe ora che la distribuzione capisse, e lo capirà perché è una questione di tempo, che la sfida competitiva non è più solo sul prezzo, ma anche sulla sostenibilità di quello che fai.
Teniamo anche conto che noi italiani siamo abituati a parlare male di noi stessi, ma se c’è da raccogliere una sfida rispondiamo. Quando hanno tolto i sacchetti di plastica, sembrava che nessuno potesse più fare la spesa, invece la gente si è abituata a usare quelli compostabili e a tornare, come si faceva 50 anni fa, a usare le borse di tela. Così, l’uso della plastica riutilizzata mille volte diventa più sostenibile. Quindi, ancora una volta spetta a chi ha responsabilità guidare la società verso un futuro migliore, se le persone capiscono che c’è un vantaggio, anche non immediato, si adeguano.
Spetta alla buona politica, che ormai manca perché, come nella società e nell’industria, anche nella politica la tendenza è l’obiettivo di brevissimo periodo.

La comunicazione delle aziende può avere un impatto culturale? Oggi ad esempio, la gente sembra chiedere normalità.

Sicuramente la comunicazione ha una influenza importante sull’andare incontro a esigenze e trend. Quello che dice l’ho vissuto sulla mia pelle, dopo 18 campagne fotocopia in cui tutti ci dicevano ‘torniamo a far correre l’Italia’, ora preferirei mi dicessero ‘con 10 punti ti regalo una ciotola’. Si può fare una comunicazione intelligente senza essere mielosi, ma in questo Paese c’è da sempre una forma di snobismo culturale dell’elite che comunica, in particolare i creativi, che si sentono di trattare le persone come la famosa casalinga di Voghera: dobbiamo dare un messaggio melenso, ‘andrà tutto bene’. Andrà tutto bene se lo faremo andare bene, le cose non vanno da sole. Forse sto diventando un anziano signore, ma quando finisce una guerra, e questa è stata una guerra, la prima cosa da fare è rimboccarsi le maniche: senza il piano Marshall non si andava da nessuna parte, ma non è quello che ha fatto risorgere l’Italia sono stati gli italiani che si sono rimboccati le maniche per ricostruire il Paese. Dovrebbe valere sempre, ecco perché questa comunicazione dello ‘stringiamoci insieme’ mi vede un po’ perplesso.

Come definirebbe la comunicazione di Ricola?

Ricola ha una lunga tradizione nella comunicazione intelligente, ma ironica. E questo mi piace, perché penso che noi siamo una tassa: una persona sta guardando un film, un programma e si becca 180 secondi di comunicazione. Non sono più i tempi di Carosello per carità, ma come azienda devo cercare anche di intrattenere, di far sorridere e questa è stata la politica vincente di Ricola in Italia da 30 anni, comunicare la propria unicità con un filo di autoironia.

Un frame del progetto di branded content ‘Giovanni e lo straordinario mondo delle piante’

Parlando di comunicazione, giovani e tecnologie, contano i mezzi o i contenuti?

Abbiamo moltiplicato i device, le ore di tv su satellite e non, ma il dramma sono i contenuti. Le giovani generazioni abbandonano i media tradizionali perché vedono altrove quello che noi, diversamente giovani, vediamo dopo mesi o anni su media più tradizionali.
Non demonizzo la televisione, internet o lo smartphone, alla fine la differenza la fa sempre l’uso che ne fai. Viviamo in una democrazia della cultura e dell’informazione, una volta chi non aveva i mezzi economici non si poteva procurare cultura, oggi con uno smartphone, anche se non di ultima generazione o di una marca conosciuta, vado su Google e posso leggere testi, trovare fonti. Certo, come ci hanno insegnato ai tempi della scuola, le fonti vanno verificate, ma ci vorrebbero biblioteche grandi come il Duomo per raccogliere la conoscenza che troviamo in dieci centimetri quadrati.

Qual è il vostro rapporto con la tecnologia?

Noi siamo contadini, quindi, pensiamo a cosa sia l’irrigazione idroponica: l’acqua è diventata una risorsa critica, una volta per far crescere il pomodoro avevo bisogno di 10 litri d’acqua oggi ottengo lo stesso risultato, anzi migliore perché il pomodoro cresce più sano, con meno di un litro d’acqua. Questa è tecnologia. Certo poi dipende tutto dall’uso che se ne fa. In Ricola, abbiamo una divisione, Ricolab, che riceve un fee annuale dagli azionisti per studiare quale possa essere l’impatto delle erbe su prodotti futuri o futuribili.

Per finire, torniamo all’inizio, cosa le hanno insegnato questi mesi?

È stato un periodo difficile, abbiamo vissuto un fenomeno nuovo e inaspettato. Avevamo dei sentori, ma non ci aspettavamo uno tsunami. Lei pensi a una azienda come la nostra, che sviluppa il 50% del fatturato nel canale bar tabacchi, il giorno che li hanno chiusi abbiamo perso metà del nostro venduto. Però, questo periodo ci ha dato anche tanta ricchezza: ci ha fatto scoprire che possiamo essere efficaci in smartworking come e più di prima, ci ha insegnato a vivere meglio con i nostri familiari, a ripensare la follia di non avere neanche un minuto libero, sempre a correre dietro al problema in attesa e sempre in ritardo sul problema successivo. Questo lockdown ci ha costretto ad ‘annoiarci’ e, come dicevano molti filosofi del passato, la noia è fondamentale per vivere bene… abbiamo ragionato di più.
Se devo valutare dal punto di vista economico, una crisi come questa è come un uragano della natura, la pianta più radicata al terreno si riprende e cresce meglio di prima. La crisi è una potatura, taglio il ramo secco ma quello che rimane si potrà sviluppare meglio di prima.

In questo scenario che dipinge possiamo dare spazio alla parola solidarietà?

È importante e viene riscoperta: nel momento in cui le persone sono costrette a fermarsi e a riflettere, e non corrono senza guardarsi negli occhi, diventa possibile. Io sono un ex milanese che ha avuto la fortuna di andare a vivere in un piccolo paese vicino al lago Maggiore e a un certo punto, dico con ironia, erano più i volontari che facevano la spesa per gli anziani, degli anziani disponibili a farsi fare la spesa.
Come sempre, essendo un essere pensante, se gli diamo il tempo per pensare l’essere umano reagisce bene.

E se non siamo umani… non andiamo da nessuna parte

Monica Bozzellini
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Oltre 30 anni di esperienza nel mondo del giornalismo e della comunicazione aziendale; da oltre 5 anni è consulente alla comunicazione positiva.Si occupa dello sviluppo della persona attraverso strumenti a mediazione artistica espressiva, come professional counselor a mediazione corporea e teatrale

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