Sa bene, ogni volta che si esibisce, che gli spettatori sono andati là per lui. Dà al suo pubblico un appuntamento e lo rispetta e lo onora come un incontro a cui offrire l’importanza di un tempo e di uno spazio dedicato. Si muove seguendo la traccia della passione Marco Baliani. Attore, autore e regista, ha dato vita nel 1989 con Kohlhaas al teatro di narrazione. Nessun orpello, zero ammennicoli, assente ogni tipo di scenografia. Il protagonista è al centro del palcoscenico e con il solo strumento della voce realizza un racconto potente. “Dal punto di vista formale non è nulla di nuovo. Il teatro di narrazione è antichissimo nella sua forma, fin dai tempi dell’antica Grecia si raccontavano battaglie, epopee, grandi scontri”. Per proporre questo genere che pone i riflettori sul contenuto “occorre certo un bel racconto, una storia che mi appassiona e che appassioni gli altri – confida l’artista -. Non c’è nessuna quarta parete. Il teatro è compresenza. Avviene un appuntamento reciproco tra attore e spettatori, dove questi ultimi si riconoscono in un nuovo modo di ascoltare”. Una nuova modalità di essere e di fare è quella che Baliani auspica per una ripresa del teatro: “È fondamentale che gli artisti non smettano di crederci, e crederci vuol dire praticare, progettare, sperimentare arte”.
Il teatro ha un corpo fisico da cui non si può prescindere e che racconta emozioni. Come possiamo ancorarci al corpo in questo periodo in cui la fisicità è isolata e l’utilizzo di tecnologia dilaga?
Se vedo uno spettacolo di danza mi emoziono nell’osservare la fatica che i ballerini fanno, la bellezza, l’artificio, la bravura. Catturano la mia attenzione anche il sudore e gli schizzi di saliva. Quello è teatro. Una presenza corporea totale. Ciò che si può fare in questo periodo è che gli attori non smettano di provare: se sono i primi a rifugiarsi in una sorta di paura e a farsi vedere solo dalle telecamere è limitante. Ci sono modalità alternative per poter lavorare. Si può stare all’ aperto, si possono fare prove en plein air. Il teatro se l’è sempre cavata, non è mai morto, ce la farà. Intanto per poter lavorare in sintonia con altri attori bisogna cercare nuovi modi, anche se si è singoli si ha pur sempre bisogno di una regia, non si fa mai da soli il teatro. L’ultimo spettacolo che ho fatto era con 18 attori in scena, una meraviglia. Quello è il teatro che vorrei continuare a proporre. Ora non si può, ma si può preparare il prossimo futuro, ci possiamo allenare, possiamo costruire spettacoli e drammaturgie legate a questo periodo che ci aiutino a sopravvivere. Innanzitutto sopravvivere a noi stessi, per non perdere la fiducia.
Ha scritto: “Senza un teatro in cui riflettersi la società diventa invisibile, i neuroni specchio che contraddistinguono la specie umana insieme ad altre specie animali, non funzionano più, si disattivano, l’empatia istintiva che la specie ha sviluppato in migliaia di anni si atrofizza, l’altro diventa un essere da evitare, da cui stare alla larga, con cui non interferire. Occorre tornare visibili, subito, senza aspettare regalie o elemosine, uscire allo scoperto, occupare luoghi, agire per permettere alla società di continuare a vedersi per come è o per come potrebbe essere”. Quali azioni propone per il teatro per la fase post-covid?
Agire, non perdersi d’animo. Fare dei blitz, andare in piazza, andare nei parchi, fare prove all’aperto. Se si fermano delle persone a distanza di sicurezza e guardano tanto meglio, se non si fermano sono delle prove e si lavora per continuare a portare avanti progetti che si avevano in testa, anche modificandoli. Nascerà una nuova drammaturgia perché dovremo pensare a un teatro più ‘brechtiano’, dove c’è più distanza tra gli attori. Per la danza sarà ancora più difficile questo periodo. Ci vorrà più tempo che per il teatro, dove si può anche lavorare in una dimensione di drammaturgia in cui gli attori hanno una distanza tra di loro.
È tutto da sperimentare. Penso che intanto sia necessario avere il coraggio di occupare una piazza, un parco, un giardino. Occupare nel senso di disporsi, rispettando il distanziamento, magari portare delle cassette di frutta come piccolo rialzo per l’attore e dialogare, come fa il teatro
Un botta e risposta per provare i testi da fare, le parole da mettere, le azioni da compiere. Intanto possono essere mesi di preparazione e di creazione di nuovi testi e spettacoli. Se ce la fa, il teatro avrà ancora una funzione importante.
Tramite l’utilizzo di luoghi all’aperto, il teatro può aiutare a ristabilire equilibri all’interno di uno spazio urbano?
Bisogna abituare il pubblico al fatto che il teatro esista. Il teatro all’aperto funziona da sempre. Pensiamo alla storia della clowneria, della giocoleria, le possibilità ci sono. Bisogna vedere quanto sia grande la paura che è stata instillata con il Covid-19. Per la prima volta gli esseri umani perdono quella che è una delle caratteristiche di questa specie: l’aggregazione. Noi siamo animali di branco, come le scimmie. Siamo abituati a stare insieme e per questo abbiamo costruito le città, per difenderci dalla natura che credevamo estranea. Adesso la natura ci dice che non è affatto aliena. Siamo noi che abbiamo creato troppe estraneità.
Questo virus è la conseguenza del disastro ecologico che abbiamo messo in piedi
Mi preoccupa molto l’idea di tornare alla normalità di prima. Come se adesso il problema fosse riagganciare il Pil, il consumo. Come se si trattasse solo di una passata di straccio: “torniamo come prima”. Tornare come prima significa riammalarsi di nuovo: città inquinate, polveri sottili, bulimia nel consumo, terra sempre più sfruttata, i poveri sempre più poveri, i ricchi sempre più ricchi. Se siamo fermi a questo, è stato inutile il virus. Speriamo che succeda qualche altra cosa.
In teatro dovrebbe succedere che si arrivi una forma di spettacolo più agile, più forte, fatta di attori, meno pomposità, meno costi, meno spese
Tutto questo può avvenire, però bisogna essere parsimoniosi nei confronti del mondo. Io penso che quello che il virus ci abbia insegnato è che i beni essenziali sono molto pochi, i beni inessenziali sono la stragrande maggioranza. Abbiamo capito che si può viver con molto meno di quello con cui vivevamo prima. Questa è già una cosa meravigliosa che ci ha insegnato il Covid-19. Col pane avanzato si possono fare dei piatti succulenti. Questo vuol dire che in un centro commerciale due terzi di quello che c’è non serve a nulla. Non ci serve per vivere, per gioire, per amare. Quello che ci serve è l’essenziale. E tra l’essenziale spero che ci sia anche la cultura prima o poi.
Ogni narrazione nasce dalla relazione tra chi parla e chi ascolta. Possiamo pensare a un recupero dell’autenticità delle relazioni in questo periodo?
Sono tutte speranze. Non me la sento di dire parole che diventano un po’ retoriche: “Miglioreremo; andrà tutto bene; orgogliosi di essere italiani; torneremo più forti”. Quello che sta accadendo in parlamento con i governanti mi sembra identico a prima. Non nutro nessuna speranza in questa gente che ci governa e in quelli che stanno all’opposizione. Mi sembra di una tristezza senza fine. Non sono né pessimista, né ottimista, dobbiamo vedere che cosa succede ma non sono sicuro che si andrà certamente verso un’evoluzione in positivo.
Ha raccontato che la sua esperienza di vita privata ha contribuito molto sulla sua arte. Gli anni ‘70 con l’attenzione al tema dell’uguaglianza e della disuguaglianza, della dignità dell’essere umano, della libertà dal potere sono stati il suo imprinting. Qual è secondo lei la responsabilità sociale dell’arte?
Continuare a trasmettersi come arte. Questa è la prima responsabilità che l’arte ha: di non morire, di non finire, di non avere paura, di avere coraggio. L’arte esiste quando l’opera d’arte parla al presente e si rivolge al passato, è capace di mettere insieme il passato con il presente. Non penso che la ripresa passi da contributi e convenzioni, che certo possono aiutare. Per me è fondamentale la formazione pedagogica. I 18 attori con cui ho realizzato Paragoghè (dal greco ‘sviamento’), spettacolo che andrà in onda su Rai5 il 23 maggio alle 22,40 (anniversario della strage di Capaci ndr) rappresentato all’interno del Tribunale di Ancona la sera del 23 maggio 2019 è stato un momento di grande formazione. Per me il teatro è innanzitutto una trasmissione di saperi: le persone che ne sono toccate anche nella loro vita sono diverse. Il teatro permette di entrare nella pelle di altri personaggi e di vedere il mondo con altri occhi, è un grande campo di apertura, dovrebbe essere obbligatorio in tutte le scuole. Attraverso la forma teatrale di esplorazione del personaggio si scoprono altre personalità e quindi si è più aperti al mondo, si è meno bigotti, meno chiusi, meno impauriti dell’altro. Il mio è sempre stato un teatro politico, non tanto nel senso dei contenuti, quanto nell’atto. Fare teatro è una forma politica, di rivolta, di ribellione, di non accettazione di quello che già tutti pensano si debba accettare.
Ritornando al linguaggio, che cosa ci può insegnare l’uso consapevole della parola?
L’uso consapevole della parola si ha quando si possiede una passione:
quando si è innamorati si usano parole che non si sarebbero mai usate prima. Bisogna avere una passione per far sì che le parole arrivino a toccare gli altri con la stessa passionalità
Quello che manca ai politici è proprio questo: non c’è vero ardore, c’è solo tornaconto. La passione genera un nuovo modo di parlare. L’arte e il teatro l’hanno sempre fatto. Hanno creato parole che sono responsabili dell’azione di quell’attore. Noi teatranti sappiamo che abbiamo convocato delle persone quella sera che sono uscite di casa, hanno spento il televisore, hanno pagato un biglietto per venire da noi. Siamo responsabili di dovergli dare qualcosa di molto alto, potente, forte, anche di molto spietato e inquietante. Vogliamo che a conclusione della rappresentazione escano con tante domande, fomentate dalla passione che gli abbiamo trasmesso. Quando accade questo la parola diventa auto-responsabile gioco forza. Quando questo non c’è è un pourparler, come sta accadendo in questi giorni con la quantità di talk show che ripetono sempre le stesse cose. Sono poche le persone che fanno pensare con parole responsabili, che non vuol dire usare un linguaggio accondiscendente nei confronti della società e che mette tranquillità e dà speranza. La parola responsabile mette anche inquietudine, perché è intelligente, sensata, inaspettata.
Oltre alla dimensione spaziale, cui il teatro dovrà ripensare, c’è quella temporale. Come ha usato il tempo offerto, o sottratto, dal periodo di pandemia?
Ognuno si è attrezzato come poteva. Mi sono messo a scrivere un romanzo. Mi sono fermato dal punto di vista dell’azione scenica ma non della scrittura. Ho continuato a progettare, pensare e invogliare amici conoscenti e altri attori a produrre, a non restare chiusi. Mi sono dato da fare per quanto mi era possibile, tutti noi abbiamo solo tentato di sopravvivere. La mia salvezza da quando avevo 18 anni è quella di riuscire a creare quando tutto il mondo intorno sembrava grigio: si ha sempre una possibilità. Se insegnassero questo a scuola saremmo tutti cittadini più interessati. Purtroppo la scuola non ti insegna ad avere fiducia nelle tue capacità creative e immaginative.
Quando ha riconosciuto il suo talento?
Verso i 18/19 anni avevo già chiaro che quello che mi avevano insegnato fino a quel momento non era servito quasi a nulla. Ho capito di aver perso un sacco di tempo. Ho cominciato la facoltà di architettura lavorando già all’idea che non avrei voluto fare l’architetto. E poi ho fatto qualcos’altro, con molta fatica, però era quello che volevo fare.
La cultura può essere un balsamo sociale…
La cultura dovrebbe essere la base per permetterci di agire come cittadini. Dovrebbe essere distribuita a piene mani ed elargita con generosità fin da quando andiamo a scuola. Tutto l’insieme delle nostre relazioni si chiama cultura, quindi è importante motivarla. Nei momenti di crisi non basta. Io penso che serva la passione. Può essere anche una passione non culturizzata, rozza, brutale, ma viva, potente, che coltivi altre forme di espressione oltre quelle canoniche. Bisogna essere più aperti, per far sì che le parole non siano solo contenitore, ‘cultura, responsabilità’ .
Giornalista, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi attraverso strumenti a mediazione espressiva. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.