Donna, giornalista, combattente. Il profilo di Marina Cosi si definisce in un’esperienza di mezzo secolo nel settore dell’informazione, nelle lotte che ha intrapreso per ottenere diritti che oggi diamo per scontati ma che sono storicamente ‘recenti’, nelle parole che pronuncia a difesa delle donne e del più ampio concetto di libertà. Cofondatrice, presidente prima e vicepresidente ora di GiULiA (GIornaliste Unite LIbere Autonome), che descrive come ‘la conclusione di un percorso’, si è impegnata nel corso della sua carriera in ruoli di tutela e promozione dei valori sociali e delle pari opportunità di genere. Nel suo studio c’è la locandina di ‘Usciamo dal silenzio’, la manifestazione-fiume che si tenne nel gennaio 2006 in difesa della legge 194 e che venne organizzata, non a caso, proprio da giornaliste, in primis Assunta Sarlo. “Il mio impegno viene dal ’68 – racconta -, dapprima come lotta politica e poi di conseguenza femminista, però è stato un impegno sempre molto concreto, mirato alla conquista di diritti ma anche, proprio per il mio essere giornalista, teso a smascherare la forma patriarcale del racconto. Dove attraverso pregiudizi, stereotipi e declinazione al maschile si ribadiva in continuazione la subalternità delle donne”.
Con uno sguardo sul futuro, a ridosso del 3 maggio, Giornata mondiale della stampa, su quello che ci aspetta in una prossima fase avverte: “Quanto sia ben radicata la nostra libertà lo verificheremo dai tempi che ci prepariamo a vivere”.
Sono settimane in cui maggiormente si sente la necessità di un’informazione di qualità a fronte di un’enorme mole di fake news. Insieme a medici e scienziati, i giornalisti hanno seguito le vicissitudini di questi giorni assumendo un ruolo di guida nei confronti del Paese. Come si sta comportando l’informazione secondo lei?
La stampa ha una grossa responsabilità in questo momento, come in tutte le fasi apicali della storia, perché la gente è incollata alle televisioni e alle radio e cerca di capire. Noi abbiamo da una parte delle difficoltà oggettive, delle criticità editoriali: sono tante le aziende in crisi, colleghi in cassa integrazione e freelance disoccupati. Quel modo di lavorare che è ‘usare le suole’, come dicevano i vecchi cronisti, cioè di andare a verificare sul posto, è reso impossibile non solo dal fatto che non ci si possa muovere o lo si possa fare poco, ma anche perché non si hanno le forze economiche per poterlo attuare. D’altra parte questa grande fame di informazione delle persone aizza i produttori di false notizie, non tanto i piccoli fabbricanti di fake news, quanto i grandi orientatori di coscienza popolare. Oggettivamente è un momento di grande difficoltà, il giornalismo sta cambiando pelle. Nel suo nucleo essenziale l’importanza dell’informazione nel suo ruolo di conoscenza immediata del mondo è importante e fondamentale, però è un cammino complesso e insidioso.
Qual è il suo pensiero a proposito delle nomine della task force Colao?
In questo momento c’è tutta una serie di polemiche e raccolte di firme proprio in funzione del convincimento che questo periodo sia l’occasione per avere un nuovo palcoscenico. E di conseguenza gli uomini se ne appropriano. Basti guardare le varie task force che sono state fatte, ce ne è una che è composta di sole donne e le altre hanno una presenza femminile ridicola. E questo non perché donne competitive non ce ne siano, ma perché gli uomini sono disponibili a cooptare le donne, non a riconoscerne il valore, soltanto quando la torta da spartire è sufficiente per tutti, ma quando il dividendo sociale diventa scarso allora la situazione cambia. Come ha affermato Emma Bonino “il potere è un grande afrodisiaco”. Siamo quasi alle soglie di una guerra sociale: poter far parte di gruppi influenti e orientare il futuro, alimenta la vanagloria personale. A quel punto non ce ne è per nessuno.
A suo parere l’emergenza Covid-19 ha ridefinito il ruolo della donna?
In questo periodo sono in contatto ancora più frequente con una serie di persone che stanno lavorando da casa che mi dicono che la divisione dei compiti, e non dei ruoli, in famiglia sta funzionando. Qualcosa è cambiato nel privato, peccato non si trasponga nel pubblico.
In questo momento sono molte le donne costrette in casa con uomini violenti. Che cosa può fare l’informazione in tal senso?
Il ruolo maggiore l’ha avuto, sperando che abbia poi un seguito, la magistratura, con la sentenza con cui ha determinato che sia l’uomo a dover lasciare la casa coniugale. Prima di questa pronuncia anche quando la donna si muoveva con una serie di denunce, ammesso che avessero seguito, insieme ai bambini veniva alloggiata in un’altra dimora. Donne che in genere erano scappate da un uomo violento venivano strappate alla comunità, agli affetti, le poche che lo avevano al lavoro stesso, e i bambini alla scuola. Si trattava cioè una seconda violenza data per assunta e sulla quale le stesse donne, associazioni e le case di ricovero avevano poco riflettuto. Adesso il precedente giuridico afferma che chi deve allontanarsi è l’uomo e la donna ha diritto di proseguire la sua vita a casa. Questo forse può imprimere un cambiamento. Certo, conosciamo molti casi di uomini che hanno avuto l’obbligo di non avvicinamento e non l’hanno rispettato e hanno ucciso, lanciato acido e compiuto reati gravissimi, però comunque il segnale è forte. Sulla responsabilità della stampa su questo tema c’è stata a mio parere una diffusa conoscenza con il Manifesto di Venezia (2017) e una buona consapevolezza da parte dell’informazione e condivisione di certi valori del giornalista che scrive. Ricordo non solo come era il mondo e l’informazione prima, ma come venivano accolti certi messaggi. Abbiamo cominciato a discutere di linguaggio e di diritti, certe conquiste che sembrano scontate, da una parte non lo sono, dall’altra non sono ancora ben radicate per non essere spazzate via con la scusa del momento difficile o dell’emergenza.
Rischiamo di perdere libertà faticosamente ottenute nella fase post-Covid?
Cosa succederà dopo non lo so. Guardando da una prospettiva storica e a fronte di centinaia e centinaia di anni di subalternità, questa libertà ha solo un pugno di anni, è arrivata da pochissimo. Per fare un esempio: il diritto di voto è stato riconosciuto con la Repubblica, dal ‘63 le donne possono fare il magistrato mentre prima non potevano. Quella di cui stiamo discutendo è una donna di qualche minuto fa. Bisogna ancorare questi diritti. Come giornalisti abbiamo una fortissima responsabilità, come anche la scuola e la politica.
Quanto possono incidere le giornaliste con il loro femminile sul tema della libertà di stampa?
Quando uno lotta per liberare se stesso come risultato libera tutti. L’avevano capito i neri d’America. Il problema vero è conquistare dei punti fermi, che sono leggi e regole e avere un ruolo come legislatore. La formazione dell’opinione pubblica non è a monte, è a valle.
Che cosa significa libertà di essere donna e di essere rispettata in quanto tale?
La libertà di essere un essere umano
A mio parere la libertà di essere donna è la libertà da tutte le oppressioni, le sovrastrutture, i vincoli, i condizionamenti, e tutti i chador intellettuali che ficcano sulla testa. La persona deve essere libera all’interno di un sistema, se poi le regole non vanno bene si combatte per cambiarle. Ognuno deve avere la responsabilità nei confronti dei propri simili e dell’altro sociale. Nella mia vita ho lottato per la libertà, come tutti i figli del ‘68, c’erano dei principi chiari, mentre adesso sono liquidi o è consentito che lo siano. Faccio fatica a dire che cosa significhi davvero libertà.
Comunicare l’immagine della donna con un linguaggio privo di stereotipi è uno degli obiettivi che si pone l’associazione. Come si sta muovendo l’informazione italiana? A che punto siamo?
A buon punto. Il vero problema è che se arriva una vera crisi che spazza via i diritti, porterà via anche questi, insieme a quelli della società e dell’informazione.
Vicende recenti mostrano come in periodi di emergenza si assista più frequentemente a un uso della professione giornalistica che sembrerebbe soverchiare il senso di responsabilità professionale e sociale. Prendo ad esempio il caso Feltri. Questo periodo può essere un’occasione di riflessione per il giornalismo italiano?
Non attribuirei a Feltri un ruolo giornalistico in questa vicenda. Feltri lo conosco, l’ho avuto anche come direttore per un anno e mezzo quando ero a L’Indipendente. È una persona che vive di paradossi e di stupore. Guardare il dito e non la luna è qualcosa che ti paga nell’immediato in termini di polemica e di likes, ma non ti fa vedere il senso ultimo di quello che è accaduto. Quello che fa specie, al di là di ciò che ha detto, è il fatto che sia iscritto all’ordine dei giornalisti.
Molti sono i giornalisti che prendono il virus del palcoscenico
Il problema è che il giornalismo è deformato dal suo contenitore, cioè dalla capacità della platea di sollecitare e solleticare le ambizioni e le vanaglorie personali. Mi ricordo un tempo in cui solo i grandi articoli – il fondo, l’inchiesta e pochi altri – sui quotidiani erano firmati. La maggior parte del lavoro era costituito da pezzi senza nome, perché la firma era quella della testata. Il cambiamento non ha coinvolto solo i giornalisti, ma la società. Ci si sente sufficientemente premiati dalla vanagloria. Il pagamento da monetario e di auto-riferita dignità si è spostato su una notorietà fittizia, malata. La questione è che questo tipo di giornalismo è diventato teatro, recitazione, spettacolo. Un tempo la gratificazione veniva dai tuoi sodali, cioè dal riconoscimento dei colleghi, il premio fattuale arrivava dal fatto che compravano quel giornale. Il giornale aveva anche un altro significato. Prima c’era una società strutturata in classi, ma anche in compiti: i borghesi compravano i giornali, così come gli operai. Tutti avevano comunque un punto di riferimento nell’informazione, si assumevano le notizie e alcuni orientamenti, dopodiché il dibattito avveniva nel chiuso della propria coscienza, in famiglia o con i compagni di reparto. Era un flusso dall’alto verso il basso. Adesso questa consapevolezza del dover informarsi da una parte e del diritto di appartenere dall’altra si è persa, c’è più liquidità. Quello a cui si assiste oggi è un uso parziale dell’informazione ai fini di spettacolo e consenso.
La parola ha il potere di raccontare e trasformare la realtà. Come intervenire sul linguaggio che descrive le donne?
La parola deve avere un palcoscenico.
In Italia le donne che sono direttrici di quotidiani penso siano due, il resto fa ruoli di macchina
Le prime battaglie che abbiamo fatto con il Comitato Pari Opportunità in FNSI (di cui Cosi è stata presidente ndr) erano sul linguaggio. Esigevo e si esigeva di essere chiamati con il proprio nome. Avevamo la grande fortuna di avere nel gruppo di giornalisti che facevano parte del Cpo alcuni che ricoprivano un ruolo pubblico, come Maria Luisa Busi, che allora conduceva il telegiornale di prima serata. Ricordo ancora che lanciò un servizio in cui pronunciava il termine ingegnera, fu una rivoluzione. Quando sono diventata presidente del Fondo di Previdenza il primo provvedimento intrapreso è stato cambiare la carta intestata: da ‘il presidente’ a ‘la presidente’. Queste battaglie sono state fatte anche nei confronti di altre donne che ritenevano che alcune parole declinate al maschile fossero più autorevoli. All’inizio di GiULiA nei primi corsi che facevamo per la formazione, qualunque fosse l’argomento dicevo che i nomi vanno declinati, perché se non sei nominato non esisti. Rammento alcuni colleghi maschi che si agitavano: ‘non dirò mai ministra perché sa di minestra’. L’importante è convincere quelli giusti, i colleghi che sono disponibili a cambiare il titolo, il sottopancia, poi il testo…
Quali sono le iniziative su cui si sta muovendo GiULiA in questo periodo?
Negli ultimi tempi c’è una forte attenzione al tema degli stereotipi. Un altro lavoro che abbiamo cominciato a fare è prendere contatto con altre associazioni di donne. Prima guardavo con un certo sospetto tutti questi salotti, però adesso noto che ci sono molte giovani capaci che stanno facendo gruppo . Finché facciamo le battaglie simboliche sulle parole chi non è prevenuto ci segue, ma quando intervengono rapporti di potere spartire la torta è dura. Molti uomini si identificano per struttura di mentalità nel loro lavoro. Sono più disposti a dividere i lavori domestici che i ruoli sociali. Ma io credo che liberare le donne, liberi gli uomini. Dovrebbero far parte anche loro di questa battaglia.
Giornalista, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi attraverso strumenti a mediazione espressiva. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.