Difficile, davvero difficile immaginare scenari futuri. Eppure è quello che tutti stiamo cercando di fare. Ci è stata fornita una fatidica data, oltre la quale le cose dovrebbero cambiare dopo questo lungo periodo di isolamento e reclusione. Qualche settimana fa l’avremmo accolta con esultanza ma ora gli entusiasmi si sono fatti tiepidi, serpeggia il dubbio che possano rendersi necessarie altre proroghe. E anche se così non fosse, anche se vedremo la revoca delle misure restrittive, almeno di quelle più severe, ci stiamo gradualmente rendendo consapevoli che quella non sarà la fine. Ci chiediamo addirittura se ci sarà, una fine.
Ormai prevediamo che si aprirà una fase, più lunga di quella già trascorsa, in cui saremo comunque sottoposti a consistenti limitazioni e distanziamento sociale.
Come sarà la nostra vita dopo? Andremo in vacanza? Riapriranno le scuole? Potremo di nuovo cenare con gli amici?
Davvero ‘#torneremo ad abbracciarci? Davvero ‘#andrà tutto bene’?
Probabilmente no, almeno per un po’.
Non voglio nemmeno provare a calcolare le conseguenze economiche, che forse saranno le più drammatiche, al netto dello spaventoso numero di vittime, e nemmeno ho le competenze per farlo.
Ci saranno però ripercussioni importanti anche sul piano psicologico e sociale.
Purtroppo questa pandemia può suscitare emozioni e sentimenti tra i più drammatici che abitano profondamente l’animo umano.
La più ovvia è la paura. La paura è un’emozione innata, tanto sgradevole quanto necessaria; nasce a fronte di ciò che viene percepito come una minaccia e ci spinge ad adottare comportamenti adeguati a proteggerci. In fase di ‘lockdown’ sappiamo cosa fare: dobbiamo stare a casa (almeno i molti di noi che se lo possono permettere) e così lasciare il pericolo al di là della soglia.
Ma prima o poi dovremo uscire. E allora saremo lì fuori, esposti al rischio di contagio. Il Covid è un nemico invisibile e insidioso e può annidarsi dietro ogni mascherina, in ogni persona che incontriamo. Ciò da cui dovremo difenderci non sarà più il virus, sarà l’altro, qualunque altro, potenziale portatore. Il pericolo sarà chiunque.
È probabile che questo impatterà in modo importante sulle nostre relazioni interpersonali e sociali inserendo una quota di diffidenza che potrebbe inquinare e distorcere i nostri rapporti con gli altri.
Ma c’è un’altra emozione fondamentale che questa situazione rischia di provocare in modo diffuso anche se meno evidente. Si tratta della rabbia.
La rabbia è l’emozione che proviamo quando ci sentiamo vittime di un torto o un’ingiustizia, quando siamo ostacolati in ciò che vorremmo fare o ottenere, quando ci sentiamo limitati nei nostri diritti e nella nostra libertà.
E quando siamo arrabbiati ci viene una gran voglia di prendercela con qualcuno. Perché la rabbia pretende un oggetto, un obiettivo, un bersaglio.
Lo abbiamo già visto in questi giorni. Si sollevano da ogni dove le critiche e gli attacchi verso i governi passati e presenti a tutti i livelli, regionale, nazionale ed europeo, verso chi ha fatto, sbagliando, o verso chi non ha fatto, o non abbastanza.
Al di là delle questioni di merito, su cui non mi esprimo perché non è il mio mestiere, credo che il meccanismo sottostante sia quello descritto. Lo stesso che produce un incremento inquietante di tesi complottistiche e fake news inquietanti.
E non si muove solo in senso verticale ma anche orizzontale, si dirige verso i nostri simili e prossimi. Siamo diventati intolleranti, ipersensibili alla minima trasgressione, colmi di riprovazione alla ricerca di nuovi colpevoli.
Prima è toccato ai cinesi, poi ci si è scagliati contro i runners, come fossero la versione moderna degli untori manzoniani, ma anche verso gli anziani, rei di recarsi al supermercato troppo spesso; ce la prendiamo con chi esce, con chi vuole saltare la fila (e magari è un medico con tanto di permesso), con chi si lamenta senza averne motivo, con tutti coloro che, in sintesi, ci sembrano godere di qualche vantaggio in più oppure ci sembrano colpevoli di peggiorare la situazione di cui ci sentiamo vittime.
Temo che questo fenomeno possa diventare preoccupante, soprattutto in considerazione del fatto che, con il passare del tempo, la paura potrebbe cominciare a scemare e il senso di frustrazione inevitabilmente crescerà. I contagi caleranno, e con essi la percezione del rischio, ma permarranno le limitazioni a cui rischiamo di diventare sempre più insofferenti.
Forse l’unica via d’uscita è cambiare prospettiva.
Intendo dire che l’iniziale concezione dell’epidemia come una condizione di emergenza, anomala e temporanea, da cui uscire al più presto per tornare alla nostra vita abituale è illusoria.
Andiamo verso una trasformazione della società e dell’economia da cui probabilmente non si tornerà indietro.
Sì può andare solo avanti, possibilmente accogliendo i cambiamenti in corso non come odiose imposizioni restrittive (pur mantenendo alta la guardia rispetto ad una pericolosa deriva di riduzione dei diritti civili) ma come l’occasione per adottare nuovi stili di vita, nella direzione del ridimensionamento.
Il termine che mi sembra condensare meglio la direzione intrapresa è MENO.
Uscire di meno. Spostarsi di meno.
Ma soprattutto produrre meno, consumare meno, inquinare meno.
In fondo stiamo scoprendo che è possibile.
Qualcuno da tempo invoca la decrescita come inversione di marcia necessaria per salvare il pianeta e le sue risorse e per un’esistenza più armoniosa. E se avessero ragione?
Silvia Girola (Psicologa e Psicoterapeuta)