Matteo Ward
Matteo Ward

Moda e sostenibilità: mettiamo in discussione lo status quo

L’onda lunga della sostenibilità ha travolto negli ultimi anni anche il mondo della moda, costringendo una delle industrie più inquinanti al mondo a fare i conti con una nuova consapevolezza dei consumatori e nuove esigenze di mercato.

“Ad oggi, però, molto spesso questa promessa di sostenibilità si esaurisce in tecnologie, materiali o processi che riducono solo certe dimensioni dell’impatto ambientale di un prodotto in una o più fasi del suo sviluppo. Quegli stessi materiali però potrebbero avere correlate conseguenze negative di altra natura. Ecco perché siamo ancora molto lontani dal concetto di moda sostenibile”.

A parlare è Matteo Ward, ceo e co-fondatore insieme a Victor Santiago e a Silvia Giovanardi di Wråd, start-up innovativa e design studio fondata per generare valore sociale e diventata best practice internazionale nel campo della moda etica.

Stando così le cose, ha senso ad oggi parlare di moda sostenibile?

Moda sostenibile non vuol dire niente, se non la destinazione a cui dobbiamo arrivare. Una meta che raggiungeremo non concentrandoci solo sul materiale, ma rivoluzionando il paradigma stesso dell’abbigliamento.

La definizione di sostenibilità che viene data costantemente è completamente dissociata rispetto a quello che vediamo oggi sul mercato e auto dichiarata come moda sostenibile.

Definire sostenibile una maglietta in cotone organico o in pet riciclato è sbagliato, perché questa maglietta continua ad essere un oggetto che si inserisce all’interno di dinamiche di produzione che sono l’antitesi della sostenibilità e soprattutto è un oggetto che utilizza gli stessi ingredienti in termini energetici – acqua, aria, terra, energia – di quello che mangiamo.

Per mantenere la promessa di sostenibilità, le aziende devono avere come primo obiettivo quello di ridurre la sovrapproduzione e il sovraconsumo di prodotto, quindi devono uscire dalla dinamica del vendere sempre di più per raggiungere la sostenibilità finanziaria. Questo vale per qualsiasi industria, a maggior ragione se produce beni non essenziali in quantità così alte come fa l’industria della moda – parliamo di 102 milioni di tonnellate di materiale tessile l’anno -, togliendo risorse preziose che servirebbero invece agli 8 miliardi di persone che popolano il nostro pianeta.

Su quali elementi deve lavorare l’industria della moda per bilanciare qualità, accessibilità, prezzi ed etica?

Questo settore prima degli altri deve abbracciare un concetto di evoluzione responsabile. Le aziende devono fare molto di più nel trovare la sostenibilità finanziaria, devono aumentare la durabilità dei prodotti ed essere meno schiave della logica che impone loro di lanciare tantissime collezioni l’anno. Il 99 per cento delle società di moda, infatti, oggi è schiava di un business model obsoleto, che fu inventato addirittura nel 1600 alla corte di Luigi XIV, quando il ministro delle finanze francese e il re decisero di investire nell’industria tessile locale per aumentare le fonti di reddito della Francia e, al fine di trovare un mercato, obbligarono tutti i nobili di Versailles a cambiarsi d’abito almeno due volte l’anno.

Il team di Wråd

Trasparenza per combattere il greenwashing

Oggi nessuno ci costringe a rinnovare due/tre volte l’anno il nostro guardaroba, lo facciamo perché proviamo una sorta di obbligo psicologico, per non sentirci inadeguati e mostrarci sempre ‘rinnovati’. La comunicazione digitale, poi, non ha fatto che aumentare questo meccanismo, creando una vera dipendenza dalla voglia di novità, mentre le nuove tecnologie hanno facilitato l’acquisto dei prodotti: basta un solo clic e il gioco è fatto. A ciò si aggiunge l’abbassamento illegale dei prezzi: il settore moda è l’unico che ha avuto una svalutazione dei prezzi rispetto all’inflazione generale.

Il risultato di tutto ciò? Produciamo una quantità incredibile di scarti tessili all’anno. Nella sola Vicenza, la mia città, che ha 100mila abitanti, se ne producono ben 300 tonnellate.

Che responsabilità hanno le aziende e quali il consumatore?

Non credo che il consumatore abbia colpe. Sono contro la narrativa che impone che il consumatore debba essere educato: per me deve essere consapevole. Il problema è che nella moda c’è poca trasparenza da parte delle aziende, e quando c’è è fuorviante: se scrivo in etichetta che una t-shirt contiene il 22 per centro di acrilico, il 33 per cento di viscosa e il resto è fibra di bambù, che cosa capisce il consumatore? Deve essere per forza un esperto nell’industria tessile?

Le aziende spesso vendono l’illusione che un prodotto sia sostenibile quando poi realmente non lo è. Viceversa, il loro compito è quello di rappresentare in modo molto onesto il proprio prodotto e non utilizzare tecniche di greenwashing.

Ci vuole un po’ meno storytelling e un po’ di più realitytelling, un po’ meno art direction e un po’ più scienza.

Bisogna poi aggiungere che servirebbe un maggiore contributo da parte degli enti pubblici, e qui c’è un forte baco legislativo, per indicare in modo chiaro quando, come e perché si possono usare certi termini nelle etichette del prodotto. Dagli Stati Uniti all’Europa stanno emergendo proposte e pacchetti legislativi pensati per supportare il cambiamento del fashion system, tra questi la “Strategia per Tessuti Sostenibili e Circolari” presentata il 30 marzo scorso dalla Commissione Europea.

Di cosa si tratta?

È un documento rilevante in quanto pubblicato da un ente politico che per la prima volta ha dato un segnale molto forte della comprensione del problema, portando sul tavolo strumenti per la sua risoluzione. Certo ci sono ancora dei punti di debolezza ma è un primo passo, la prima presa di posizione abbastanza decisa che utilizza non pochi mezzi termini: si dice chiaramente, per esempio, che il pet riciclato non è sostenibile e non deve essere utilizzato dall’industria tessile.

Questa Strategia ha finalmente indicato che il business model fast fashion non sarà mai sostenibile.

Siamo dunque ancora molto lontani dal far sì che la moda sia quantomeno etica?

Sì, anche se qualche miglioramento c’è stato in termini di trasparenza, di consapevolezza del mercato e di comunicazione.

C’è però ancora molto da fare soprattutto in materia di responsabilità sociale.

Abbiamo ancora oggi decine di milioni di lavoratori dell’industria tessile che percepiscono uno stipendio al di sotto della soglia considerata dignitosa e questo è un problema enorme.

Fintanto che non risolvi il problema dell’eticità dell’industria non metti la filiera produttiva nelle condizioni di poter vivere degnamente, e con degnamente intendo poter mangiare o pagarsi le spese mediche e scolastiche.

Che sia in Italia o in Bangladesh poco cambia.

I produttori oggi sono fortemente schiacciati da margini risicati, il che non li mette nelle condizioni economiche e mentali per fare quegli investimenti che servono per attuare la transizione ecologica di cui tutti parlano.

Hai co-fondato Wråd, il cui claim recita “Wråd is not a brand, it’s our call to action”…

Siamo nati nel 2015 come progetto formativo ed educativo attraverso workshop sulla sostenibilità del tessile nelle scuole e università italiane ed estere: interventi dedicati a spiegare che cosa significa davvero sostenibilità, capire qual è il rapporto tra moda e natura da un lato e tra moda e società dall’altro e dare ai ragazzi gli strumenti giusti per navigare in mezzo alla confusione che regna nel mondo della sostenibilità. Nel 2019 siamo arrivati a 11.000 studenti e collaborazioni con 102 paesi e 16 università.

Dalla formazione, poi, siamo passati alla ricerca e sviluppo e all’innovazione. Grazie all’investimento e alla partnership dell’azienda Alisea Recycled and Reused Objects Design e poi a quello di tante altre che si sono unite, abbiamo dato il via a una vera rivoluzione sistemica grazie a  numerosi progetti.

Mettere in discussione lo status quo

Il primo è quello che è diventato poi un brevetto: una tecnologia, g_pwdr technology, che si basa sul recupero di polvere di grafite, sottoprodotto della produzione di elettrodi, altrimenti dismessa in discarica per la tintura dei capi. Il brand Wråd nasce proprio dopo lo sviluppo di questo brevetto. Nel 2016/2017 avevamo tra le mani un progetto formativo molto forte e un’alternativa più responsabile e molto interessante nel campo dell’economia circolare per la tintura, ma nessun brand credeva in quello che stavamo facendo.

Avete trovato interesse per questo progetto?

Ho girato in tutto il mondo senza trovare appoggio e alla fine abbiamo deciso di fare da soli, disegnando una maglietta che rappresentasse tutti i nostri valori: la trasparenza, la tracciabilità, l’innovazione, il recupero di antiche tradizioni tessili. E da lì, grazie al coinvolgimento di retailer come YOOX e NET-A-PORTER e a una boutique di Brescia, sono nate le prime capsule di prodotto, che usiamo però esclusivamente come mezzo per generare consapevolezza.

La nostra terza anima è il design, il nostro campo di sperimentazione di idee per un futuro che, dobbiamo esserne consapevoli, non può più permettersi di assegnare risorse essenziali alla sopravvivenza dell’umanità sul Pianeta alla produzione di centinaia di miliardi di vestiti ogni anno. 

L’unicità di Wråd sta dunque proprio in questo: non essere un brand, ma una realtà che nasce per dare a tutte le persone che lo desiderano la possibilità di mettere in discussione lo status quo non più sostenibile del fashion system.

di Gabriella Grillo

Sul tema leggi anche ‘Moda e sostenibilità, ‘i giovani lo chiedono’

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