Napoli, lo scudetto umano

Perché un editoriale sulla vittoria dello scudetto del Napoli su Quoziente Humano? L’intenzione è quella di voler raccontare attraverso lo sguardo di una appassionata Chiara del Vaglio, musicista e autrice del libro Inter – Napoli, delitto a Milano un modello di strategia differente che ha portato a questo risultato.  

Senza dimenticare le storture di uno sport nell’Olimpo del business, che seppur parte fondamentale della realtà quotidiana di molte persone, ne resta lontano.

Una vittoria contro ogni pronostico, conseguita ribaltando gli schemi  

Sono passati trentatré anni dal precedente scudetto vinto dal Napoli, trentatré, come gli anni di Cristo… anni lunghi un’eternità, sia per chi nel 1990 c’era, ed ha vissuto l’era di Maradona, sia per buona parte dei tifosi “Millennials”, che non avevano mai vissuto un’esperienza del genere, e hanno atteso tutta la loro vita.

In trentatré anni sono ovviamente cambiati i protagonisti, ossia calciatori, allenatore, presidente e società; è cambiato anche il calcio (così come è cambiato il mondo), mentre i tifosi restano l’unica eterna costante di ogni squadraperché il tifo non cambia mai e perché l’amore per una squadra è l’unico amore eterno; possiamo cambiare mariti, mogli, amanti e fidanzate, ma la squadra del cuore resta sempre la stessa. Finché morte non ci separi.

Il capitano silenzioso

Nell’attuale contesto, non si può fare a meno di notare una differenza enorme tra presente e passato (anche recente): 

nella città che è l’antitesi del silenzio, si torna a vincere nel momento in cui la squadra nomina come proprio capitano un leader silenzioso, ossia Giovanni Di Lorenzo.

La città degli eccessi e dell’esuberanza si lascia alle spalle “scugnizzi” e “capipopolo”, per eleggere come rappresentante della propria squadra un ragazzo che è il ritratto della pacatezza, dal carattere educato, senza mai una polemica, una parola o un gesto fuori posto.

È un cambio di paradigma. 

Anche l’allenatore, Luciano Spalletti, non è un personaggio che si agita e che urla, ma un uomo pacato che sussura.

Questa nuova modalità di gestione dello spogliatoio ha sicuramente dato una maggiore tranquillità a tutto l’ambiente, con la conseguente crescita del rendimento anche di calciatori che erano rimasti più in ombra, e che sono riusciti a esprimere un potenziale che non avevano mai espresso negli anni precedenti e che nessun tifoso si aspettava. 

Tutto questo è il risultato di un’attenta programmazione societaria, perché il nuovo modello proposto dal presidente Aurelio De Laurentiis ribalta l’idea che per vincere occorra spendere cifre folli, comprando i giocatori più costosi e pagandoli stipendi da nababbi; tali dinamiche hanno contribuito a “dopare” il calcio moderno, creando un’economia “tossica” e senza freni (complice anche l’ingresso nel mondo del calcio di sceicchi e petrolieri), ed hanno portato molte grandi società italiane ed europee ad indebitarsi per centinaia di milioni di euro, pur di vincere ad ogni costo. 

Ed è proprio qui che il cambio di paradigma è ancora più significativo: la squadra di De Laurentiis, infatti, vince proprio nel momento in cui vende tutti i suoi calciatori di maggior valore per sostituirli con giovani talenti sconosciuti e pagati con stipendi di molto inferiori a ciò che percepivano i loro predecessori, riducendo il monte ingaggi del 50%, e diventando così una delle poche squadre col bilancio in attivo.

Investire sul potenziale umano

Pur essendo un grande club, il Napoli attua una politica controcorrente, totalmente opposta a quella praticata dai top club italiani e stranieri, perché grazie all’abilità di un direttore tecnico come Cristiano Giuntoli (forse il maggior artefice di questo successo), non investe più sul nome, ma sullo scoutinged il risultato è sotto gli occhi di tutti: una scommessa vinta, contro tutti i pronostici e al di là di ogni aspettativa. Una scommessa che ha investito sul potenziale umano, sulla ricerca del gioiello grezzo, piuttosto che sul gioiello di marca, già confezionato ed esposto in vetrina.

Di conseguenza, il nuovo modello proposto dal Napoli lancia un messaggio al mondo del calcio: non vince chi spende di più, ma vince chi spende meglio.

Non c’è più spazio, quindi, per l’improvvisazione, la squadra di Napoli non è più sinonimo di “disordine” e “anarchia”, ma è diventata un modello economicamente virtuoso ed efficiente, che viene studiato e apprezzato anche all’estero. 

Non è un caso che la lingua parlata nello spogliatoio sia ora l’inglese, veicolo di comunicazione tra giocatori di diciassette nazionalità diverse, espressione di una globalizzazione che non prevede la parte occidentale del mondo prevaricare su quella orientale o sul terzo mondo, ma, al contrario in cui si amalgamano le energie di ben quattro continenti diversi, con un presidente, un allenatore e un capitano italiani, e i giocatori più rappresentativi che arrivano dalla Nigeria (Victor Osimhen), dalla Georgia (Khvicha Kvaratskhelia) e dalla Corea del Sud (Kim Min-jae); cambia quindi anche la geografia del calcio, non solo perché la vittoria di una squadra del sud interrompe il predominio storico delle squadre di Milano e di Torino, ma proprio perché alcuni dei principali artefici della vittoria non sono giocatori che arrivano dal Sud America o dai maggiori campionati europei, ma da campionati che fino a ieri non erano mai stati considerati, come quello georgiano o quello turco (Kim Min-jae giocava in Turchia, nel Fenerbahçe).

È il momento di sfatare la credenza che i migliori talenti si trovino nei campionati dell’Europa occidentale o arrivino dal Brasile e dall’Argentina, credenza che ha portato il calcio europeo a uno snobismo che ha impedito ai talent scout di guardare oltre determinati confini.

Si allargano quindi gli orizzonti, e parallelamente si abbandonano stereotipi e luoghi comuni legati alla città, senza però snaturarne la cultura di appartenenza, che comunque traspare attraverso striscioni e addobbi creativi che rivestono strade e palazzi, anche perché, come già detto, l’unica costante nel tempo sono rimasti i tifosi.

Folclore, fantasia e improvvisazione restano nel modo di vivere la passione del tifoso, mentre internazionalizzazione, razionalità e organizzazione si radicano nel modo di operare della nuova società, che dopo aver salvato la squadra dal fallimento della precedente gestione ha intrapreso un percorso virtuoso di crescita graduale. Un’attenta programmazione e scelte oculate hanno portato in vent’anni il nuovo Napoli dalla serie C al trionfo per l’attesissimo terzo scudetto della sua storia, con conseguente valorizzazione del brand a livello mondiale, grazie anche alle prestazioni che la squadra ha saputo offrire sul palcoscenico della Champions League.

Una menzione speciale non può non andare all’allenatore Luciano Spalletti, il giusto comunicatore in questo villaggio globale, lo chef che ha saputo amalgamare tanti ingredienti e aromi diversi tra loro, esaltandone i singoli sapori, e allo stesso tempo creando un piatto dal gusto unico e inconfondibile, che ha deliziato il palato di milioni di tifosi. Perché i tifosi non hanno bisogno di caviale e champagne… quelli lasciateli pure al tavolo degli sceicchi.

Nota di redazione: A quando una globalizzazione che sposi una localizzazione con la crescita di talenti nostrani da far entrare in questo modello? 

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Musicista e scrittrice

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