Il disegnatore israeliano Noma Bar

Noma Bar: con le mie illustrazioni creo nuovi mondi

(Credito foto in alto: ChrisBrockPhotography)

I suoi disegni campeggiano nelle campagne pubblicitarie di Greenpeace, Amnesty International, Coca-Cola (all’Italia aveva dedicato delle bottiglie che raffiguravano le principali città della penisola), IBM e molti altri marchi, così come sulle copertine di molti magazine (fra cui l’italiano Internazionale) e libri. Bianco su nero, Cappuccetto Rosso nel lupo, una grande nave che sembra un pesce minaccioso, che inghiotte una piccola barca di pescatori: questo e molto altro è lo stile inconfondibile del geniale illustratore e designer israeliano Noma Bar, al secolo Avinoam Bar, da vent’anni sempre più richiesto da editori e agenzie pubblicitarie. 

Molto celebri anche i suoi ritratti di politici e dittatori (chi non ricorda la faccia di Saddam Hussein in cui campeggia il simbolo della radioattività, o Donald Trump con il ciuffo biondo a forma dell’uccellino di Twitter? E poi Condoleeza Rice, Angela Merkel, Vladimir Putin, Adolf Hitler…), cantanti e attori (Michael Jackson, Bob Marley, Audrey Hepburn, Charlie Chaplin), ma anche protagonisti delle fiabe (Cappuccetto Rosso che spunta dalla bocca del lupo) e tanti animali (conigli in cui si nascondono tartarughe, elefanti con topolini…).

Noma Bar nasce nel 1973 ad Afula, in Israele, nel giorno della Guerra dello Yom Kippur e fin da ragazzo rivela il suo talento di disegnatore: a 17 anni, mentre si trova nel rifugio per ripararsi dai missili che Saddam Hussein lancia su Israele, durante la prima guerra del Golfo, disegna il Saddam ‘radioattivo’. Un’immagine molto forte ed eloquente, che rielabora poi negli anni, portandola a diventare una delle sue opere più note.


Dal 2002 è a Londra ma la sua identità ebraico-israeliana rimane immutata e, anzi, continua a influenzare il suo lavoro, come spiega in questa intervista: da lì, ammette, arriva il suo profondo interesse nei confronti dei fatti di attualità, perché provenire da un Paese spesso sulle prime pagine dei giornali ti porta a cercare di leggere il mondo che ti circonda. Ma è anche il suo stile, spesso definito ‘degli opposti’ a essere in un qualche modo condizionato dalla sua identità ebraico-israeliana.

Disegnatore indipendente, da molti anni lega le sue immagini (spesso anche animazioni) a vari brand. Ma quanto l’illustratore deve condividere la filosofia dell’azienda che lo ingaggia? E, per Noma Bar, quanto è importante l’eticità dei suoi clienti? Glielo abbiamo chiesto durante un’interessante intervista su Zoom, in cui si è rivelato persona amabilissima e molto disponibile.
A lui la parola.

Saddam Hussein secondo Noma Bar, che lo ha disegnato mentre era nei rifugi, nel 1991, sotto i missili lanciati dal dittatore iracheno su Israele

In un mondo interconnesso e liquido, qual è il ruolo di un illustratore che realizza comunicazione per le aziende? Fino a dove deve condividere i valori che l’azienda vuole trasmettere?

Personalmente quello che faccio è raccontare storie legate al marchio, più che parlare esplicitamente di valori. Certo è che in generale scelgo clienti che hanno valori positivi e se penso che l’azienda, qualsiasi cosa voglia dire, non agisca bene, non accetto l’incarico: è già capitato qualche volta con richieste da aziende di sigarette elettroniche o di scommesse online e le ho rifiutate, così come cerco di evitare progetti troppo commerciali o mainstream. Senza vedere nello specifico tutti i valori dell’azienda, riesco a capire se è una compagnia che fa del bene. E penso che gli illustratori siano legati al ‘lato buono’ delle aziende, perché vogliono mostrare qualcosa di nuovo, di fresco e di ‘umano’  e devono stare attenti a non essere utilizzati nel modo sbagliato. Per me è importante parlare ai giovani, e quindi lavorare per delle sigarette elettroniche sarebbe come dire loro: “fatelo, è una cosa che va bene”, e non è quello che voglio. Ma ci sono molto agenzie di grafica specializzate in questi ambiti. I miei clienti appartengono a tutt’altra area: nel mio portfolio ci sono Greenpeace, Amnesty International, il New York Presbyterian Hospital, organizzazioni di beneficenza, ma anche aziende commerciali, quali IBM o Bmw, che restano etiche. Forse sono più le agenzie di pubblicità che si trovano più spesso davanti a valori che non condividono, un po’ come i medici che devono trattare un po’ tutti. Io, invece, sono un illustratore indipendente, non posso accettare cose non condivido.

Una copertina di Internazionale dedicata al coronavirus: articolo di Yuval Noah Harari, illustrazione di Noma Bar

I tuoi lavori sono molto spesso ispirati dall’attualità: perché?

Penso che questo sia legato al fatto che vengo da Israele, dove l’attualità è molto importante. Qui in Gran Bretagna il mondo dell’illustrazione è più dominato dalla pop music o da altre influenze culturali, mentre in Israele è quello che succede ogni giorno e la politica a farla da padrone. Oltre al fatto che abbiamo anche l’esercito lì, in cui tutti i giovani, uomini e donne, devono prestare il servizio militare. Penso che sia nel mio Dna. Quando ero giovane ho fatto anche grafiche per le news quotidiane di Arutz 2 (Channel 2): questo mi ha senz’altro influenzato e insegnato a lavorare velocemente. Quando sono arrivato a Londra, poi, ho mandato le mie illustrazioni e ho cominciato a lavorare al TheGuardian, per il quale ho disegnato per dieci anni nelle pagine di Opinione (‘Comment and debate’). Questo vale anche per i ritratti che realizzo: essere connesso a ciò che succede d’importante nel mondo è quello che mi piace, e il divertimento è uno degli elementi centrali del mio lavoro. Le cose che succedono oggi sono icone ed elementi esistenti: che sia il simbolo Covid o altro, qualsiasi cosa che comincia a fare parte delle nostre vite è qualcosa che posso usare e reinventare e da cui posso creare un’arte. Il materiale c’è nella vita di tutti i giorni.

Israele l’hai però lasciata più di vent’anni fa per l’Inghilterra… Non è cambiato nulla?

Non penso che vivere da ormai più di 20 anni in Inghilterra abbia modificato il mio approccio: è qualcosa di radicato in me, e così succede in tutti gli artisti, che fin dai primi passi danno un’impronta personale al linguaggio e al carattere dei loro lavori. Bob Dylan non inizierà a fare musica pop domani, no? Ecco, è lo stesso per me: il mio stile non cambierà, non troverete un mio disegno sul prossimo album di Kanye West …. Ho portato il mio passato qui a Londra, e lavorando per dei giornali inglesi, essere un illustratore che si intende ed è ispirato dagli eventi di geo-politica è sicuramente un vantaggio. C’è qualcosa nel mio passato e nel mio dna che ancora detta quello che faccio e che sto ancora sviluppando.
Il fatto di non essere in Israele non cambia niente, anzi: mi aiuta a vedere in modo più globale. Consiglio a tutti i laureati di fare un’esperienza fuori dal proprio Paese, perché dà una prospettiva diversa: a me permette di vedere ciò che succede in Medio Oriente in modo differente rispetto a quando ero lì. Quando lasci il tuo Paese diventi un osservatore e questo è senza dubbio molto importante per il mio lavoro.

Un’immagine presente nei video di animazione realizzati per il New York Presbyterian Hospital sul cancro

Il tuo stile grafico è spesso definito ‘degli opposti’. Da dove viene? Quanto deriva dalle tue origini?

Io vengo da Israele, un paese in cui da sempre convivono due parti, e in cui dobbiamo sempre confrontarci con “l’altro”. Già quando ero studente ho realizzato alcuni progetti sul conflitto israelo-palestinese, con animazioni dominate dagli opposti: il bianco e il nero che si scontrano e che reinventano l’ordine. Sono molto attirato dal trovare sempre il punto di incontro fra gli opposti, la vita e la morte, il dentro e il fuori, il bianco e il nero. E sì, sicuramente questo approccio ha le radici nella mia identità ebraico-israeliana. Se poi si pensa che sono nato durante la guerra di Yom Kippur, si capiscono meglio i disegni che facevo già a cinque anni: soldati a terra, ossa che cadono dagli aerei… Probabilmente c’è un trauma che mi porto dietro e che oggi si traduce nelle mie opere, nella compresenza di humour e surrealismo. È lo spirito agro-dolce, che ci fa sorridere e fare umorismo anche nei momenti difficili.
In Israele avevo studiato tipografia ebraica e quando sono arrivato a Londra con un portfolio di lettere ebraiche da me realizzate ai colloqui mi chiedevano cosa volessi da loro…. Ancora non padroneggiavo così bene l’inglese da poterci lavorare. Così ho iniziato a fare quello che faccio, con una specie di “linguaggio dei segni” grafici che era l’unico con cui potevo comunicare. Un’altra curiosità è che, essendo di madrelingua ebraica, sfoglio i libri anche dalla destra: l’abilità di leggere sia dalla destra che dalla sinistra è un esercizio molto interessante di come si può osservare la realtà da due punti di vista diversi.

Da anni si parla sempre di più di sostenibilità nella comunicazione di marca e oggi, a seguito della pandemia, questo sembra essere diventato un mantra. Lo vedi nelle richieste e nell’approccio delle aziende? E come si lega la sostenibilità al lavoro dell’illustratore?

Personalmente da sempre lavoro per brand che hanno fra i propri valori la sostenibilità, ho realizzato molti progetti legati a questi temi, quindi fra i miei clienti non vedo una differenza. Sicuramente credo che nel fare illustrazioni ci sia un qualcosa che è connesso alla sostenibilità, in quanto puoi creare mondi diversi, mostrare cosa potrebbe accadere nel futuro. La sostenibilità è un concetto astratto e difficile da definire, quindi quando si tratta di raccontare storie di questo tipo è sempre difficile, perché non si sa mai come approcciarla e come raccontarla.

Anche le storie legate alla salute sono difficili da raccontare. Ma penso che quanto più il tema da raccontare è astratto, tanto più il mio lavoro diventa interessante. Un esempio sono i video video di animazione per il New York Presbyterian Hospital di divulgazione sul cancro. Un tema difficile ma importante da veicolare. cancro (i video sono disponibili su Youtube, ndr).

la campagna per la compagnia assicurativa Mucinex destinata ai giovani durante la pandemia

Quali sono le campagne da te sviluppate di cui sei particolarmente orgoglioso per il messaggio e l’esecuzione?

Ce ne sono moltissime. Sicuramente fra queste vi è Superhero’, che ho creato per la compagnia assicurativa Mucinex durante la pandemia e che era destinata agli adolescenti: un invito a stare in casa durante la quarantena (cosa difficile per i teenager) e, salvando così delle vite umane impedendo la diffusione del contagio, diventare degli eroi. Non voleva vendere nessun prodotto in modo particolare, ma dare piuttosto un consiglio ai giovani durante la pandemia. In questo caso ai giovani, che spesso vengono rimproverati perché stanno troppo in casa a giocare alla Playstation, si diceva che in quel particolare momento potevano farlo e anzi era meglio che uscire.
Mi viene anche in mente la campagna per Greenpeace con la piccola barca dei pescatori di fronte a una enorme nave, come un pesce grande che sta inghiottendo uno piccolo. In questo caso il progetto voleva sostenere i piccoli pescatori britannici, fortemente minacciati dalla pesca massiva delle grandi barche delle multinazionali, che con reti enormi a strascico prendono enormi quantità di pesce, privandole piccole realtà, danneggiando anche la flora e la fauna marittime e inquinando le acque. Questa è una questione molto sentita in Gran Bretagna, dove la pesca è la forma di sostentamento di molte persone, che si sentono così minacciate.

La campagna per Greenpeace in difesa dei pescatori britannici

Come vedi l’evoluzione del tuo lavoro nei prossimi anni?
Oggi i trend dominanti sono i video di animazione, che utilizzano immagini in movimento e che offrono un punto di vista diverso sulle cose. Io stesso ne sto realizzando molti: un esempio sono quelli per il New York Presbyterian Hospital, trasmessi anche durante il SuperBowl, che hanno ottenuto 60 milioni di views, fanno parte della Collezione del Moma e hanno vinto molti premi. Non credo però che fra 10 anni vedrete molti miei lavori in movimento. Voglio tornare a interagire negli spazi fisici, a fare mostre nelle gallerie, aprendomi anche a nuove tecniche e strumenti. Voglio raccontare storie in modi diversi: per questo continuo a esplorare nuovi territori come, ad esempio, la realtà virtuale e la stampa in 3D.

Noma, grazie mille, aspetto allora di vederti a Milano ….
Mi piacerebbe tornare presto. Nel passato venivo al MiMaster per illustratori, e gli studenti erano geniali, così seri. Tre anni fa, poi, ero al Base per un evento ed era fantastico. Voi italiani fate degli eventi bellissimi, siete così appassionati e aggiornati.

Noma Bar (credits: Rook&Raven)

CHI È NOMA BAR

Noma Bar (nato nel 1973) è un grafico, illustratore e artista nato in Israele. Il suo lavoro è apparso in molte pubblicazioni mediatiche tra cui: Time Out London, BBC, Random House, The Observer, The Economist e Wallpaper. Bar ha illustrato oltre cento copertine di riviste (fra cui l’italiana Internazionale), pubblicato oltre 550 illustrazioni e pubblicato tre libri del suo lavoro: Guess Who – The Many Faces of Noma Bar nel 2008, Negative Space nel 2009 e Bittersweet 2017, una monografia di 680 pagine in 5 volumi prodotta in un’edizione limitata di 1000 esemplari pubblicati da Thames & Hudson.

Il lavoro di Bar è diventato famoso in tutto il mondo, vincendo molti premi del settore; più recentemente un prestigioso Gold Clio per il suo lavoro di animazione e regia per il NewYork Presbyterian Hospital, una campagna per evidenziare le nuove frontiere nella cura del cancro.

Ha anche vinto un premio Yellow Pencil ai D&AD Professional Awards e la sua mostra “Cut It Out” al London Design Festival è stata selezionata come uno dei momenti salienti del festival. Il progetto è stato nominato nella categoria grafica per il Design Museum, Designs Of the Year.

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