MariaGiovanna Luini
MariaGiovanna Luini

“Ognuno ha una fiamma vitale che l’accende”

Cresciuta con un papà medico che concepiva la professione come una missione quotidiana, Giovanna Maria Gatti ha raccolto il testimone ed è diventata senologa, lavorando al fianco di Umberto Veronesi, con cui ha pubblicato saggi e articoli scientifici, come assistente medico personale nella Direzione Scientifica dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano (IEO), dove da oltre 25 anni presta la sua opera. Sin dall’infanzia racconta di aver sempre respirato aria “di commistione tra medicina e psicoterapia: bisogna curare non i pezzi, ma le persone nella loro interezza, quindi anche le situazioni”. Master Reiki e operatrice energetica, crede nella medicina integrata e si propone con un approccio olistico alla persona, unione di corpo mente e spirito. Conosciuta al pubblico con lo pseudonimo con cui firma i propri libri, MariaGiovanna Luini ci conduce sulla via della cura, di cui “l’amore è la prima terapia, sempre”.

Medico e scrittore, ha collaborato a sceneggiature cinematografiche e prestato consulenza per Allacciate le cinture di Ferzan Ozpetek: quante vite abbiamo a disposizione?

Abbiamo una vita da vivere al massimo, che ci siano altre incarnazioni o meno sta alla persona decidere, ma intanto abbiamo a disposizione questa.
Il fatto di fare tante cose apparentemente slegate fra loro, almeno nella mia vita, ha un senso che le unifica tutte: ricerco da sempre l’essenza di quella che io chiamo ‘cura’, che non può essere solo fisica e che ha molto a che fare con la vibrazione delle parole, della comunicazione, della presenza. La parola, anche scritta, ha una vibrazione e un’efficacia, non solo un contenuto, una forma e un tono: nella cura la comunicazione è fondamentale. C’è un’unità: la consulenza cinematografica, la fiaba, il libro, la medicina convenzionale in oncologia o la psicoterapia psicosomatica, per quanto mi riguarda tutte queste strade hanno un senso. Non possiamo fermarci a una sola visione, se il punto di vista è unico diventiamo rigidi e non vediamo le altre possibilità. 

Ha detto: “Dentro di noi abbiamo qualcosa di molto più grande di ciò che abbiamo costruito di noi stessi”, come si attinge al proprio potenziale? 

Abbiamo tantissime potenzialità e ne usiamo poche, perché non ci rendiamo conto di aver tutte queste doti, perché spesso da bambini ci dicono “tu sei portato per questo e non per quello”: non è così vero, quando siamo piccoli manifestiamo alcuni talenti e altri sono semplicemente dormienti. Se le bambine e i bambini fossero aiutati a vedersi come un insieme di possibilità che possono esprimere in base al libero arbitrio sarebbe meglio. Il fatto stesso che le cellule del corpo siano differenziate e ce ne siano alcune non differenziate – ci sono, ma possono diventare altro: basti pensare alle staminali – significa che possediamo potenzialità diverse da quelle che crediamo di avere. Quando qualcuno si definisce ‘io sono così’, il senso di costrizione e barriera è immediato. Io non so come sono. Posso dire come mi sento adesso. E adesso non è come mi sentivo 5 minuti o 20 anni fa, né so come starò tra pochi attimi. 

Quando ha compreso di avere quella che lei definisce la ‘fiamma della cura’? 

Quando ho iniziato a scrivere libri centrati sul mio percorso posso dire di avere compreso, in realtà quel bisogno c’è sempre stato. Da bambina ho imparato a leggere da sola, avevo circa 3 anni e mezzo. Sfogliavo i libri di mio papà che era un medico, vedevo le trasmissioni televisive dedicate alla medicina e in particolare mi stimolava il mistero delle malattie non guaribili. C’era una specie di attrazione, il fatto che esistessero situazioni che non potevano essere curate risuonava come una profonda curiosità.
Possibile che non ci fosse intanto una spiegazione e poi una via di cura?
Mio padre era l’ ‘uomo medicina’: non aveva la segreteria telefonica, usciva di notte per andare a trovare i pazienti; ascoltava tanto, arrivavano a casa nostra persone che fisicamente stavano bene che gli raccontavano le loro vicende, vivevamo in un paese e questo era ancora più amplificato. Nel Grande lucernario (suo libro edito da Mondadori ndr) l’ho raccontato, ho vagato dalla radioterapia alla chirurgia, poi il master in senologia, la psicoterapia, le medicine orientali, il reiki: tutto fa parte della via della cura. La realtà è che dentro di noi risiede la fiamma vitale. Oggi potrei definire la cura come l’aveva descritta Ildegarda di Bingen nell’anno 1000 (monaca cristiana, scrittrice, mistica e teologa tedesca ndr). Dopo aver compiuto tutti questi studi – e ancora ne farò – arrivo a Ildegarda che diceva che il corpo fisico va visto, curato e riconosciuto, ma dentro abbiamo una scintilla che ci tiene vivi oppure no, sani oppure no. Dobbiamo guardare la fiamma vitale della persona, che è unica con le sue logiche. Se sono capace di mettermi in relazione con la fiamma vitale di quella persona usando tutti gli strumenti che ho a disposizione va bene, altrimenti posso fare qualunque cosa, ma resta che non ho capito chi mi trovi davanti e quindi quale sia la cura. 

L’approccio olistico alla persona come unione di corpo mente e spirito andrebbe probabilmente recuperato. Da dove parte il processo di cura?

Il fatto che abbia chiamato il libro più recente ‘La via della cura’, indica che la partenza è nella decisione del cosiddetto paziente di farsi realmente aiutare. Questo è l’unico principio che vale per tutti, che si tratti di malattia fisica o corpo sano ma in disequilibrio, traumi, lutti. La prima tappa è la decisione della persona, che deve essere reale, sentita, consapevole. Anche quando si tratta di una malattia fisica, la scelta di farsi curare, e da chi, fa parte dell’auto-cura, ma anche il sentire se le persone cui mi sono rivolta risuonano con la mia fiamma vitale. Tanta gente chiede la cura, ma non è disponibile a mettere in discussione rigidità e bocchi. 

Il lavoro su di sé passaggio imprescindibile

Non sempre chi sta male vuol farsi curare. Prendere questa decisione significa lavorare dentro se stessi, un passaggio imprescindibile, che non si può bypassare. Le emozioni hanno un ruolo, sono messaggi, con esse produciamo stimoli elettrici e chimici: per chi ha bisogno della spiegazione razionale è chiaro che interagiscano con il corpo fisico. Se non si è disposti ad andare dentro di sé, quella via della cura potrà avere magari dei risultati fisici eccellenti, ma poi si ripresenterà un disagio, magari diverso, che ci ricorda che un certo tipo di lavoro non è stato veramente fatto. Ho avuto a che fare con gente straordinaria, persone che sono state disposte a buttarsi dentro i loro spazi bui, memorie che sembravano granitiche. Ho fatto incontri che mi hanno insegnato tantissimo e ho capito l’importanza della comunicazione e delle parole. Ci sono tante vie di cura in tutto il mondo ormai da secoli che riguardano l’uso della parola, della musica e della vibrazione sonora per riequilibrare il corpo e addirittura curare il corpo fisico. Esiste una potenza guaritrice o distruttrice delle parole

A proposito di questo, cosa pensa dell’approccio alla comunicazione che la comunità-medico scientifica sta avendo in questo periodo di pandemia?

Ci siamo trovati in un frangente molto complicato. Quando ci si trova in un momento come quello che stiamo vivendo, non sempre si è emotivamente preparati alla comunicazione pubblica. Sono profondamente convinta che nel desiderio di contribuire, aiutare e dare informazioni su qualcosa, che è ancora in parte ignoto, ci siano stati approcci diversi. Chi sta nella medicina sa che non c’è una verità assoluta. La medicina è fatta di ricerca, evoluzione e ipotesi. E anche di individualità. Il fatto che ci siano comunicazioni discordanti tra esperti indica che i medici o i ricercatori abbiano sensibilità, percezioni e modi di vedere diversi. Altra questione è quella di andare l’uno contro l’altro. 

La difficoltà del ‘non lo so’

Sia nella comunicazione mediatica che nel quotidiano, chi patisce è il paziente. Negli anni si è perso quell’elegante modo di fare che prima era molto istituzionale: dare al paziente voci che possono essere diverse, ma che non siano pugni tra professionisti. Il peggior incubo di un terapeuta è dire “non lo so”. Di fatto in molte parti di questa situazione, ma se si pensa anche in oncologia è lo stesso, la risposta sarebbe “non lo so, però pare che… ci sono dati che”. Il difficile viene quando l’opinione semi-personale diventa un assunto scientifico.

Ha parlato di ossessione come nemica del sistema immunitario, la risata al contrario è amica dello stare bene. Come possiamo recuperare ciò che ci fa stare bene, in un contesto in cui tutto ci parla di malattia e difesa? 

Non è vero che tutto ci parla di malattia, noi possiamo scegliere cosa vedere, leggere e seguire. Possiamo decidere di guardare i dati quotidianamente, quindi di essere informati, di aggiornarci sulla procedura migliore per proteggere noi e gli altri, possiamo stabilire liberamente di non esagerare nel ricevere sempre la stessa notizia. Siamo noi a decidere di aderire a quest’onda mediatica che fatalmente ci arriva. I giornalisti fanno il loro lavoro. C’è responsabilità in chi porge l’informazione, la comunica, ma anche in chi la riceve, legge e ascolta. La consapevolezza è sempre necessaria. Continuano a esistere tante altre situazioni nella nostra vita: questa è un’osservazione che sembra banale ma che porta avanti anche i pazienti oncologici. Il punto è non rendere la malattia tutto il nostro mondo. Proseguono le relazioni, gli interessi, i talenti, i caos lavorativi, i pensieri per far quadrare il bilancio familiare: tutto continua, non si è fermato niente. Si è arrestato purtroppo il lavoro di molte persone, questo è un problema. Se teniamo un punto di vista unico sul problema, diventiamo il problema. 

Spostare il punto di vista

Chiaro che dare una comunicazione esageratamente felice e ottimistica in un tempo in cui la gente fa fatica non va bene, però occorre ricordare che esiste altro. Cito letteralmente lo psichiatra Raffaele Morelli: “C’è altro?”. Quando siamo tentati di concentrarci sul dolore, sul disfattismo, su una frustrazione, non bisogna scappare, ma domandarsi: “C’è altro?”. La risposta non verterà necessariamente sui massimi sistemi. “Ah sì guarda ho trovato un gatto bellissimo abbandonato, mi fa tanta compagnia”. “Ho letto l’ultimo libro…” e ancora “Ho trovato un corso di yoga online fantastico”. C’è sempre ‘altro’, anche nelle situazioni più drammatiche. Quest’altro funziona come spostamento temporaneo del punto di vista: ci ricorda che siamo vivi. 

Nella sua esperienza di medico le relazioni affettive che vive la persona malata possono avere una funzione terapeutica?

L’amore, inteso come movimento energetico che porta anche il terapeuta a esserci, è l’energia di cura.
L’amore fa miracoli veri. 

La morte esiste perché fa parte della vita. In questo senso la pandemia ci ha reso ancora più fragili di fronte a paure ataviche. È possibile andare oltre la cura del corpo?   

Ogni medico esprime il proprio talento di cura in un certo modo. Ogni volta che un paziente non guarisce e va incontro o alla cronicizzazione o alla morte c’è un bel carico di fallimento. Fare il terapeuta ha un confine abbastanza sottile tra l’ego e la generosità. C’è un discorso di relazione propria con chi va incontro alla morte: ogni persona rimanda a noi. Ci sono medici che hanno una maggiore propensione per seguire quei pazienti che non guarendo dalla malattia fisica vanno incontro a quel viaggio che è la morte fisica. Questa è una delle scelte che io ho fatto e, in particolare in questo periodo, sto vivendo molto concretamente. A volte la sensazione è di mettersi tra due dimensioni, aiutando amorevolmente con la presenza di parole e di ascolto a passare di là. In questo viaggio capita che io vada a casa di persone che stanno morendo o ci si incontri su zoom o skype e non si dica niente. Un po’ perché chi sta male non ha le energie in quel momento, un po’ perché non c’è niente da dire: c’è da esserci. Sono momenti per me di insegnamento totale. Ci sono domande che chi sta per morire non sa a chi fare e non rivolge ai familiari perché creerebbero molto dolore. Si ha bisogno di un interlocutore: ci vuole quell’affiancamento amorevole di una persona che non si disintegra di fronte a questi argomenti. Ci si mette in gioco, si mette a disposizione ciò che si sente e, magari si piange: le lacrime sono lo sciogliersi delle emozioni attraverso l’acqua. 

Siamo arrivati a un punto in cui la medicina tradizionale propone per maggior presunzione di efficienza soluzioni quasi seriali. Quanto un approccio basato sulla centralità della persona entra nella relazione medico-cliente?

Nella via della cura come io la concepisco parliamo di tante cose: cucina, viaggi, moda, animali domestici, estetista. È il discorso del “c’è altro?”. La cura sta anche nella reazione emotiva. Ci sono risposte molto significative di persone che non mollano su quel “c’è altro”. Fanno le cure, hanno fiducia nei medici, ma non diventano il malato, il depresso o l’ansioso. 
Interessante quanto comunichiamo e come. Se c’è stata una deriva della comunicazione medica, è stata per un’iper-protezione di sé nei confronti delle cause legali che spesso ci sono in quest’ambito. Si sono perse le sfumature empatiche. L’aziendalizzazione degli ospedali ha contribuito. È chiaro che ci voglia qualcuno che sappia dirigere gli ospedali nell’interesse dei pazienti, se dessero a me di dirigere un ospedale falliamo subito. Bisognerebbe parlarsi: manager, medici, infermieri…. bisognerebbe imparare a spiegarsi un po’ di più. 

Quanto questa fase storica richiede la necessità di una comunicazione positiva, capace di costruire relazioni più forti e vere?

Comunicazione è apertura. In tutti i frangenti la comunicazione è cruciale. Perché non parlarsi? È quello che sta succedendo oggi: ci si parla per interposta persona, alzando la voce. Anche sui social network, ci sono sfoghi non parole. C’è una comunicazione che al momento è ipertrofica, ma non ha un senso. La finalità della comunicazione dovrebbe essere quella di portare contenuti, informazioni, ma anche armonizzare.  

Che cosa è per lei per il benessere?

È uno stato armonico e dinamico, che riguarda il percepirsi. C’era una mia amica che aveva una malattia molto avanzata, ha fatto una cura energetica e dopo mi ha detto che per la prima volta dopo tanti anni si sentiva sana. Il suo corpo non si era risanato… magari! Ho pensato che proprio quello potesse essere il benessere per lei. Si tratta di quelle situazioni in cui percepiamo le emozioni, il corpo e le relazioni, tutto è in armonia, in equilibrio. Questo benessere, di cui facciamo una ricerca costante, esiste anche nei momenti critici. Ci sono quelle volte in cui tutto è silenzio armonioso, magari si sta vivendo una turbolenza, ma c’è un benessere puntiforme, che però crea. Sono quei momenti che non cogliamo di solito, ed è un peccato perché se li afferrassimo agirebbero e potrebbero anche dilatarsi. Il benessere è possibile anche a chi è malato, depresso, a chi ha vissuto un lutto. Fa parte di quegli istanti in cui si sente e quel sentire esiste come cura. 

Ciò che da sempre la guida, la attrae, la spinge è la Luce: “siamo Energia e l’Amore ne è la forma più alta”. Da che cosa riceve energia?

Dal silenzio e dal comunicare.
Il silenzio crea, comunicare mi fa venire fuori un’energia che non è razionale, mi carica ed esce.
Poi ricevo energia – tanta – dalle persone che incontro. 

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Giornalista, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi attraverso strumenti a mediazione espressiva. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.

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