Si definisce uomo di numeri: “Mi piacciono molto, sono un ancoraggio forte ai fenomeni che accadono. Certamente non bisogna limitarsi alle informazioni da questi derivanti, ma ritengo sia bene che da lì parta l’analisi, l’interpretazione e, alla fine, il confronto con la propria preziosa esperienza. L’analisi che origina dal numero non ti dà la certezza di operare scelte corrette, ma riduce il rischio di prendere quelle sbagliate”.
Insieme a Paolo Duranti, da sempre nel mondo delle ricerche, per molti anni direttore di Nielsen e oggi alla direzione commerciale di Auditel, ci siamo mossi dalla testa dei numeri fino ad arrivare alla pancia delle emozioni.
Come è cambiato l’ascolto televisivo durante i mesi di lockdown?
Le modifiche dei comportamenti d’ascolto si sono verificate in pochissimo tempo, il che fa abbastanza effetto se pensiamo che alcuni trend – le audience in leggero e costante calo per esempio -, in pochi giorni siano stati stravolti da dinamiche impensabili prima. Il violento incremento degli ascolti era senz’altro ciò che non ci si poteva non aspettare data la segregazione forzata in casa, anche il semplice buon senso ce lo faceva prevedere. Ma la misura dell’incremento è stata davvero sorprendente: oltre 1 ora di ascolto in più rispetto alle quasi 4 ore di ascolto medio che venivano misurate storicamente; inoltre l’incremento si è manifestato anche in target meno rivolti al mezzo televisivo, i giovani, facendo registrare incrementi percentualmente anche superiori. Quindi, una sorta di ricostituzione del nucleo familiare davanti al piccolo schermo. Relativamente ai contenuti fruiti, si è notato che nelle prime settimane i programmi più seguiti erano legati all’informazione, in particolare i telegiornali, che hanno avuto più degli altri programmi una media di ascolto più elevata. Poi si è passati a una fase in cui gli italiani, dopo il panico iniziale, hanno iniziato a organizzare la propria modalità di ascolto per poter meglio sfruttare l’offerta televisiva avendo più tempo a disposizione: e in tale contesto si è visto un incremento di programmi di intrattenimento volti anche a “riempire” il buco dello sport, per cui si è evidenziato un incremento di ascolto di programmi di intrattenimento, prevalentemente serie e film. È interessante notare come questo fenomeno non sia stato solo italiano, lo abbiamo notato anche in altri paesi europei dove i vari istituti di ricerca hanno misurato fenomeni simili all’Italia: questo è il caso della Spagna e della Francia. Anche altri Paesi hanno avuto importanti incrementi di ascolto seppur di entità meno rilevante rispetto a quelli registrati nel Sud Europa, tra questi Germania, Inghilterra o i Paesi Scandinavi. Anche sul digitale si sono misurate dinamiche analoghe e anche in questo caso si è registrato qualcosa che era abbastanza prevedibile: aumenti di ascolto dei programmi di informazione, crollo di visualizzazioni di siti di turismo etc. Il dato dà una misura precisa di come l’ascolto si sia modificato in termini di individui, target, tempo speso descrivendo una fenomenologia diffusa a livello geografico su più Paesi, tutto sommato abbastanza prevedibile ma che necessita di una misurazione precisa. Ho notato un grafico molto interessante costituito da due curve che riportavano i dati dell’evoluzione del Coronavirus e quella delle audience e che, ovviamente su scale diverse, mostravano una notevole similarità di andamento. Adesso siamo nella fase dell’uscita da casa e possiamo attenderci un tendenziale ritorno a consumi televisivi precedenti al Covid-19. L’incremento che abbiamo misurato nella prima fase ha già iniziato il suo ridimensionamento, sarà interessante misurare se tutto l’ascolto aggiuntivo si ridurrà progressivamente ritornando ai livelli “storici” o se il riavvicinamento di alcune fasce di ascoltatori potrà permanere contribuendo a rendere permanente parte della crescita “portata” dall’epidemia.
Attualmente su quali contenuti si dirige l’attenzione degli italiani?
In questa fase continua la prevalenza della fruizione di contenuti di intrattenimento rispetto alle notizie; mentre ricordo che nella Fase 1 si registravano picchi importanti di ascolto, in concomitanza degli annunci in diretta del nostro Primo Ministro relativamente alle misure preventive da seguire, o delle comunicazioni della Protezione civile dei dati ufficiali di contagio. L’impossibilità di poter effettuare programmi di intrattenimento live e col pubblico e di registrare nuove puntate di serie televisive e fiction, spinge i vari broadcaster a studiare nuove modalità di realizzazioni di programmi compatibili con le restrizioni imposte dall’emergenza.
Il periodo di lockdown ha riavvicinato anche il pubblico più giovane al mezzo. Si può parlare di una nuova primavera televisiva?
Da osservatore sono personalmente convinto che, indipendentemente dal Covid-19, la televisione abbia e avrà per molto tempo un ruolo ancora centrale nella dieta mediatica in Italia
Questo sarà anche favorito da una dinamica tecnologica: la progressiva diffusione della smart tv aumenterà l’utilizzo del piccolo schermo per la fruizione di contenuti veicolati dal web. Il televisore (inteso come hardware) sarà quindi il luogo dove si incrociano in maniera crescente la televisione e il computer rendendo progressivamente sempre più sfumati i confini tra TV lineare e Web: se analizziamo questo fenomeno con gli occhi dell’ascoltatore, l’offerta, che potremmo più genericamente definire, di video fa sì che il fruitore possa agilmente passare dal digitale al web costruendosi in tempo reale il proprio palinsesto e sfruttando le numerose offerte di On demand e catch up TV per assicurarsi la visione del programma scelto senza correre il rischio di “perderselo”. Questo fa sì che alla tradizionale offerta di canali lineari si aggiungano i numerosi contenuti veicolati dai cosiddetti OTT (Raiplay, Netflix, Disney+,…) , per cui la è possibile che la sovrapposizione delle due offerte, quella lineare e digitale, potrebbe generare incrementi di tempo dedicato alla fruizione di contenuti visti sul divano di casa. Allo stesso tempo il consumo di video in mobilità è in fortissima crescita, con importanti impatti sia su chi produce contenuti che su chi pianifica pubblicità fruiti fuori casa sul proprio smartphone.
Questi mesi sono stati o possono essere occasione di ripensamento in termini di contenuti per l’offerta televisiva?
Secondo me sì, il ripensamento ci sarà sicuramente; molte tipologie di trasmissione non possono essere più realizzate allo stesso modo di prima, molti contenuti son al momento totalmente assenti, basti pensare allo Sport, e quindi necessariamente occorre trovare altre formule. Al momento l’offerta di contenuti è ridotta rispetto a prima, quello che non si può più fare deve essere sostituito con altro. Si misura un ritorno a un recupero di programmi storici, i broadcaster pescano i classici all’interno delle loro librerie, si intuisce una proposta di palinsesti ‘back to basic’, teso a valorizzare i contenuti che hanno fatto la storia dei consumi televisivi e forse anche a una proposta dai toni più morbidi e più coerente col generale bisogno di rassicurazione chiaramente espresso dalla poplazione. Sarà interessante conoscere l’offerta dei palinsesti autunnali, allo studio in queste settimane e con l’incognita – speriamo di no – di una possibile seconda ondata di Covid-19. Allo stesso tempo notiamo nel mondo iniziative che al contrario puntano integralmente alla mobilità. Mi riferisco al recente lancio di QuiBi (acronimo di Quick Bites qui la notizia ), una società americana che produce contenuti per smartphone di 6 minuti. Una iniziativa innovativa e coraggiosa, dietro la quale ci sono nomi importanti (Meg Whitman è Chief Executive Officer e Jeffrey Katzenberg Founder & Chairman of the Board ndr), che va nella direzione opposta, e probabilmente complementare, al consumo televisivo tradizionale e che è interamente rivolta alla fruizione via smartphone proponendo narrazioni che si svolgono in pochi minuti.
Assolvendo una funzione informativa e d’intrattenimento la televisione ha svolto un ruolo importante durante la Fase 1. Quanto può e deve Auditel aiutare il mezzo televisivo a dialogare con le istituzioni?
Auditel misura gli ascolti, ed è altamente probabile che anche le istituzioni valutino i dati forniti al mercato. Siamo una società privata che, avendo oggettivamente un ruolo pubblico, interagisce con le istituzioni tenendole costantemente informate sulle metodologie adottate, sui piani di sviluppo e innovazione; inoltre l’attenta supervisione sulla nostra attività, di enti istituzionali, quali l’AGCOM o la AGCM, presidiano l’imparzialità della nostra attività e favoriscono l’innovazione necessaria a cogliere correttamente tutte le dinamiche ed esigenze del mercato in senso ampio.
Che tipo di fotografia del Paese restituisce il dato Auditel?
Auditel svolge ogni anno un’indagine ‘face to face’, intervistando 20.000 famiglie incluse quelle straniere. È la ricerca più grande che ci sia in Italia svolta da una società privata, e restituisce non solo quello che è a base dell’impianto di misurazione degli ascolti, cioè il parco di dotazioni tecnologiche esistente nelle famiglie italiane (televisori, smartphone, tablet, etc), raccogliendo informazioni dettagliate sulle varie attrezzature possedute, ma di fatto restituisce una fotografia aggiornata della popolazione residente in Italia che nessun altro studio può rappresentare. Una importante specificità della ricerca Auditel è la definizione di famiglia: per Auditel la famiglia è quella di fatto, cioè è l’insieme di individui che risiedono nella stessa abitazione, per cui viene considerata una famiglia 3 studenti che condividono un appartamento, piuttosto che un anziano con la sua badante, riflettendo esattamente i nuclei “familiari” che convivono, indipendentemente dalla loro eventuale relazione anagrafica.
Il dato ci orienta in una lettura del contesto. Quanto i dati ripagano in termini di qualità?
Questo tema è dibattuto da quando esiste l’Auditel. Sono in molti a sostenere che la misurazione degli ascolti penalizzi la qualità della programmazione a detrimento di un livello culturale a cui la televisione dovrebbe ambire. Il mio pensiero in proposito non è tanto da ricercatore ma da semplice cittadino:
uno strumento di misurazione non è responsabile di quello che misura
Se una persona ha la febbre e il termometro la misura non possiamo certo attribuire allo strumento questa responsabilità. Allo stesso tempo è senz’altro comprensibile che siano condotte specifiche ricerche volte alla misurazione alla qualità e al gradimento dei programmi con finalità editoriali.
Il dato vuole interpretazione, facendo riferimento al consumo di persone è mutevole. Qual è il valore la durata del dato?
Se facciamo riferimento aidati di ascolto misurati in questo periodo, siamo consapevoli di aver misurato dei dati statistici in un momento di straordinaria variabilità, mai riscontrata sino ad ora, per cui non è oggettivamente semplice effettuare delle proiezioni per prevedere come sarà la modalità di ascolto una volta usciti dall’emergenza. Potremo trovarci in uno scenario del tutto simile alla fase pre-Covid e pertanto leggere questo episodio come una parentesi eccezionale del tutto rientrata alla “normalità”; alternativamente potremo misurare che alcuni dei fenomeni importanti e atipici rilevati oggi, potranno ridursi ma non scomparire generando quindi uno scenario di ascolto che presenta caratteristiche parzialmente diverse da quelle “storiche”. In tal caso i ricercatori, gli utenti professionali e tutti i soggetti interessati a monitorare i comportamenti di ascolto avranno parecchio materiale di studio per comprendere come organizzare la nuova offerta televisiva in uno scenario che presenta differenze significative rispetto “al prima”.
La sua carriera è di uomo di azienda. C’è stato un periodo nella sua vita professionale in cui ha lavorato in un’organizzazione no profit come Cesvi. Che cosa porta di quell’esperienza oggi? Aiuta il lavoro che sta facendo oggi?
Porto con me alcuni elementi di estrema rilevanza nella mia vita professionale e privata. Innanzitutto ho conosciuto persone straordinarie. Quando sono entrato in Cesvi onestamente non mi sarei aspettato ad esempio un livello di professionalità così elevato!
Ho trovato infatti competenze davvero straordinarie e, devo dire, nonostante livelli retributivi decisamente inferiori al mondo del profit
Purtroppo infatti in Italia il no profit gode oggettivamente di una scarsa considerazione, e chi ci opera guadagna sensibilmente meno di quanto, a parità di attività professionale svolta, sarebbe la sua retribuzione in un azienda profit. All’estero e in particolare nei paesi anglosassoni gli stipendi sono assolutamente allineati tra profit e no profit. Questo fa sì che la principale ragione che spinge le persone a lavorar in questo settore sia il loro credo etico; il che da un lato ha sicuramente una valenza positiva, in quanto la loro motivazione è altissima, dall’altro non vi sono ragioni oggettive per cui la stessa competenza professionale e le stesse (spesso, maggiori) responsabilità non vengano riconosciute anche dal trattamento retributivo. Tale scenario non solo riduce il livello di attrattività di questo settore ma alle volte genera delle uscite dallo stesso nel momento in cui l’evoluzione della propria vita personale (la creazione di una famiglia con figli ad esempio) non è sostenibile dal punto di vista economico. La struttura del no profit in Italia è costituita da circa 300.000 tra ONG e Onlus. Le multinazionali del no profit (sicuramente più equilibrate sotto il profilo del trattamento economico) sono arrivate in Italia dopo che già decine di migliaia di piccole organizzazioni erano nate, molte di queste costituite dal fondatore e alcuni collaboratori in logica di volontariato, e quindi a retribuzione zero. Questo potrebbe aver determinato questo “standard” indubbiamente non facile da essere modificato. Sicuramente l’intervento dello Stato potrebbe aiutare, ma non credo sia questa la soluzione. Dovrebbe esserci un cambiamento culturale e come tutti i cambiamenti culturali, estremamente difficoltoso da conseguire. Personalmente sono convinto che un maggior dialogo tra profit e no profit potrebbe generare significativi benefici. Sono andato a visitare dei progetti in Zimbabwe e la visita ad un ospedale supportato dal Cesvi ha rappresentato un’esperienza che ti resta profondamente dentro. Ho visto la sofferenza che tutti noi sappiamo esiste, ma vederla è diverso; allo stesso tempo, e forse ancora più sconvolgente della visione del dolore, ho visto occhi luminosi di donne incinte sieropositive che cantano e danzano insieme, o bambini di 4 anni che lavandosi la loro unica maglietta con un filo di acqua giocano e scherzano con i loro compagni. Ricordo in particolare un episodio: viaggiavamo in Jeep su una strada sterrata di cui non si vedeva né l’inizio né la fine, intorno non c’era nulla… solo terra, qualche capanna qui e là a grande distanza; a un certo punto scorgiamo davanti a noi 4 bambini, probabilmente di 6-7 anni, vestiti con una divisa, sporca e sgualcita, ma una divisa, e una cartella sulle spalle (chissà quanti chilometri devono fare tutti i giorni per andare a scuola); ci hanno visto e, nonostante la polvere che purtroppo la nostra Jeep alzava e li investiva, hanno cominciato a correrci dietro ridendo e sorridendo, probabilmente entusiasmati dalla novità di questo episodio. In quel momento partono tante riflessioni che mi auguro di mantenere fresche nella mia mente e che meglio orientino la mia vita e soprattutto quella delle mie figlie! Spero un giorno, dopo la mia vita professionale, se ne avrò la possibilità, di tornare a operare in quell’ambito.
Come si stanno muovendo le aziende in ambito CSR e qual è il salto che bisognerebbe facessero?
Personalmente come frequentatore di aziende ho visto un’evoluzione significativa del CSR. È stato un processo lento: in un’azienda profit è difficile pensare ad un’attività che ha un costo e non produce direttamente reddito. Tuttavia ciò che mi sembra di osservare è una profonda maturazione del modo di interpretare la CSR; se è vero che vi sono ancora aziende che adottano la CSR come accessorio al loro business tradizionale, e magari per costruirsi una immagine “buona” (il cosiddetto “green wash”), allo stesso tempo ce ne sono parecchie, anche medio piccole, in cui il concetto di CSR diviene l’asse portante e strategico attorno al quale si muove tutto il resto: dalla produzione alla commercializzazione, alla comunicazione pubblicitaria, alla gestione dei dipendenti e al rapporto con il territorio. In questo caso sia ha la massima espressione di interpretazione della CSR, che diviene appunto un modo di fare business a tutto tondo; una CSR che costituisce il DNA di un’impresa porta spesso la stessa ad acquisire un posizionamento distintivo, anche nei confronti dei propri competitor, per cui una intelligente gestione della CSR genera anche vantaggi competitivi e aumento della profittabilità. Sono numerose le ricerche condotte sui consumatori dalle quali emerge che vi è una propensione da parte del consumatore a premiare anche con un differenziale di prezzo positivo, un bene prodotto da una azienda che ha chiaramente mostrato la sua attenzione alla difesa di valori nobili (la solidarietà, l’ambiente, il disagio, la tutela di minoranze etc etc). Ritengo probabile, o quantomeno auspicabile, che la maggiore sensibilità al disagio sperimentato in questo periodo di emergenza, generi una ancora maggiore attenzione a tali tematiche e favoriscano un radicamento delle pratiche e delle logiche CSR all’interno delle imprese.
Come ha utilizzato il tempo durante il lockdown? Ha guardato più televisione o navigato sul web?
Come tanti, ho lavorato di più con alcuni aspetti vantaggiosi (ad esempio la possibilità di rimanere concentrati per più tempo su un aspetto specifico) e anche qualche moderato disagio (ad esempio la relazione con soggetti esterni all’azienda soffre la mancanza di un contatto diretto e la maggiore difficoltà di creare empatia con l’interlocutore). Non ho riflettuto più di tanto di come come abbia speso il maggior tempo a disposizione (come sempre sono attento a quello che fanno gli altri ma non a me): ho letto molto di più, soprattutto rassegne stampa internazionali, grazie ad una simpatica iniziativa aziendale ho fatto qualche piccolo progresso in cucina e credo infine di aver avuto un comportamento di fruizione televisivo anomalo in quanto penso di aver visto più o meno la stessa quantità di televisione.
Giornalista, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi attraverso strumenti a mediazione espressiva. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.