Carmine Borrino

Riaprire un teatro per rispondere alla nuova umanità

Una polis, una piazza, un luogo sacro e un teatro. Come nell’antica Grecia, la storia della riapertura del Teatro San Luca ad Arco Felice, nel comune di Pozzuoli a Napoli, lo inserisce in un progetto di comunità. Costruito nel 1964 insieme alla chiesa è stato per lunghi anni gestito dalla parrocchia, poi da una compagnia teatrale e infine chiuso in seguito alla pandemia.

Due attori, i fratelli Carmine e Vincenzo Borrino, hanno poi scelto di riaprirlo, inaugurando un nuovo corso: “L’abilità – dice Carmine, anche regista e drammaturgo – sta nel riempire di contenuti interessanti sia la piazza, sia la chiesa, sia il teatro. L’intenzione è costruire una comunità con un pubblico che abbia una coscienza, con cui fare un percorso di crescita insieme”.

Riaprire un teatro a Pozzuoli, un comune di circa 80.000 abitanti. È una scelta coraggiosa?

In questo momento è una scelta non solo coraggiosa, ma rischiosa.
Con mio fratello Vincenzo abbiamo girato l’Italia da nord a sud e ci siamo sempre chiesti come fosse possibile che in un territorio come quello dei Campi Flegrei, che conta quasi 150.000 abitanti in totale, non esistesse un teatro. Una volta c’erano, sono stati chiusi. Sta di fatto che da 60 anni circa in questi luoghi non esisteva un teatro, e neanche un pubblico. Ho pensato che si trattasse di una carta vincente: offrire un servizio in un posto in cui mancava. La pandemia ha scoperto tanti meccanismi, anche negativi, del nostro lavoro. Dicono che alle arti siano destinati pochi soldi, non è vero. La cultura in Italia, in particolar modo in Campania, è finanziata ma è ostaggio di scambio politico. Il meccanismo legislativo è contorto e crea delle sacche di potere ambigue. Io sono un ragazzo di periferia, proveniente da una famiglia proletaria, ho fatto teatro con slanci poetici in età giovanile e, scoperchiando questo vaso di Pandora, ai miei occhi si sono rivelate ancora di più certe dinamiche. Per me significava o cambiare totalmente lavoro o resistere. La seconda ipotesi comportava andare in autonomia, provando a scardinare un sistema che, seppur ricco e finanziato, è morente.

Stiamo già vivendo una nuova umanità.

Che cosa intendi per ‘scardinare il sistema’? 

Con mio fratello abbiamo riaperto un teatro, rischiando un capitale personale prestato da una banca. In questo senso sono disposto a metterci il mio rischio di impresa, a patto che in un territorio, ‘vergine’ mi viene da dire a questo punto, come i Campi Flegrei possa costruire un percorso di comunità come io lo intravedo.

Parto dall’anno zero: il palcoscenico del San Luca riapre per formare domanda e offerta e creare insieme alla comunità un teatro diverso da quello da cui sono stato ripudiato o da cui me ne sto andando, perché non mi interessano più certe dinamiche. Mi assumo la responsabilità non solo imprenditoriale ma anche editoriale di quello che offro e porto, di quello che condividiamo con il pubblico serata per serata. 

È un nuovo inizio. 

Stiamo vivendo una nuova umanità. Il Quoziente Humano, come vi chiamate, per me è intelligenza, che non è solo una capacità razionale ma un sentire armonizzato con l’aspetto emozionale, per arrivare a quello spirituale. È la coscienza che si risveglia e in un certo senso ci guida.

Quando la coscienza si risveglia, farla addormentare dopo è quasi impossibile. Si ha difficoltà ad adattarsi in una società costituita così come la stiamo vivendo, c’è una voce che dice: ‘la rotta è un’altra’.

Qual è stata la risposta del territorio?

Inizialmente ottima. Sono stato accompagnato in questa riapertura, perché non era facile. Siamo all’interno della chiesa di San Luca ad Arco Felice, Padre Manuel è un prete illuminatissimo, ci ha conosciuto e ci ha affidato il teatro. La comunità ha risposto bene, il teatro è vivo. Il pubblico va accompagnato in questo percorso. Abbiamo attivato laboratori di teatro e formazione, a settembre partiranno quelli di cinema, e abbiamo realizzato una convenzione con la Asl di Pozzuoli e con l’Assessorato alle Politiche sociali del Comune, destinando la sala una volta alla settimana a incontri con l’utenza del Dipartimento di Salute Mentale. Abbiamo un cartellone di spettacoli e concerti e diamo la disponibilità di usufruire della sala alle varie compagnie amatoriali teatrali. 

Da poco ha chiuso il cinema a Pozzuoli, quale volto assumono le città senza centri di cultura? 

Contesto da sempre il disinteresse delle amministrazioni comunali ad assumersi la responsabilità della gestione di questi luoghi. Il cinema di per sé è già in crisi perché il consumo avviene in larga misura attraverso le piattaforme. Manca una visione. Bisogna innanzitutto partire dalla semplice domanda e offerta di un mercato che è tutto da inventare. Bisogna creare nuovi percorsi e allo stesso tempo accettare un discernimento: occorre essere consapevoli che non tutti hanno la stessa sensibilità, voglia e interesse. Questi luoghi probabilmente non accoglieranno più folle di gente, bisogna ridimensionare il tutto e probabilmente questo farà guadagnare anche più libertà artistica.

L’umanità si è divisa. Ci sono coloro che si sono risvegliati e altri che perseguono nelle stesse modalità, ripetendosi e alienandosi. La cultura è sempre aperta, ma bisogna intanto sapere a quale pubblico si vuole parlare, che cosa si vuole dire e trovare nuove forme di finanziamento. 

Da una parte gli ultimi anni hanno riportato le persone fuori dalle metropoli, dall’altra la provincia soffre maggiormente di uno svuotamento di luoghi e mezzi per fare arte?

Queste persone sono fondamentali per l’esperienza che portano nei luoghi di origine. Resta ancora da parte di alcune istituzioni la poca attenzione e l’inesperienza di gestire certi meccanismi. Servono delle capacità di innesco a certi processi che poi stimolano anche la parte economica. Faccio un esempio. Per due anni sono stato direttore artistico (insieme a Veronica Grossi ndr) del Festival Antichi Scenari patrocinato dal Ministero della Cultura: la difficoltà non era economica ma logistica, rispetto all’allestimento dei posti in cui si teneva la manifestazione. Persone con esperienza e conoscenza che tornano nei luoghi di origine devono provare a scardinare il sistema dominante. I tempi sono maturi per andare, tornare e cominciare a bonificare. 

Avete definito il Teatro San Luca come un’arca di Noè che accoglie. Chi e perché?

Stiamo vivendo un’apocalisse che non è solo distruttiva, ma anche di rivelazione. Molta umanità è naufragata, e faccio riferimento a coloro che hanno una mentalità egoica, bellica, scissa dal sé, nella totale dimenticanza di loro stessi perseguono un meccanismo alienante e alienato che si incaglia in dipendenze varie. Dall’altro lato c’è una parte di umanità che sale sull’arca perché riesce a intravedere un orizzonte. 

L’obiettivo, tra gli altri, è accompagnare bambini e adulti in percorsi teatrali. Che cosa insegna il teatro?

La nostra non è una scuola di teatro, proponiamo laboratori esperienziali che attraverso il linguaggio teatrale delineano un percorso di formazione personale incentrato sull’allenamento creativo. L’uomo è un essere creativo. La creatività è il timone dei nostri laboratori, che partono dall’indagine del sé, per poi trasformarsi in un atto creativo, che consente di scoprirci un po’ di più e capire come siamo fatti. I bambini sono in gamba. Hanno equilibrio, una buona capacità espressiva, educazione, eppure quando ce li presentano i genitori ci parlano di problematiche che afferiscono al loro rapporto con la società. Sono bambini che si sentono a disagio in un mondo come l’abbiamo creato noi. Il mio compito è fargli prendere coscienza delle loro capacità, agire sull’autostima. Il grande assente in questa società è l’istituzione scolastica con un’istruzione basata sulla performance, sulla competizione, sul valore definito da un voto. 

Gli adulti soffrono maggiormente, molti sono nella dimenticanza di sé. 

Il teatro esiste in un qui e ora che a volte sfugge. Come possiamo essere più presenti anche facendo riferimento alla formazione dell’attore? 

Prima di cominciare i laboratori facciamo almeno venti minuti di meditazione, anche con i bimbi, a livelli diversi e dolcemente, proprio per ritrovare la presenza del sé. 

Il linguaggio teatrale in questi anni si sta spostando sempre più dalla performance poetica alla formazione, perché i benefici sono tangibili. Il teatro pubblico dovrebbe svolgere il ruolo del counseling. Chi fa spettacolo ha il dovere di interrogarsi sulla funzione che ha all’interno della società, che non è più quello di fare ‘cultura’ come si è intesa in maniera radical chic fino ad adesso. 

Bisogna dare risposte alla nuova umanità, e se non le abbiamo, dobbiamo tacere.

Bisogna aspettare e dare spazio a chi ha qualcosa da dire. Occorre liberare il mercato, disincagliare i meccanismi che lo tengono imbrigliato, dare all’artista la possibilità di esprimersi.  

La catarsi che i greci affidavano alla funzione teatrale oggi a che livello lavora secondo te? 

La stiamo vivendo. È la nemesi che si compie sul disinteressamento dell’opinione pubblica e della polis nei confronti del teatro. Dobbiamo essere bravi a capire perché la polis è interessata a uno spettacolo e non a un altro. La catarsi avviene in una lunga riflessione che adesso comincia, ma ci vorrà molto tempo per un risveglio. C’è una collettività già attenta a vedere certi meccanismi e li sta accompagnando verso la morte. Cristo muore per rinascere. Dobbiamo vivere questa fine con grande speranza. Citando Battiato: “il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”. Stiamo vivendo un momento entusiasmante. 

Come dare energia positiva al teatro? 

Il teatro è un’energia alta, ma dipende chi lo fa. È quanto di più umano possa esistere, perché è l’uomo stesso che lo realizza. Tutto dipende da quello che si mette in campo: dal palcoscenico alla sceneggiatura, dalla vibrazione degli autori all’intenzione del regista, fino a tutti quelli che partecipano. 

Nel teatro, come nella vita, hai bisogno di te, della tua piena consapevolezza, forza e autostima. 

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Giornalista, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi attraverso strumenti a mediazione espressiva. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.

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