Intervista ad Alessandra Piccoli – attivista impegnata in associazioni legate ad ambiente, sovranità alimentare ed eco-femminismo, ricercatrice e co-autrice – con Adanella Rossi e Riccardo Bocci – del libro Riprendiamoci il cibo!
Cosa significa ‘sovranità alimentare’?
“C’è un equivoco dovuto alla sovrapposizione tra ’sovranità’ e ‘sovranismo’. La sovranità alimentare non è sovranismo alimentare, non è chiusura dei confini per occuparsi delle problematiche interne a una nazione o una comunità, è un termine connesso al controllo, alla consapevolezza e anche alla responsabilità della filiera alimentare. L’esistenza di questa sovrapposizione ha portato molte organizzazioni a scegliere di abbandonare il termine ‘sovranità alimentare’ a favore di ‘autodeterminazione alimentare’.
È una linea sottile…
Le due cose sono contigue ed è facile che si possa passare da un aspetto all’altro, perché anche nei movimenti per la sovranità alimentare c’è una tendenza ad un ragionamento di tipo autarchico, in generale più legato al sovranismo: cercare di essere autosufficienti per evitare legami e dipendenze rispetto all’esterno. In realtà il discorso non è soltanto questo e, come si legge nel libro, dopo quello che è emerso con la guerra in Ucraina è scoprire di essere estremamente dipendenti dalle importazioni, soprattutto di grano.
Preziosa autosufficienza
E l’Italia è una produttrice di grano. Siamo in possesso di un clima e di una tipologia di terreno che si prestano assolutamente alla produzione del grano. Anche per la pasta, uno dei prodotti maggiormente tipici e amati dagli italiani, dipendiamo da filiere straniere; Barilla importa dal Canada, dall’Ucraina e dalla Polonia. Siamo fortemente dipendenti. Sovranità alimentare significa anche puntare ad una maggiore autosufficienza e non all’autarchia. Sono sottigliezze che si sovrappongono.
Il vostro libro non ‘parla’ soltanto alle persone ma anche alle organizzazioni e agli enti. Quanto è importante che si lavori su più tavoli per poter affrontare la sfida di cambiare lo sguardo comune sul cibo e l’alimentazione?
“È molto importante. Abbiamo ragionato su un dettaglio: sinora molta responsabilità rispetto alla trasformazione dei consumi sostenibili e solidali, sia sul piano ecologico sia su quello sociale, è stata lasciata ai consumatori. Si è puntato molto sul consumo critico, sulla filiera di acquisto, delle botteghe equosolidali, dei mercatini della terra. Sono tutte esperienze straordinarie e assolutamente fondamentali per arrivare ad una trasformazione e transizione ecologica però abbiamo avuto la prova, negli ultimi anni attraverso diversi studi, che non è sufficiente. Non può essere lasciata tutta la responsabilità al singolo individuo che sceglie di adottare uno stile equosolidale e sostenibile. È necessario giungere al collettivo e quindi ad un’azione politica vera e propria. Facciamo politica con il portafoglio andando a fare la spesa e questo è essenziale ma non è sufficiente per raggiungere un cambiamento che abbia un impatto significativo.
Responsabilità individuale e collettiva
È necessario che la trasformazione evolva ad un livello superiore e collettivo. Da qui l’invito ad un coinvolgimento delle organizzazioni della società civile, dei movimenti più allargati, delle comunità ma anche degli enti amministrativi o comunque riconoscibilmente politici come possono essere, per esempio, i comuni. Noi abbiamo identificato nella dimensione delle amministrazioni comunali un interlocutore attento, in linea di massima. È significativo per scalare una transizione dei consumi che altrimenti rimane ancorata alla buona volontà dell’individuo”.
Quanto è importante un’educazione alla collettività rispetto alla crescita del singolo, che frequentemente viene propinata dalla società odierna?
“Si tratta di educare, educarsi ed educarci all’azione collettiva. Si tratta di uscire dall’individualismo che è sicuramente un elemento molto importante ed essenziale, perché prima dev’esserci la trasformazione dell’individuo, ma poi occorre sviluppare la capacità di agire collettivamente”
Si nutre il corpo e non solo. Qual è il significato del termine nutrimento e come accordarlo alla quotidianità di ciascuno di noi?
“Nel libro abbiamo un po’ eluso quest’argomento, l’abbiamo trattato fra di noi ma abbiamo scelto di non affrontare questo aspetto. È sicuramente una delle grandi sfide per il futuro, lo dico a titolo personale. Abbiamo due strade davanti: una umanista e una tecnologica. Servono a rispondere alle molteplici crisi che stiamo affrontando e si relaziona con una visione del mondo e dell’esistenza. Si pensa a nutrire il corpo e mettere a disposizione una serie di elementi chimici utili all’organismo ma non si osserva cosa può esserci anche a margine, accanto o assieme a tutto questo. E nutrire anche una parte maggiormente collettiva, sociale e di relazioni, un argomento che abbiamo affrontato nel libro”
Come oggi si può supportare l’agrobiodiversità?
“Nelle esperienze che presentiamo nel libro si pratica il sostegno ad un’agricoltura biodiversa e attenta a questo tipo di aspetti. Chiaramente, non è intrinseco, c’è anche una CSA che immagina di sostenere una cultura intensiva e industriale. Tuttavia, ciò che accade è che coloro che si posizionano accanto ad un’azienda agricola lo fanno per sostenere un tipo specifico di agricoltura, che adotta i principi della coltura biologica e dal CSA si ottiene un paniere molto alto di prodotti, non è mai una monocoltura, si tratta sempre di aziende che producono molte varietà. Esiste però una coltivazione di quantitativi minori di varietà, sempre più selezionate.
Significa comprendere l’importanza della consumazione dei semi e della verità, l’uso di prodotti locali e l’attenzione specifica a varietà reali e adatte a quel territorio. Il vantaggio è che questo tipo di iniziative, che hanno la sovranità alimentare come obiettivo, hanno una sensibilità già piuttosto sviluppata, rispetto alla diversità e all’attenzione per ciò che è specifico di quel territorio. Si torna sempre alla possibile interazione con discorsi più nazionalisti ma è quello che c’è dietro che può fare la differenza. Il valore è quello: riconoscere che la specificità del luogo va trovata e protetta”.
Vicinanza, focalizzazione e libertà di scelta
Occorre trovare una sintesi tra la spinta sempre più forte alla globalizzazione e l’attenzione al territorio.
“Molti dei movimenti nati nel tempo sono derivati dalle esperienze no global e da incontri che hanno ruotato intorno al contrasto alla globalizzazione, è un dato di fatto e anche nel libro se ne parla, come le esperienze a Bologna e Bergamo derivano dai social forum e sono nate in quei contesti. Sicuramente, c’è un contrasto aperto, e in alcuni casi cosciente, rispetto al modello della globalizzazione, rispetto a un ritorno a una logica di vicinanza e di focalizzazione. Questo non significa opporsi in senso nazionalista o territoriale ma rispettare i propri confini con un senso di fratellanza nei confronti degli altri movimenti”
Quanto è necessario spingere su una cultura del cibo? Alimentarsi in modo sano è una scelta?
“Credo molto nella cultura del cibo. Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una diminuzione significativa della percentuale di spesa dedicata all’alimentazione rispetto ad altre cose e questo chiaramente ha portato ad uno svilimento del valore di quello che mangiamo, non solo a livello di sapore ma anche di qualità intrinseca del cibo.
Per quanto riguarda la scelta, per alcune persone lo è per modo di dire perché è inconsapevole, e molte persone potrebbero alimentarsi meglio. La fascia di popolazione che effettivamente non ha la possibilità di mangiare più sano è in crescita ma non è ancora la maggioranza. E la maggioranza, che avrebbe possibilità di farlo, non lo mette in pratica, anche per una carenza educativa. Per quanto riguarda le persone che non hanno possibilità di mangiare meglio è necessario un ritorno ad un’azione politica collettiva e ad una presa in carico da parte delle amministrazioni e di chi ha il dovere di garantire una redistribuzione un po’ più equa per quanto riguarda i fabbisogni essenziali di sopravvivenza”
Libertà di conoscenza e di scelta. Cosa può fare il singolo per arrivare ad una certa autonomia e in che modo si possono sostenere gli agricoltori?
“Le opportunità di auto-educazione sono abbastanza numerose, al di là delle differenze tra un territorio e l’altro. Al Nord le possibilità di seminari e incontri sono abbondanti, non trovo grande difficoltà, anche pensando ai testi dai quali attingere. Concretamente, quello che si può fare senza dover giungere per forza ad un gruppo di acquisto o ad una CSA che necessita di una dimensione collettiva, ritengo sia rivolgersi ai mercati della terra. I mercati contadini sono molto diffusi e rendono possibile un contatto diretto con i produttori e un acquisto un po’ più consapevole e di sostegno ad un modello differente.
Sappiamo quali sono le criticità della grande distribuzione rispetto ai produttori che percepiscono più o meno il 10% del prezzo finale. I mercati della terra possono rappresentare un primo passo che quasi tutti potrebbero fare, così come scegliere negozi specifici. In quest’ultimo caso, tuttavia, esiste forse un tema economico perché spesso sono piuttosto costosi mentre i mercati della terra, che normalmente aprono molto presto al mattino, hanno dei prezzi assolutamente convenienti perché l’acquisto proviene direttamente dal produttore”