‘Using business as a force for good’. È il motto che, sotto la qualifica di BCorp, invita le aziende ad impegnarsi in attività che apportino benefici tangibili ad una comunità più vasta, alla società in generale e all’ambiente in particolare. Diventando BCorp, poco più di un mese fa, Cielo E Terra, azienda vinicola di Montorso Vicentino, ha visto sancito un impegno che la contraddistingue da anni. Come ci racconta Pierpaolo Cielo, vicepresidente dell’azienda.
“Era il contenitore che ci mancava, adatto a riunire le nostre attività a livello sociale, solidale ed ecologico. Ci siamo arrivati dopo un lungo lavoro – spiega – e abbiamo scelto la BCorp perché è una certificazione internazionale e si può mettere sul prodotto, io sono soprattutto un venditore e amo che i messaggi che ci riguardano possano andare direttamente sul prodotto, per valorizzarlo e per valorizzare il lavoro che facciamo tutti insieme. Chi compra è contento di fare una scelta sostenibile.
Abbiamo visto tra l’altro che i consumatori sono più sensibili degli intermediari. In Italia lavoriamo con i supermercati, all’estero con i classici importatori che vendono ai grossisti, poi i loro agenti portano il prodotto ai ristoranti. Trasferire il messaggio di sostenibilità lungo una filiera così lunga è veramente difficile, ecco perché dobbiamo averlo chiaramente dove il consumatore fa la sua scelta di acquisto.
Qual è la relazione tra le parole business e sostenibilità?
La prima sostenibilità deve essere quella economica, bisogna fare quadrare i conti.
Sfortunatamente, a fronte di alcune tipologie di prodotto, molte volte non si può chiedere un premium price al Trade. Faccio l’esempio dell’etichetta ‘Una bella storia’, un prodotto che parla direttamente di solidarietà ed è anche biologico, quindi, fa bene alla natura e alle persone. Abbiamo appena chiuso un accordo per circa 300 mila bottiglie su base annua con una catena di supermercati in Olanda che, però, voleva un posizionamento di prezzo molto competitivo, così abbiamo dovuto fare una scelta: invece che vini biologici, abbiamo optato per vini convenzionali, sempre tipicamente italiani. Con questo progetto si portano a casa fondi, è quello che ci siamo detti con la Onlus Murialdo World, destinataria del progetto, e quindi era meglio farlo.
Inoltre siamo partner del progetto 1% for the Planet, Fondazione nata dal brand di abbigliamento Patagonia per creare un movimento virtuoso di imprenditori e Ong: l’1% del venduto dei prodotti che portano il loro bollino viene dedicato a progetti sostenibili. Nel 2019, il primo anno, sempre con Murialdo World, abbiamo supportato la costruzione di pozzi d’acqua in Sierra Leone, quest’anno abbiamo scelto di unirci ai progetti acqua di Amref in Kenia: abbiamo spinto perché venissero accreditati anche se si occupano più di persone che di ambiente, pianeta e tutela delle persone sono temi molto connessi. Per l’emergenza che si è creata, abbiamo potuto fare poco, ma siamo riusciti a girare un video importante che spiega l’importanza del tema.
Voi siete nati impresa familiare…
Eravamo degli imbottigliatori, poi 20 anni fa il 51% delle quote è stato ceduto a una cooperativa locale composta da oltre 2000 viticoltori della provincia di Vicenza e Verona. Già quella è stata una scelta di sostenibilità: si è capito che era importante legarsi di più alla terra e da quel momento è iniziato un progetto con i viticoltori per garantire un prezzo più equo di filiera, cercando di stabilizzarlo per consentire ai soci di pianificare le culture che hanno tempi lunghi. Chiaramente, i nostri soci vogliono il reddito, ma vogliono anche un progetto sostenibile nel medio e lungo termine.
Quest’anno ad esempio, abbiamo presentato il Pinot grigio e il Prosecco certificati SQNP, una certificazione di sostenibilità del vino stesso; purtroppo con poco successo perché il mercato non ci ha consentito di fare fiere. Inoltre, diamo anche un contributo annuale ai soci per il progetto Altavia, che serve a valorizzare la viticoltura un po’ più complessa, direi eroica, quella d’alta collina dove c’è meno acqua, le produzioni sono più ridotte, ma la qualità è inversamente proporzionale alla quantità; se paghi il viticoltore solo per quello che ti porta in cantina non riesce ad avere una remunerazione adeguata e con il passaggio generazionale c’è il pericolo di perdere tutta la collina.
Quanto conta il legame con il territorio?
Il territorio è importante. Anche se c’è una visione diversa di cosa sia in Italia e all’estero. Fuori dal nostro Paese, siamo visti come una grande regione e vedere che una azienda ha sotto la stessa etichetta un Pinot del Veneto e un Chianti della Toscana non fa nessuna differenza. Lo stesso marchio toscano Ruffino, per non parlare solo di noi, dopo che è stato acquisito dalla più importante azienda vinicola americana ha iniziato a vendere sotto lo stesso nome anche Prosecco e Pinot grigio, facendo diventare il brand italiano, non più solo toscano e sta, comunque, valorizzando le filiere. Per valorizzare il territorio bisogna anche avere la flessibilità che i mercati chiedono.
Voi però avete scelto un radicamento.
Abbiamo messo un bel chiodo fisso, come si dice qua, nel cuore del Veneto, con un portafoglio molto diversificato grazie alla nostra cooperativa che ci fornisce più del 50% del prodotto che commercializziamo. Al tempo stesso, come dicevo, proprio per dare un servizio al mercato facciamo anche altro. I prodotti biologici, ad esempio, in Veneto e nel nord Italia in generale fanno fatica a svilupparsi perché ci sono molta pioggia e umidità. Visto che il mercato chiede anche questa tipologia di vini biologici si va nel Sud Italia, territori fantastici come la Sicilia, la Puglia, l’Abruzzo.
In Veneto è meglio fare viticoltura sostenibile, che è un’altra cosa.
Cosa intende per viticoltura sostenibile?
Si tratta di una viticoltura che segue i protocolli SQNPI – Sistemi di Qualità nazionale di produzione integrata – che indicano i criteri d’intervento, le soluzioni agronomiche e le strategie da adottare per la difesa delle colture ed il controllo delle infestanti, nell’ottica di un minor impatto verso l’uomo e l’ambiente, consentendo di ottenere produzioni economicamente sostenibili. Ci sono Enti ufficiali che danno direttive e mettono a punto protocolli, ma bisogna controllare che vengano seguiti. La certificazione viticoltura sostenibile – che ha una piccola ape come logo -, serve proprio a chiudere il cerchio: a far sì che le direttive della lotta integrata (la pratica che crea condizioni sfavorevoli al propagarsi dei parassiti e infestanti, ndr) diano risultati.
Serve un’opera educational lungo la filiera?
Sì ed è un lavoro che fa soprattutto il partner cooperativo, ci vuole tanta sensibilizzazione perché in questi anni alcuni prodotti hanno perso valore e la questione resta sempre la sostenibilità della attività del viticoltore. Se non gli dai la motivazione, che vuol dire retribuirlo per stare fermo, invece di un Pinot grigio lui preferisce fare un vino bianco da tavola, dove produce quanto vuole. Se moltiplichi il prezzo per la quantità magari porta a casa di più che a produrre Pinot, anche perché, dopo che è passato da IGP a DOC un po’ di anni fa, moltissimi hanno piantato sperando che la doc del Pinot portasse mercato, e invece la conseguenza è stata un eccesso di offerta e il prezzo è crollato. Non è semplice, è un equilibrio il mercato. Stiamo parlando di persone che escono la mattina prestissimo e vanno nel campo, con sacrifici enormi, in più per cambiare un vigneto ci vogliono tre anni, un vigneto dovrebbe arrivare ai 15 anni di vita se non di più, per loro quindi è uno sforzo.
La cooperativa è voluta entrare in società con una azienda come la nostra per portare a casa più valore aggiunto e proprio per cercare di orientare i viticoltori al mercato. Non è facile, ma da 20 anni lavoriamo insieme ed è andata molto bene: è stato un primo esempio di partnership privato/cooperativa e siamo riusciti a gestirla molto bene, anche grazie ai soci cooperativi che hanno dimostrato molta lungimiranza.
Come comunicate e prendete decisioni?
I soci cooperativi sono nel nostro consiglio, l’operatività è in mano a mio cugino Luca, io seguo più la parte marketing commerciale e seguo lo sviluppo di nuovi prodotti e poi abbiamo degli ottimi manager, perché ormai l’azienda conta 80 persone. La cooperativa non ha ruoli operativi, ma facciamo incontri ogni due o tre mesi in Cda e poi, al bisogno, si incontrano i responsabili di reparti differenti; ogni tanto presenzio anch’io per capire dove si vuole andare.
Tra i vostri valori c’è l’incoraggiamento di una ‘cultura propositiva’. Cosa significa?
È lo sforzo più grande. Da anni facciamo ‘Kaizen’, o lean management, il movimento del mondo Toyota che cerca di creare gruppi di lavoro per il continuo miglioramento di una attività, in modo da creare più valore e meno sprechi. Sviluppare la propositività delle persone è fondamentale, perché non si può più pensare che siano sempre i responsabili a tirare fuori l’idea vincente, il mercato è troppo veloce e dinamico ed è necessario che ciascuno ci metta del proprio, il che vuol dire imparare molto a delegare.
Noi, ad esempio, tre anni fa abbiamo creato la scatola delle idee, uno strumento semplice, ma che invoglia a fare proposte. Ogni anno scegliamo le tre migliori in base a 5 parametri tra cui sostenibilità, impatto su operatività e impatto su ambiente. Questo serve sia a tirar fuori idee da chi è operativo sul campo e, quindi, più competente di noi, sia a fare lavorare insieme le persone.
È un modo per tenere viva anche la motivazione delle persone?
Facciamo il possibile… abbiamo fatto anche questionari sull’ambiente. Va detto che la nostra azienda anche nella crisi del 2008 è andata bene, questo da un lato è positivo, perché abbiamo sempre garantito il lavoro a tutti, dall’altro quando le cose vanno sempre bene non ci si rende conto di quello che c’è là fuori. Si rischia di avere l’effetto contrario o di creare aspettative: l’azienda fa del suo meglio, ma non può fare felici tutti. Nell’ultimo anno abbiamo messo a disposizione anche un coach per chi vuole un confronto, abbiamo capito che era importante dare spazio a qualcosa che vada al di là del rapporto collaboratore e responsabile. È un tentativo, ho fatto anch’io un percorso perché tutto serve. Sono figure che ti aiutano a staccarti dall’operatività e a guardarti dall’esterno.
Sul tema del distacco, l’emergenza Covid ha creato nuove condizioni di lavoro chiamando in gioco autonomia e responsabilità. È qualcosa che avete vissuto?
Con la disperazione che ha portato, questo Covid ci ha però fatto fare un passo avanti di dieci anni. A partire dalle famose video conferenze che ti fanno girare il mondo, io ormai non parlo più al telefono perché la trovo una modalità molto più empatica, concreta ed efficace, anche per le riunioni di gruppo. E poi c’è lo smartworking, che dura ancora: abbiamo dato i computer a tutti quelli che potevano stare a casa, a rotazione, ed è una cosa che voglio mantenere, perché il modo di lavorare di una volta non ha più senso, per le persone e per l’ambiente. In azienda si deve venire, perché dobbiamo incontrarci, ma almeno un giorno o due a settimana si può tranquillamente lavorare a casa e vedo che le persone sono responsabili. Ovviamente dobbiamo arrivare a fare smartworking serio, questo è più telelavoro, dobbiamo strutturarci per la parte informatica e telefonica, ci vorrà un anno ma ci arriveremo.
Tra le altre vostre parole chiave c’è ‘economia circolare’
Si sta cercando di arrivare a riciclare il più possibile, quello delle risorse è sicuramente un tema importante. Nella partnership con 1% for the Planet siamo partiti dai pozzi, proprio perché la viticoltura ha un dispendio d’acqua incredibile, un litro di vino richiede 100 litri d’acqua. Anche in azienda stiamo cercando di ridurre il più possibile l’utilizzo dell’acqua, fin dove è possibile, perché abbiamo fatto degli esperimenti di riciclo che non sono andati a buon fine e siamo tornati indietro. E poi abbiamo fatto un accordo con il Comune per potenziare la raccolta differenziata.
Siete a contatto con la terra, è più facile per una azienda come la vostra capire l’importanza della sostenibilità, anche per il business?
Nella nostra zona ci sono un sacco di concerie e anche loro hanno un problema di sostenibilità enorme su cui stanno lavorando pesantemente; la nostra valle, uno dei distretti più grandi in Italia e nel mondo del pellame, è riuscita a restare sul mercato e a non essere fagocitata dai Paesi in via di sviluppo, dove costa meno produrre, proprio perché ha saputo innovare rispettando l’ambiente di più. E poi ci sono anche aziende industriali che fanno sostenibilità.
Quello che vedo, almeno nel nostro ambito, è che non c’è ancora un protocollo, un marchio unico diffuso e riconosciuto, ci sono troppi loghi, così accade che uno scriva nel suo sito la parola sostenibilità, ma può fare una cosa come ne può fare 100. La certificazione BCorp ha consentito anche di quantificare il livello di sostenibilità, noi abbiamo voluto fare sul serio, metterci alla prova, abbiamo iniziato a lavorare nel 2016 per portare a casa il risultato perché i punteggi erano molto stringenti. Ci siamo riusciti e da qui andiamo avanti.
Oltre 30 anni di esperienza nel mondo del giornalismo e della comunicazione aziendale; da oltre 5 anni è consulente alla comunicazione positiva. Si occupa dello sviluppo della persona attraverso strumenti a mediazione artistica espressiva, come professional counselor a mediazione corporea e teatrale