‘Non mollare mai’ è il motto di Simona Maggini, CEO di VMLY&R Italy. Un invito che sembra ancora più necessario, nello scenario difficile che il nostro Paese e il mondo si trovano a vivere. Pragmatismo e ascolto sono le parole chiave che secondo la manager
stanno caratterizzando l’approccio delle aziende, in particolare nell’attenzione alla salute dei propri dipendenti.
Abbiamo parlato con lei di questo e di come l’agenzia che guida affronti le sfide di una nuova era, in cui, forse, la logica del profitto non può più dominare incontrastata.
Lo scorso anno, 200 Ceo di aziende internazionali riuniti nella’business round-table’ hanno messo nero su bianco che il benessere dei lavoratori viene prima del profitto. questa virata, nel periodo drammatico che stiamo vivendo, assume ancora più significato?
La logica del profitto come unica e sola definizione del successo aziendale è arrivata alla fine di un ciclo; si tratta di una dinamica arida che non tiene conto di una serie di aspetti emersi grazie a fenomeni come l’empowerment femminile e la diversity, o come la
sostenibilità, che hanno messo l’accento su temi più legati allo human capital e al rispetto delle persone e dell’ecosistema in cui viviamo. Simon Sinek lo ha ben spiegato con la sua teoria sui ‘goldencircles’:
il perché dell’esistenza di una azienda non è produrre
profitto, quello è il risultato finale
Ancora di più adesso in piena crisi da Covid-19, le aziende hanno a cuore in primis la salute dei propri dipendenti e prevale un sano pragmatismo, con grande attenzione all’ascolto. Tutte le aziende italiane stanno ora aiutando il paese con generosità e soprattutto con grande senso di solidarietà e mi auguro che questi meccanismi virtuosi rimangano validi anche quando la crisi sarà stata superata.
Nell’ultimo Summit della vostra holding Wpp (lo scorso novembre) avete posto l’attenzione su un nuovo ruolo per la comunicazione.
Temi che hanno uno sfondo sociale, che siano il rispetto per l’ambiente o il valore dello Human Capital, dovrebbero trovare spazio nel lavoro di chi fa comunicazione. Noi comunicatori oggi sentiamo molto il peso dell’impatto sociale o comportamentale dei
nostri messaggi. La comunicazione ha settato standard di bellezza femminile, modelli di famiglia e relazione all’interno della coppia, ma la coscienza di tutto questo è spesso mancata. Oggi, da un lato, le marche devono essere in grado di occuparsi anche di altri aspetti oltre all’offerta commerciale; allo stesso tempo, noi dobbiamo saper trasferire, nei personaggi e nelle storie che raccontiamo, modelli di comportamento più contemporanei e adeguati ai valori che vogliamo lasciare alle generazioni future.
L’industry è già in questa fase?
Per essere totalmente onesta, non c’è una volontà precisa o espressa di volerlo fare, c’è però da rilevare un trend registrato da alcuni anni, visibile nel famoso Festival della pubblicità di Cannes: award e maggiore visibilità sono andati a progetti che nella loro comunicazione hanno valorizzato l’aspetto di ‘brand as a service’.
A volte qualcuno fa da traino, a volte semplicemente le cose accadono fuori di noi e non si può evitare di farne parte, pena l’esclusione dal contesto. È successo anche con l’avvento del digitale: c’è chi l’ha cavalcato, chi l’ha capito e chi non l’ha capito, ma tutti ne siamo parte.
Questo all’esterno. E all’interno delle organizzazioni?
Più di tante altre attività economiche, noi abbiamo un solo asset, le persone: produciamo pensiero, idee, questa è la nostra vera e unica ricchezza.
Il valore dello human capital dovrebbe però dominare
tutti i tipi di impresa
I grandi player hanno più urgenza, perché sono sotto la lente di ingrandimento della comunità economico- finanziaria, degli azionisti, dei clienti e dei fornitori, ma non dovrebbero esistere eccezioni e le dimensioni del business non dovrebbero essere escludenti per alcune tematiche così fondanti. Anche perché i cosiddetti millennials, e ancora di più la generazione più giovane, la Z, non accettano più la mancanza di
attenzione per il benessere psicofisico dei lavoratori e per la piacevolezza del luogo di lavoro: per queste generazioni l’etica e la sostenibilità sono determinanti per le loro scelte.
In una industry sotto pressione economica da anni, non è facilissimo supportare e promuovere il talent management, ma noi cerchiamo di farlo con grande dedizione e impegno.
Come?
Gestendo una dimensione di cui si parla pochissimo: quella della cultura aziendale.
Avere una cultura aziendale vuol dire fare in modo che tutto lo staff ne condivida i valori e li viva ogni giorno. Diffonderla non è semplice; purtroppo ci sono pochi mezzi e poco tempo. Molto banalmente, serve qualcuno che ci creda e si dedichi con costanza: per ora è toccato a me.
In VMLY&R siamo avvantaggiati da una dimensione di network molto ricca e condivisa. Ma senza dedizione nulla accade: è una parte del mio lavoro quotidiano, a cui dedico lo
stesso livello di impegno e passione che a tutto il resto. La diffusione di una company culture richiede pazienza, con un processo più bottom up che top down, perché è importante che le persone vi aderiscano e si sentano parte del progetto.
Cosa è Winspire?
È una attività a livello di Gruppo WPP rivolta all’interno, nata per l’empowerment delle giovani donne tre anni fa e rapidamente evoluta verso un programma di next generation leadership senza nessuna differenza tra generi, né funzioni. Spesso accade che gli obiettivi professionali non vengono raggiunti perché non si hanno gli strumenti per gestire la propria crescita anche personale e psicologica. Il senso dell’attività di Winspire è esattamente
questo: supportare, senza costi e senza aggravi sul tempo fuori dall’ufficio, il percorso olistico di un dipendente con attività di coaching, mentoring, self management e worklife balance.
Come funziona?
Si basa su un piccolo gruppo di volontari che annualmente sviluppa una serie di iniziative nelle aree citate qui sopra. È cross-function, cross- company e si avvale di due partner forti, Google e Facebook, che ci hanno aiutato a costruire una serie di attività di training,
soprattutto nell’area digitale. L’area poi di coaching e mentoring è invece autogestita all’interno di WPP. Abbiamo anche creato una sorta di community interna che si raduna su base bimestrale: un modo per favorire scambi tra persone che non si frequentano tutti i giorni.
La questione femminile resta ancora centrale. Si dice che in azienda
se una donna sa 10 chiede per 5 se un uomo sa 5 chiede per 10…
Io stessa sono stata così. E’ qualcosa di ancestrale; la realtà è questa e le donne devono lavorare molto per rafforzarsi. Molto è stato fatto, ma c’è ancora tantissimo da fare. Soprattutto se pensiamo a paesi in cui la violenza e la prevaricazione sono all’ordine del giorno.
Ma nel mondo occidentale, al netto di qualche sbavatura, mi piace pensare che questo tema sia stato svolto e si possa voltare pagina.
A fronte di maggiore attenzione allo Human Capital, è cambiato il
livello di soddisfazione delle persone?
È una dinamica ondivaga, le persone sono influenzate dal proprio carattere: ci sono gli scontenti e gli ottimisti per definizione, ci sono i neutri e questo vale in tutte le epoche, per tutte le generazioni e in tutte le aziende.
È sempre difficile avere un’autentica percezione di sè: se penso ai miei primi anni in questa industry, ricordo una generazione di giovani molto diversa da quella attuale. Eravamo sicuramente orientati ad un certo ‘doverismo’ by definition e molto votati al sacrificio.
Adesso la generazione di giovani e giovani adulti è incostante, fluida, è difficile tenerli su un percorso per qualche anno, sono molto instabili. Anche perché, pur sapendo che in Italia la mobilità è relativa, il mondo del lavoro è molto cambiato: la minore ossessione del posto fisso genera una impazienza maggiore, ma anche una maggiore flessibilità.
Per un leader è impegnativo.
La gestione delle persone è decisamente molto impegnativa. È un lavoro quotidiano, non ci sono pause, non si può rimandare e bisogna trovare anche un equilibrio tra autorevolezza ed empatia, soprattutto con queste nuove generazioni bisognose di un confronto orizzontale, che però non deve sfociare nell’anarchia. Si deve riuscire a essere un punto di riferimento positivo, essere ascoltati e dare delle motivazioni per una mole di lavoro non indifferente.
C’è anche un tema di dialogo generazionale?
La comunicazione è un comparto abbastanza giovane, quasi il 70% dello staff della nostra agenzia ha circa 30 anni. Per chi appartiene ad altre generazioni non è una relazione semplice e richiede grande apertura. Bisogna prima ascoltare e capire, poi dire o fare,
diversamente dal modello di leadership a cui siamo abituati. Per riuscire a dare messaggi che nella forma e nel contenuto siano ben recepiti è necessario un lavoro di intelligence emotiva, oltre che professionale. E poi, ci si deve preparare a un dialogo continuo, che
si adatti ad un contesto fluido e in divenire.
Lei ha portato in agenzia la parola chiave ‘Connected’.
Avendo lavorato all’estero e facendo parte di una holding in cui tanti colleghi si occupano di altre discipline, ho sempre creduto nella ricchezza dello scambio e nella contaminazione. Come sopra, bisogna dedicarci tempo: non si tratta di incontrare qualcuno in corridoio e scambiare una battuta, ma di creare una dinamica win-win in cui tutti possano trarne un vantaggio, un arricchimento.
Fare squadra è sempre positivo e se si fa con persone diverse culturalmente, si crea un effetto moltiplicatore del risultato.
Stiamo sempre parlando di business…
Assolutamente, non dobbiamo fare per forza i filantropi.
Lavorare sullo Human Capital, creare un ambiente di lavoro soddisfacente, lavorare bene
sul networking, rispettare l’ambiente sono tutti elementi che migliorano la produttività.
Quindi, al netto della profonda convinzione del valore di tutto questo, non dobbiamo
nasconderci che si tratta di approcci e strumenti che contribuiscono a migliorare il risultato
finale, che sia rendimento, o, nel nostro caso, anche la creatività.
Questo approccio libera nuove energie nei manager?
Sicuramente, come tutti i cambiamenti. Se li si osserva e li si gestisce con la giusta prospettiva, sono forieri di opportunità, anche se sono spesso difficili. Se si riesce a districarsi nella complicazione ci sono opportunità per interagire diversamente e per
trovare modelli di business magari più sfidanti, ma anche più interessanti.
Detto tutto questo… Qualcuno, quando si vanno a vedere i budget, vi
chiede ‘le persone come sono state trattate?’.
Certo! Noi abbiamo una survey interna a livello global, ogni anno. In realtà ne abbiamo due: una sui clienti, più tecnica, da cui però spesso nascono osservazioni che hanno a che fare con le persone o con la cultura aziendale. E poi abbiamo una survey sul grado di
soddisfazione delle persone: io sono misurata anche su quello.
Un’ultima domanda: cosa significa comunicare positivo per Simona
Maggini?
Non mollare mai. Avrei voluto e potuto mollare un sacco di volte, ma non l’ho fatto.
E allora, soprattutto quando mi viene più voglia, mi ripeto di non mollare mai. A maggior ragione adesso.
E soprattutto, come ha detto oggi Mark Read, CEO WPP collegato online con tutto lo staff di WPP Italia,
“We’ll get out stronger
than before”.
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Oltre 30 anni di esperienza nel mondo del giornalismo e della comunicazione aziendale; da oltre 5 anni è consulente alla comunicazione positiva.Si occupa dello sviluppo della persona attraverso strumenti a mediazione artistica espressiva, come professional counselor a mediazione corporea e teatrale