Viviamo un’esperienza unica, mai vista prima, nemmeno immaginabile per i più (anche se qualche illuminato l’aveva prevista) e, per giunta, globale. Questo ha stimolato la produzione di innumerevoli articoli, interviste e dirette. C’è fame di informazioni, di chiarezza e soprattutto di previsioni. Facciamo i bravi, stiamo in casa, ma abbiamo bisogno di sapere: quando finirà, cosa succederà. Soprattutto, ci si chiede cosa il Coronavirus ci lascerà quando deciderà di togliere il disturbo, come ci sta cambiando. Le menti pensanti del paese si attivano per provare a rispondere.
Quello che ho potuto leggere e sentire può essere, forse un po’ semplicisticamente, suddiviso in due grandi categorie: ottimistica e pessimistica. C’è chi sottolinea gli aspetti negativi: l’effetto traumatico sulla popolazione, il distanziamento sociale che rimarrà iscritto nelle nostre modalità relazionali, la crisi economica che ci attende… Altri cercano di enfatizzare i lati positivi: il rinforzo del senso di unione e appartenenza, i gesti di altruismo e solidarietà, la riscoperta del valore dei rapporti umani, i vantaggi della tecnologia con cui siamo costretti a familiarizzare.
Nel panorama generale penso che non si possa prescindere da alcuni dati di fatto: il numero elevato di vittime e quindi il lutto che tocca così tante famiglie, la sofferenza di chi è stato colpito più duramente dalla malattia, l’impatto su chi è stato coinvolto direttamente, a cominciare dal personale sanitario, e l’impoverimento generale che sarà inevitabile.
Non voglio nemmeno dare peso ai fenomeni di bizzarra euforia collettiva che ci ha portati a cantare dai balconi, esporre bandiere e accendere candele nei primi giorni di emergenza.
Si è trattato di un fenomeno passeggero, già superato, da ascrivere alla reazione scomposta e impulsiva di contrasto alla paura e allo sgomento.
Dal mio piccolo osservatorio di psicoterapeuta posso però constatare che le cose, almeno per il momento, vanno bene, magari non per tutti ma per molti
Dal mio piccolo osservatorio di psicoterapeuta, che non pretende di avere alcun valore scientifico o statistico, posso però constatare che le cose, almeno per il momento, vanno bene, magari non per tutti ma per molti.
Le mie osservazioni si basano principalmente sui miei contatti diretti e quindi sulle persone che conosco, sui pazienti che continuo a seguire con le modalità a distanza e sui racconti dei tanti colleghi con cui quotidianamente mi confronto.
Non voglio trascurare tutte le situazioni critiche che certamente esistono; si pensi ai gravi conflitti famigliari, ai casi di violenza domestica o a chi si prende cura di persone con disabilità fisica e soprattutto psichica.
Ma, al netto di circostanze particolari, ciò che si rileva è un’insperata tendenza positiva.
La gente ‘molti di noi’ sta bene, inaspettatamente bene!
Questa è la novità che rimbalza nelle telefonate, nelle chat e nelle videoconferenze.
La ragione di tutto ciò è difficile da individuare con sicurezza e non si possono fare che mere ipotesi, la cui verifica probabilmente sarà possibile solo a posteriori.
Per cominciare bisogna considerare l’impatto di un pericolo esterno, forse poco tangibile ma minaccioso e insidioso, a fronte del quale, come si sa, gli esseri umani mettono in moto strategie di alleanza e coesione; ci si stringe insomma, ci si compatta contro il nemico esterno verso il quale si possono così convogliare paure e aggressività, con il conseguente vantaggio di poterle mettere, per così dire, fuori dalla porta (che sia la porta fisica di casa o quella metaforica della nostra mente).
Oltre a ciò è possibile che le persone, costrette a fermarsi, abbiano riscoperto alcuni aspetti della vita che nella normale routine quotidiana non trovano posto.
I figli sono sereni. Certo, hanno subito la grave perdita della partecipazione scolastica e della relazione con i pari, ma si godono una dimensione famigliare che forse non hanno mai sperimentato, se non nei brevi periodi di vacanza. I bambini sono contenti di avere il papà e/o la mamma finalmente a casa, disposti a giocare, a impastare pizze e torte, a trascorrere del tempo insieme. Gli adolescenti si annoiano certo, mantengono la loro tendenza centrifuga rispetto alla famiglia, ma in gran maggioranza hanno sotterrato le armi e mostrano un lato più conciliante, una maggiore disponibilità al dialogo e alla collaborazione, consapevoli forse che là fuori, almeno per il momento, non c’è niente di ciò che abitualmente li attrae irresistibilmente nella loro fame di sperimentazione e socialità.
E gli adulti hanno rallentato. Anche chi lavora da casa può godere di tempi più lenti, si riappropria della dimensione familiare, si trova a relazionarsi con i cari a cui di solito dedica una parte così esigua della propria settimana. Non c’è la corsa a prendere il treno, a imboccare l’autostrada prima dell’ora di punta, a far quadrare la riunione di lavoro, la spesa, il colloquio con gli insegnanti e la palestra; non c’è più la tensione costante a far convivere la vita professionale, famigliare e sociale stipando impegni in agende strapiene e in giornate che ci vedono costantemente ingaggiati in una rincorsa affannosa.
In fase di lockdown le preoccupazioni non mancano ma lo stress è evaporato
I ritmi forsennati a cui siamo abituati, e che forse costituiscono almeno una parte del nostro malessere, hanno subito una brusca frenata e questo ci lascia più tempo per pensare, per confrontarci con noi stessi, per guardarci dentro.
L’abituale modo di vivere infatti ci è, almeno in parte, imposto dalla società, dalla cultura, dalle richieste del mondo che ci circonda, ma finisce spesso per diventare anche un pretesto, un velo protettivo, che ci autorizza a eludere il nostro stesso sguardo e ad abdicare alla riflessione introspettiva.
Ora non possiamo più scappare. Non possiamo evitare di entrare in contatto con noi stessi e considerare ciò che siamo, a valutare come va la nostra vita, quanto siamo soddisfatti di ciò che abbiamo e delle scelte fatte. Mai come ora la nostra esistenza è davanti ai nostri occhi.
Non è facile, anzi, fa paura. Non è detto che ciò che vediamo ci piaccia; può darsi che susciti amarezza, disillusione, frustrazione o addirittura sentimenti depressivi.
Ma ci obbliga a un grado di consapevolezza che spesso evitiamo.
Ecco cosa il Coronavirus potrebbe lasciarci: la possibilità di abbandonare le modalità frenetiche della fuga e la capacità di entrare in contatto con noi stessi in modo più autentico; e nei casi più fortunati la motivazione a mettere in moto meccanismi di cambiamento virtuoso.
Silvia Girola (Psicologa – Psicoterapeuta)