In un momento in cui le nozze non si festeggiano, il lutto non si celebra e i defunti non si accompagnano nell’ultimo saluto, raccontiamo un progetto artistico che l’estate scorsa ha reinterpretato la ritualità della lamentazione funebre come strumento per attivare energie vitali collettive. Ripensare il rito funebre come passaggio alla vita ci ricorda oggi più che mai come, in un qualche momento e in qualche modo, portare se stessi e i propri cari nell’espressione delle proprie emozioni, segna il primo passo nel percorso di risanamento dei propri sentimenti. E laddove non sia possibile fare insieme quell’ultimo pezzo di strada, unisce il ricordo, il cui significato è ‘riportare al cuore’, e da quel punto ripartire.
A mettere in scena il momento della perdita, crisi alla quale la morte ci confronta, e di un dolore che la vita in quanto tale propone nel suo opposto, trasformandolo in un progetto di arte partecipata, è Trenodía, un corteo come forma d’arte di Mariangela e Vinicio Capossela. Realizzata da maggio ad agosto dello scorso anno in seno a Matera Capitale Europea della Cultura 2019 e co-prodotta dalla Fondazione Matera Basilicata 2019 & Sponzfest Sottaterra 2019, quest’opera d’arte partecipata mette al centro dello spazio pubblico la collettività, l’elaborazione del lutto per tutto ciò che nella nostra società è morto o é in pericolo di vita. Riconoscendosi in un’emozione e con la forza della comunità le persone esprimono e ritrovano se stesse, nella gioia e nel dolore.
A raccontarci l’esperienza Trenodía l’artista Mariangela Capossela e il cantante banditore Andrea Tartaglia.
L’attuale momento storico ci mette a confronto con paure ataviche. Che cosa suggerisce il progetto Trenodìa in ottica di comprensione e restituzione dell’esperienza collettiva che stiamo vivendo?
M.C. Trenodía è un’opera concepita l’anno scorso come risposta a una crisi culturale, sociale e ambientale. Alla base della sua elaborazione c’era un sentimento di morte, di perdita di cose fondamentali della dimensione umana. I suoi “oggetti del compianto” erano immateriali o facenti parte dello spazio naturale. Oggi, la morte al centro delle nostre preoccupazioni è quella biologica, che tocca migliaia di persone su scala mondiale. La realtà è quindi completamente diversa da quella nella quale abbiamo vissuto fino a poche settimane fa, è anzi stravolta. E tutto assume significati diversi, imbricati a dinamiche sociali mai sperimentate prima, dalla soppressione generalizzata della libertà, allo stravolgimento del significato di contatto divenuto sinonimo di contagio, alla diffusione mondiale della paura. E soprattutto, assistiamo impotenti a nuove dinamiche relative alla morte, in cui perdiamo persone care senza poterle assistere né celebrarne il funerale. Ma dunque, mai come in questo momento, una riflessione sulla morte e sulla vita si impone. Il confronto con la ritualità che sta al centro di Trenodía, è oggi stravolto da una soppressione per legge del rito funebre. Rispetto al contesto in cui Trenodía è stata pensata, in cui tra gli oggetti del compianto rientrava anche la perdita della dimensione rituale nelle nostre vite, la morte imposta del rito funebre fa riflettere in modo più drammatico ai mezzi a nostra disposizione oggi per elaborare il lutto. Ma questa situazione invita più che mai a ripensare il valore vitale del rito come mezzo di condivisione del dolore a livello comunitario. Proprio perché questa possibilità oggi ci è preclusa, appare con maggior chiarezza quanto sia fondamentale socialmente la funzione espiatoria del piangere insieme per non morire con ciò che muore, iscritta nel lamento rituale teorizzato dall’antropologo Ernesto De Martino. Mai come oggi la realtà ci invita a ripensare la vita al di là dei confini di vita biologica, “nuda vita” spogliata le sue istanze sociali e culturali. Ognuno dalla sua reclusione manifesta virtualmente la necessità di fare unione per oltrepassare la crisi. L’esperienza di Trenodía forse può aiutare a capire questo valore vitale nei termini propri all’azione artistica, con tutti i suoi limiti ma anche con tutto il potenziale del linguaggio estetico e poetico, con la visionarietà e l’energia di formare insieme un’opera d’arte per rielaborare la crisi collettivamente. Trenodía offre uno spunto, una forma artistica di “stare insieme” con l’intento di andare oltre.
Trenodía è un’opera d’arte interdisciplinare che mescola letteratura, musica, arti visive e performative. Qual è il bisogno individuale e sociale a cui risponde il progetto?
M.C: L’arte si genera attraverso le visioni: l’artista si dirige verso la realizzazione di un’opera mosso dal desiderio di avvicinarvisi sempre di più e finisce per volerle manifestare, renderle alla realtà, al mondo circostante. Il bisogno, se bisogno c’é nella creazione, è questa attrazione verso l’esternazione di qualcosa che si è percepito in modo onirico e sfuggente. Il primo appello di un artista è forse una risposta a questo movimento di rincorsa verso l’inafferrabile che cela un’ombra comune, un sentimento del tempo condivisibile perché presente. Da un punto di vista più conscio della realtà, Trenodía è un gesto fisico collettivo che unisce persone e generi artistici in un movimento pubblico per significare il lutto che ci avvolge in questo momento storico e ritrovare la forza vitale, attraverso il rituale della lamentazione funebre. Il bisogno, da svegli, è quello di unirsi per fare emergere ed esprimere, attraverso diversi linguaggi artistici, un sentimento condiviso che non ha mezzi per dirsi pubblicamente e collettivamente. Il bisogno di inventare un nuovo canto poetico pluridisciplinare, per trasformare la lamentela in pianto rituale, il piagnisteo in altisonante lamentazione collettiva, in forza creatrice e aggregatrice per, come dice Ernesto De Martino, potersi rialzare e tornare ai doveri della vita.
Trenodía è un corteo che trasforma la perdita in coscienza civile. Quanto il simbolo e la metafora possono intervenire sulle nostre rappresentazioni della realtà e come possono influire per modificarla?
M.C. C’é un lavoro quotidiano di imbarbarimento della realtà, un candeggio delle coscienze attraverso i mezzi di comunicazione che per forza di cose usano simboli e metafore che sono parte integrante del linguaggio. Se manca il senso critico però restano simboli e metafore con un unico significato, un solo livello di lettura. Se si perde il senso critico vengono a mancare i presupposti per il rispetto e la dignità. Se è assente l’innocenza intesa come sguardo non assuefatto a una lettura ridotta del mondo, il mondo sarà solo ‘cose’, se svanisce il sogno come matrice surreale per vedere il mondo da un’altra prospettiva il desiderio da forza vitale sarà solo voglia. Il corteo di Trenodía lamenta queste perdite in modo performativo facendo sì che non restino perdite inerti. La forma rituale innesca infatti un’energia collettiva che fa sperimentare alla comunità (che viene a formarsi nel corteo) un senso altro dello stare al mondo. Si parte dal simbolo ma si va oltre, incarnandolo nella vita, nei corpi nei luoghi.
Banditore di Trenodía durante lo SponzFest 2019: ci racconta l’ esperienza di condurre centinaia di persone nella rappresentazione di un corteo funebre?
A. T: Condurre l’emotività del corteo attraverso canti e voci è stata un’esperienza molto profonda. Incontrare tante persone con energie diverse e età varie, tutte concentrate sul tema della morte intesa come perdita etica dei valori, ma anche morte così come la intendiamo generalmente, mi ha fatto scoprire quanto sia importante la collettivizzazione del dolore. Molte persone che hanno partecipato al corteo attraverso questa pratica rituale sono riuscite a esprimere emozioni al di là di quello che avevamo immaginato. C’era una donna che aveva abortito a sei mesi di gravidanza e ci ha ringraziato perché quel giorno si stava in un modo o nell’altro liberando. Questo testimonia quanto questo tipo di rituale faccia entrare profondamente in riflessione e al tempo stesso in un dolore condiviso: non sei solo a soffrire. La potenza di Trenodía è collettivizzare il dolore, passaggio fondamentale e ormai perso nella nostra società. Dopo un po’ di tempo sono stato a Campotosto, comune vicino ad Amatrice, uno dei luoghi colpiti dal terremoto dell’Aquila, nel 2009 e nel 2016/2017. Mi raccontavano alcuni abitanti che nel 2009 sono stati messi dalla protezione civile tutti insieme e questa unione li aveva aiutati a superare il momento. Durante i terremoti successivi le persone sono state dislocate, non solo si sono sentite sole ma si sono creati dissapori, perché non confrontandosi si crea contrasto. Essere divisi ha portato a esprimere la tendenza alla paura, mentre lo stare insieme ha fatto sì che si sentissero più uniti nel problema, a sentirsi come una famiglia e a vedere l’opportunità in un momento tragico.
Il territorio in Trenodía è parte integrante della narrazione. Le radici affondano nella terra e nella tradizione. È possibile pensare di portare Trenodìa in altri contesti?
M.C: Il rito funebre è il primo rito dell’umanità. Ogni cultura lo ha espresso in forme diverse ma il punto di partenza è lo stesso: fare fronte alla crisi più drammatica, quella senza ritorno provocata dalla morte. Partendo da questo presupposto, vista la crisi planetaria in cui ci troviamo, Trenodía è un’opera che può proporsi in ogni luogo della terra e dare vita ad un’opera sempre diversa perché diverse saranno le persone che l’animeranno. Nel Sud Italia nel 2019 Trenodía ha avuto un senso particolarmente vicino alla tradizione dei luoghi in cui si è realizzata perché si legava alla Capitale Europea della Cultura: Matera, città simbolo per tanti anni dell’arretratezza grazie al grande malinteso di una lettura progressista della storia che ha fatto un’amalgama della povertà materiale e di quella culturale. La sua elezione di capitale della cultura è stato un segno importante per deviare da tale visione e per invitare a vedere ricchezze diverse da quella prettamente economica. Trenodía ha permesso di tuffarsi nell’ombra più profonda delle ricchezze della tradizione vista come matrice della cultura e non certo come folklore, nel caso specifico quella della lamentazione funebre studiata da De Martino proprio in Basilicata. Ma il nero della Trenodía va ben oltre una rivisitazione della tradizione. La tradizione leggibile da tutti in questi luoghi è servita solo da porta di accesso per svelare – togliere il velo – e vedere un nero più denso che ci ricopre, un petrolio denso d’innumerevoli morti immateriali che segnano non individui singoli ma l’umanità tutta. Declinare Trenodía in altri contesti significa tenere conto delle specificità culturali scegliendo gli elementi della narrazione (canti, gesti, brani letterari e colori per il corteo o altri elementi non esplorati nel 2019) che permettano la stessa accessibilità e servano da porte rituali: un passaggio verso una pluralità di significati.
Nelle grandi metropoli forse sarebbe più difficile la realizzazione di questo progetto che avverrebbe in un tessuto sociale più contaminato ma per altri versi molto interessante e reattivo. Quale alternativa può rappresentare l’arte pubblica nelle grandi città?
M.C. Trenodía è un ‘corteo come forma d’arte’. In città come nei paesi, le manifestazioni collettive per esprimere opinioni e sentimenti hanno forme che si sono cristallizzate nelle manifestazioni politiche, nelle processioni religiose o a volte laiche. L’intento di Trenodía è quello di attingere alla grande energia che si forma quando si scende per strada insieme, uniti dalla stessa idea. In questo caso la condizione primaria è essere tutti un’espressione artistica, portare sul suolo pubblico un’opera d’arte incarnata. La differenza tra la grande città o il paese è una questione di proporzione e di percezione. Per funzionare ed essere percepita come in un paese, in una grande città Trenodía ha bisogno delle adeguate proporzioni spaziali e temporali. Il tessuto sociale metropolitano è più frammentato e richiede quindi un lavoro di coinvolgimento più lungo. La diversità culturale è presente anche nei paesi, e può facilmente essere resa pubblica attraverso l’uso delle diverse lingue presenti, cosa che Trenodía ha già sperimentato utilizzando i diversi dialetti delle tre regioni, l’arabo (Tricarico), l’inglese (Calitri) e il grecanico (Calabria). L’alternativa dell’arte pubblica in città è quella di fare uscire l’arte dagli spazi ai quali è stata assegnata, dal suo confinamento reale e simbolico e fare circolare l’energia che può sprigionare. Sicuramente, dopo la crisi legata all’epidemia, sarà necessario rileggerne le conseguenze sul piano sociale e nel contesto dell’arte e riadattare il progetto alla nuova realtà.
Come è mutata la percezione della sua arte in seguito a Trenodía?
A.T: Fare quest’esperienza che sprofonda in un tema forte è stata un’occasione per mettermi alla prova con una parte di me che è sempre esistita ma era un po’ atrofizzata. Approfondire questo aspetto in Trenodía con l’esperienza di Vinicio (Capossela ndr), che invece da sempre approfondisce e non si preoccupa della superficialità comune, è stato un bel modo di riscoprirmi e di verificare come si possa lavorare senza preoccuparsi troppo del pubblico, dell’utenza. Il problema non è che la gente non voglia ascoltare temi forti, ma che spesso non le vengano serviti e quindi si abitui a temi superficiali. Sul palco utilizzo molto la comunicazione diretta con il pubblico. Con la Trenodía questo approccio è stato estremizzato, l’ambientazione e la suggestione create da tutto quello che c’era intorno erano molto più forti. Quando sei sul palco è la musica che mette le persone in sintonia: un accordo felice allinea le persone su un sorriso, un accordo triste fa il contrario. In questo caso la forte suggestione e l’ambientazione permettevano alle persone di entrare profondamente in questo rituale artistico.
La rappresentazione artistica performativa porta con sé una variabile, che è quella umana. Qual è la dimensione umana incontrata durante Trenodía?
M.C: La dimensione umana è tutto in Trenodía. Si parte da un’idea, la si struttura ma l’opera avviene solo grazie alle persone che vi prendono parte a tutti i livelli, da quello organizzativo a quello performativo, sia degli artisti che dei cittadini. Le variabili dipendono dunque dai diversi settori di intervento e dal grado di sfinimento dei creatori! Nelle tre regioni percorse in questa prima esperienza di Trenodía la risposta agli appelli è stata incredibilmente intensa. Proprio perché si toccava ad una sorta di tabù, le persone che hanno aderito lo hanno fatto completamente, con grande generosità e senza freni. Anche se può sembrare che nell’arte partecipata lo scoglio più insormontabile sia la partecipazione, al contrario, l’elemento più delicato spesso risiede nelle giuste modalità di contenimento.
Che cosa le hanno restituito i volti che ha incontrato durante Trenodía?
A.T: Emozioni, tante e belle. Guidare tante persone attraverso vari percorsi e avere la loro fiducia e una risposta totale è stato sicuramente intenso. Penso che questo tipo di rituale abbia azzerato tutte le differenze sociali e di età, di fronte al dolore siamo tutti bambini.
La trasformazione dei riti associati alla morte in espressioni artistiche dà la visione dell’oltre. L’arte diviene un ponte per affrontare temi sensibili e delicati. Come rispondono le persone a questa forma di comunicazione?
M.C: Trenodía ha ri-attinto dal rituale funebre diversi elementi: il mettere a lutto attraverso la tintura, il corteo funebre e il banchetto funebre. Queste tre componenti sono però state effettivamente trasformate in primo luogo per andare oltre quello che erano all’origine e diventare opera d’arte. Questo primo sconfinamento ha portato tutto il discorso soggiacente a sublimarsi in poetica, per accedere a un piano della percezione del senso non più razionale ma emozionale. Per gli spettatori la fruizione ha toccato corde sensibili a livello estetico, come in una qualsiasi fruizione estetica (arte o spettacolo) ma con la variante importante di un effetto specchio. Era chiaro a tutti che Trenodía non rientrava nelle categorie conosciute, non era né uno spettacolo teatrale, né un concerto, né una danza, né un quadro. Né un vero rituale funebre. Questa incertezza in cui mettere lo spettatore era sicuramente la forza su cui abbiamo fatto leva per destabilizzarlo e ricentrare il ruolo di ognuno su se stesso e percepire i performers (comuni cittadini) come la propria immagine speculare in cui riconoscersi. Per i performers che hanno aderito l’incertezza si è giocata invece a monte, prima di iniziare, poi nell’azione abbiamo fatto corpo unico, in una sorta di trance in cui pensiero e corpo erano fusi e avvolti nel nero.
Cantante in evoluzione. È arrivato dove molti ambiscono e desidera andare ‘Oltre’, come dice anche il titolo di un tuo album. Che cosa significa per lei fare musica? Quanto i testi per ‘funzionare’ devono essere autentici, cioè espressione di un sentire sincero?
A.T: Essere autentici è fondamentale. Credo che in generale esistano due tipi di arte, una è quella che si fa per accontentare e l’altra si fa per nutrire. La musica non sincera non rimane nel tempo, mentre quella autentica è uno specchio del tempo che vive, è come se fosse un reperto anche dopo anni. Non sempre è facile cercare l’autenticità, si può anche scrivere in modo meno ispirato e fare cose belle o scrivere in modo più ispirato e fare cose che magari capiscono in pochi o nessuno. L’importante è mettere la passione e l’amore in quello che si crea. Auspico in un modo o nell’altro di essere un pioniere o quantomeno un ricercatore in quello che faccio. Utilizzo diversi tipi di linguaggio a seconda di quello che voglio esprimere. Non sono mai stato bravo a descrivermi, penso di non essere solo un cantante un musicista o un performer, ho varie vene e mi piace coltivarle tutte. Questa penso sia la mia forza ma anche la debolezza. Nel mondo artistico a volte è più semplice affermarsi quando si è ‘categorizzati’. Se ti impegni nel reggae o nel pop è più facile farsi inquadrare, quando si toccano più stili è più difficile collocarsi. Se da un lato è bello per chi ascolta, per chi deve inserirti nei vari tipi di manifestazioni diventa un po’ più complicato.
Qual è l’attenzione delle istituzioni ai linguaggi dell’arte?
M.C: Le istituzioni hanno spesso un ruolo di garante dell’ordine, ruolo molto utile all’arte per misurarsi al problema del limite. L’arte pubblica e partecipata ha il compito primario di chiamare a raccolta tutti gli attori dello spazio pubblico, anche le istituzioni che lo gestiscono, dai vertici fino alla base. Ognuno di questi gradi ha un’attenzione diversa perché diverse sono le preoccupazioni e le sensibilità. Dopo una verifica del rispetto delle norme che regolano l’uso dello spazio pubblico (una fase che può essere molto costruttiva alla strutturazione stessa dell’opera) in generale c’é una grande curiosità che può impennare e diventare entusiasmo oppure fermarsi ad uno stato di perplessità.
Giovane che parla ai giovani. Sente la responsabilità della parola?
A.T: Cerco di esprimermi per cercare di essere utile a chi può vivere una sofferenza come me, e allo stesso tempo se c’è uno stato di gioia, osservo il percorso che ho fatto per arrivare a viverla e lo racconto per far sì che ci sia un confronto, in modo tale che chi ascolta si possa sentire stimolato, aiutato e riconoscersi nello stesso percorso. L’ispirazione è istintiva, non si pensa alla responsabilità che si può avere. La cosa migliore è dire quello che si vuole dire.
Ci sarà un’edizione Trenodía in futuro quando sarà nuovamente possibile riunirsi?
M.C: In questo clima di estrema incertezza è difficile dirlo. Sicuramente, dopo l’epidemia, ci sarà un bisogno diffuso di oltrepassare la crisi, di reinventare la realtà. E l’arte è sicuramente chiamata a dare il suo contributo.
Come è la comunicazione tra i ragazzi oggi?
A.T: Penso che ci sia un forte problema oggi, che non è solo dei giovani ma anche dei grandi, da chi siamo stati educati. Ci sono realtà che sviluppano e sperimentano forme di comunicazione interpersonale diverse da quella che viene propinata da chi ci vuole emotivamente ed umanamente ignoranti. Siamo sempre più distanti l’uno dall’altro. Ci sono momenti che avvicinano, la musica come le altre arti hanno questa funzione fortunata, di poter sintonizzare le persone su un certo tipo di frequenza e consentire di riconoscersi in un’emozione collettiva. Nella nostra cultura manca l’idea di spendere del tempo insieme per comunicare davvero. L’esperienza di Trenodía mi ha confermato questo: le grandi emozioni sono collettive. Anche quando si vede un tramonto e ci si emoziona, si è con il tramonto, ma quando si è insieme ad altre persone le emozioni risuonano e inevitabilmente prendono forza.
le grandi emozioni sono collettive
Qual è il messaggio che porta con lei dall’esperienza di Trenodía?
M.C: i sono molte più persone desiderose della bellezza e della poesia di quanto non si creda, pronte a consacrare il loro tempo per l’arte, una cosa che tanti insistono a farci credere inutile.
Ci sono molte più persone desiderose della bellezza e della poesia di quanto non si creda
Nei suoi testi spesso, oltre alla spensieratezza, si intravede anche il viaggio, la scoperta e la ‘possibilità’. Che cosa significa per lei questa parola e quanto è testimoniata in Trenodía?
Non riesco a scrivere cose definitive che non aprano porte. Vivo e ho vissuto esperienze che mi hanno dimostrato che sperare in un futuro migliore per sé e per chi sta attorno sia l’unica forma di sopravvivenza.
Come è avvenuto in Trenodía, che mi ha lasciato la catarsi, la trasformazione.
Giornalista, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi attraverso strumenti a mediazione espressiva. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.