Valentina Pisanty

Valentina Pisanty: ‘guerra’ e ‘cooperazione’ non camminano insieme

Quando la intervistiamo (circa un paio di settimane fa nella prima fase di spaesamento collettiva rispetto al fenomeno Coronavirus), Valentina Pisanty si trova nella sua casa a Milano, ci dice di essere sempre in contatto con gli studenti dell’Università dove insegna, a Bergamo, “che stanno vivendo situazioni difficili”. Questa immersione in una dimensione centrata sull’esperienza dell’emergenza, delimita la premessa con cui affrontiamo l’intervista.
“Sono convinta che per fare delle analisi sensate si debba conquistare una posizione relativamente distante dagli eventi – esordisce -., in modo da non parlare sull’onda di emozioni che ci stanno travolgendo tutti. È molto difficile, per fare il mio mestiere, analizzare situazioni nel momento stesso in cui le si stanno vivendo, lo sforzo è quello di riuscire ad allontanare gli eventi per poterli guardare, se non con una neutralità emotiva, non è mai possibile, con il senso critico necessario.
Ci sono ritmi diversi legati alle varie professioni, un giornalista è tenuto a dare la sua interpretazione lì per lì, un analista, secondo me, può permettersi di fare depositare gli eventi e le rappresentazioni di quegli eventi”.

E mentre Pisanty traccia questa prima linea tra ‘l’affrettarsi’ e l’approfondire, mi chiedo se sia così necessario per un giornalista riempire i vuoti del tempo tra una notizia e l’altra con parole non sempre costruttive…
“Fatta tutta questa premessa, necessaria perché troppe persone stanno opinando in un momento in cui, nel migliore dei casi queste opinioni sono superflue – continua Pisanty -, possiamo iniziare l’intervista”.
Diamo un peso alle parole.  

È una studiosa del linguaggio, quale tra tutte le parole di questi mesi l’ha colpita di più?

Il mio chiodo fisso di questi giorni è la scelta a livello globale della metafora della GUERRA, mi chiedo se sia davvero quello che ci vuole per affrontare il fenomeno che ci sta coinvolgendo tutti. Non vedo la pertinenza di questa metafora, se non associata al fatto che molte persone muoiono.

Non si parlerebbe della guerra contro un terremoto… a mio avviso, questa scelta ha come controindicazione seria l’attivazione di aspettative che noi colleghiamo all’idea di guerra: vuole dire prima di tutto che ci siano dei nemici, che non sono il virus perché non ha una intenzione, ma dei nemici umani con un progetto distruttivo.

Accettiamo di comportarci come ci si comporta in guerra: militarizzandoci, nella testa oltre che nei fatti

Accettiamo forme di controllo che esulano dalla risoluzione dei problemi che di volta in volta ci troviamo ad affrontare. E proprio l’idea che ci comportiamo e pensiamo come si fa durante una guerra non aiuta a stimolare quello che, viceversa, dovrebbe essere l’impulso cooperativo, l’unico modo per venirne fuori: guerra e cooperazione non vanno bene insieme. Dentro a un frame guerresco si obbedisce agli ordini come un sol uomo, come richiesto dalle autorità superiori, in virtù del fatto che là fuori ci sono i nemici.
Qui chi sono i nemici? Gli altri Paesi? Quelli che non ci danno i respiratori? Quelli che non ci mandano le mascherine? O quelli a cui noi in futuro non manderemo i respiratori? Questo modo di ragionare comporta delle conseguenze nel modo profondo in cui percepiamo gli eventi e non sono sicura possano essere utili per affrontare adeguatamente il problema.

Perché si usa la metafora della guerra? Quale alternativa c’è?

Se dobbiamo pensare a eventi collettivi molto traumatici, nella nostra memoria andiamo a pescare il più vicino, quello con cui automaticamente abbiamo interpretato tutti i fatti che ci sono capitati negli ultimi decenni ed è la guerra. Anche al di là di ogni interpretazione intenzionalista di chi ci governa. Distinguiamo però tra intenzioni e conseguenze, non credo ci fossero intenzioni, le conseguenze però sono che, così, ci si può garantire quella forma di controllo sociale che soltanto lo stato di eccezione che la guerra implica può dare: sospendi le tue critiche, sospendi il tuo giudizio, fai come ti dico io, non ti preoccupare della sottrazione di libertà perché così si fa in tempo di guerra.
Non sto contestando le misure di distanziamento, sto riflettendo sul modo in cui vengono presentate. Su quale potrebbe essere una metafora alternativa, credo dovrebbe essere un modo di vedere le cose che enfatizzi l’aspetto collaborativo

la COOPERATIVITÀ, quello è l’istinto umano su cui si deve fare leva per venirne fuori

non tanto pensando a quali sono nemici, quanto pensando a come ci si aiuta.
Non ho pensato in termini di ingegneria semiotica a quale potrebbe essere la metafora giusta, però mi pare evidente che si deve andare in quella direzione e se ne veniamo fuori è grazie al fatto che cooperiamo, non che si combatte.

Cooperatività richiama anche un tema di RESPONSABILITÀ personale, modalità a cui la società attuale non ci ha educato.

Per cooperare bisogna che ciascuno sappia bene la sua funzione, bisogna responsabilizzarsi, non soltanto come un soldato è responsabilizzato a obbedire agli ordini impartiti dall’alto, ma avendo consapevolezza e la maturità di capire il proprio ruolo all’interno di un sistema più complesso.
Non ci siamo abituati. Da decenni veniamo invitati a sviluppare le nostre doti individuali e competitive, da un sistema anche economico, oltre che culturale, che ci dice che è una buona cosa  quando qualcuno, anche con ogni mezzo, riesce a emergere sugli altri. Le risorse sono poche, il contesto è darwiniano e ognuno di noi è stato incoraggiato a sgomitare nel mondo, ognuno per sè. Oppure bisogna associarsi secondo una organizzazione per ‘bande’ dove stare nel tuo gruppo ti garantisce una maggiore capacità di sopravvivenza e tu sei fedele a quel gruppo contro gli altri.
Ci può essere solidarietà identitaria dentro alle cellule e gruppi, ma l’idea di una cooperazione su larga scala non è stata per niente incoraggiata in questi ultimi decenni.
Rispetto all’evento che stiamo vivendo è evidente che con questo atteggiamento il sistema imploderebbe e neanche tanto alla lunga, se poi lo allarghiamo ai paesi vediamo quello che è capitato in Europa, ognuno pensando alla propria comunità e non a quella dei vicini. Tutto questo dovrà secondo me essere profondamente rivisitato e abbiamo scelto i filtri sbagliati per affrontare quello che ci capiterà di incontrare nel futuro.

Anche la parola ‘PAURA’ assume una funzione diversa a seconda del contesto in cui la si inserisce.

Intanto non c’è niente di male ad avere paura, è normale. Non vedo l’utilità di un atteggiamento eroico di diniego della paura (altra cosa è il panico): abbiamo paura per noi e la nostra famiglia, per il lavoro, per le trasformazioni a livello interpersonale e sociale, per quello che succederà dopo. Nessuno di noi riesce a immaginarsi il mondo dall’altra parte.
Dentro a un contesto guerresco è sbagliato mostrare la paura, bisogna far vedere che cantiamo dai balconi e siam tutti ‘pronti alla morte’. Una paura concettualizzata, riconosciuta a livello planetario, invece, è un punto di partenza, una presa d’atto di qualcosa che ci accomuna. La paura può generare il comportamento individualistico di chi preso dal panico decide mi salvo io si salvi chi può, oppure

se ci si ragiona su collettivamente, la paura può essere trasformata in problema da risolvere insieme

Tutto questo ha anche a che fare con TOLLERANZA e intolleranza? Abbiamo visto il peggio sui social e non solo.

Lì per lì, la situazione ha tirato fuori tutti gli stereotipi e quindi le varie intolleranze. C’era da aspettarsi che succedesse. Dopo di che, di fronte all’evidenza che questa pandemia non fa distinzioni, non vedo molto spazio per lo sviluppo di atteggiamenti intolleranti.
Ci sono due scenari che molti commentatori stanno prospettando sul futuro politico, uno in cui questa situazione dà ulteriore ossigeno a ultranazionalisti e xenofobi; si potrebbe anche fare l’abitudine all’idea dell’uomo solo al comando, qualcuno che ci viene a dire oggi fate questo, domani fate quell’altro, per certi versi è deresponsabilizzante, per alcuni rassicurante.
L’altro scenario, altrettanto plausibile, è quello in cui una forma di centralità statale – si è visto che delocalizzando tutto emergono molti problemi – una sorta di ritorno di idee socialiste potrebbe riproporsi. Ma sto parlando da cittadina e non da analista, dipende anche da quanto saranno convinti e persuasivi coloro che proporranno le varie soluzioni.

Una cosa che dovremmo iniziare a fare subito è ragionare su come ci piacerebbe fossero le cose dopo, cosa vorremmo evitare e cosa, invece, dovrebbe essere il caso di rispolverare.
Una riflessione che non sia l’opinione.
Oggi, appena qualcuno ha uno straccio di ideuccia pensa di doverla subito condividere in maniera anche militante, mentre secondo me questo dovrebbe essere un momento riflessivo in cui si comunica, certo, ma non con i toni soliti a cui siamo abituati. Perché l’incertezza è l’altra condizione inedita in cui ci ritroviamo tutti

in questa incertezza deve cambiare il tono delle comunicazioni: assai più interlocutorie, più attente anche all’opinione discordante

senza che debba essere necessariamente scartata, perché indice di appartenenza a una tribù diversa dalla propria. E magari i nuovi toni con cui comunicare potrebbero essere qualcosa da portarci fuori da questa situazione.
Sui contenuti, ognuno parte da delle idee che aveva prima e cerca di rivisitarle alla luce dei fatti, qui però non è questione di essere convinti ma di rimettere in discussione.
Tutti noi oggi abbiamo la chiara percezione di quanto poco sappiamo, di quanto poco controlliamo ed è molto frustrante, siamo nel mezzo, approfittiamo di questo periodo per pensare di più.

C’è un’altra parola che emerge con prepotenza: DIVERSITÀ

Oggi non è tanto quella etnica, razziale, ma quella dei mezzi economici o culturali. Guardiamo al dibattito sulla scuola, la didattica che i bambini devono fare a casa dà per scontato che ogni famiglia abbia a disposizione una certa quantità di device e che ci siano degli adulti in grado di seguire i ragazzi a casa. Questo è uno degli aspetti che fa capire che la diversità importante è tra chi dispone dei mezzi per affrontare questa emergenza e chi invece non ce la può fare e verrà lasciato indietro. Se non c’è un intervento che compensi il divide tra strati socio- economici, la distanza diventerà infinitamente più marcata, esattamente il contrario di quello che dovrebbe fare la scuola: dare uguali opportunità di partenza.

O ancora, pensiamo alla diversità tra chi si può curare e chi non si può curare. Differenze che emergeranno sempre di più. Dopo questo periodo, uno dei punti su cui si dovrà riflettere sarà non solo come ridurre le diversità di cui si parla sempre, ma anche le diversità strutturali tra ‘chi può e chi non può’.

Leggiamo un’ultima parola… CAMBIAMENTO.

Noi sappiamo che qualcosa cambierà. Tutti dicono ‘non sarà più lo stesso’. Da un certo punto di vista, speriamo che non sia più lo stesso; la sensazione è che questa sia una faglia importante e questo è tipico del trauma.
Per decenni abbiamo vissuto con la sensazione di non avere traumi veri di tipo collettivo. Parlo dell’Europa occidentale, in particolare, dove abbiamo imparato che l’ultimo trauma collettivo è stata la seconda guerra mondiale, tanto è vero che abbiamo continuato a tornare simbolicamente su quella cesura: pensando che non ci riguardasse più di tanto in realtà, addirittura sentendoci, come qualcuno ha suggerito, se non ‘invidiosi’ del trauma, almeno protoplasmi che viaggiavano lungo dei tracciati più o meno stabiliti, mentre quel grande trauma vissuto da altri aveva dato un senso alle loro vite. Questo accadimento invece ha introdotto una idea di cesura temporale: c’è un prima e c’è un dopo, solo che quando sei in mezzo il dopo non sai come sarà, puoi soltanto sperare, immaginare, augurarti o temere. Anche perché non si sa neanche quando sarà ‘il dopo’.


Oggi, quali sono le parole più utili per lei?

Siamo troppo dentro quello che sta accadendo, mi ripeto, in questo momento sono quelle delle persone che sento e che mi dicono che stanno bene.

‘Per ora tutto ok’, quelle sono le parole che adesso fanno piacere


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Oltre 30 anni di esperienza nel mondo del giornalismo e della comunicazione aziendale; da oltre 5 anni è consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo della persona attraverso strumenti a mediazione artistica espressiva.

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