Matilde Lauria è una judoka paralimpica italiana, unica atleta sordocieca a partecipare alle Paralimpiadi di Tokyo 2020 e Parigi 2024. Nata nel 1966 a Napoli, Matilde ha iniziato a perdere la vista a soli 3 anni a causa di una grave malattia oculare, diventando completamente cieca intorno ai 30 anni. In seguito, ha anche perso l’udito. Nonostante queste sfide, Matilde ha trovato nello sport, in particolare nel judo, una via di riscatto e inclusione. Ha iniziato a praticare il judo grazie al figlio e al maestro che la spronò a salire sul tatami, disciplina che le ha permesso di sentirsi uguale agli altri.
Con il supporto della Lega del Filo d’Oro, un’organizzazione che si occupa di persone con sordocecità, Matilde ha imparato a comunicare attraverso metodi come la LIS tattile e il sistema Malossi, che utilizza il tatto per la trasmissione di informazioni. Grazie a queste tecniche e alla sua forza di volontà, ha vinto medaglie in competizioni internazionali e ha sfidato gli avversari nonostante le sue disabilità sensoriali.
Attraverso il tuo percorso, nel corso degli anni, com’è cambiata la percezione dei sensi del mondo intorno a te? In che modo la racconteresti a qualcuno che, come il sottoscritto, ti pone una domanda di questo tipo?
Sono nata ipovedente, successivamente sono diventata cieca e poi sorda. La sordità è cominciata tredici anni fa. Ho lavorato moltissimo su un modo di percepire le cose e capire il mondo intorno a me. Non è stato facile, occorre una grande forza di volontà ma non mi sono lasciata prendere né dallo sconforto né dal fatto di non potercela fare. Ho avuto la fortuna di avere un padre che mi ha sempre incoraggiata, non ha mai fatto pesare la mancanza della mia vista e ha sempre cercato di infondere ciò che era positivo in me, per far sì che non mi abbattessi mai.
Ho lavorato molto sulla percezione sulle vibrazioni e sui messaggi che venivano mandati intorno a me. Ho cercato di acchiappare tutte le positività che mi giravano intorno. Ovviamente, erano presenti anche le negatività ma ho lavorato anche su quelle.
Hai accennato all’importanza delle persone che ti circondano, come tuo padre.
Purtroppo, la società non ti aiuta, assolutamente. Soprattutto quando hai una doppia disabilità tendono ad isolarti. In particolare, la sordocecità viene vista come qualcosa di lontano. Quando ti rapporti con una persona che non vede e non sente è difficile comunicare, a meno di riuscire a mettersi alla pari, cercando di comprendere chi hai davanti. Per esempio, quando tolgo la protesi per combattere sul tatami sono da sola: non posso avere suggerimenti e non posso essere aiutata, perché dall’altro lato non c’è una persona che capisce il mio linguaggio. In genere, sono sempre io a mettermi nei panni dell’altra persona e cercare di fare in modo che loro mi capiscano.
Aprirsi alla vita
È molto importante che ci siano informazioni e che la famiglia supporti, senza avvilirsi né tantomeno, per paura di qualcosa, chiudersi e non far vivere la persona disabile con il suo modo di essere. I genitori devono essere i primi spronare i propri figli, anche se si ritiene che si sia in presenza di una disabilità impossibile. Non esistono disabilità impossibili.
Dico sempre che la disabilità non va combattuta ma va vissuta. Purtroppo, con la burocrazia occorre proprio combatterla, perché molte volte non sei supportato, sei senza mezzi e devi sempre combattere per ottenere dei risultati.
Ho letto una tua dichiarazione in cui spieghi che per te il successo non è tanto una medaglia ma la capacità di andare avanti. Vorrei sapere come ti rapporti, anche in relazione alla tua disabilità, a questa società in cui si parla sempre di performance, vittoria o sconfitta, bianco o nero.
Penso che lo sport sia un mezzo ottimale per cercare di rendere l’inclusione alla pari. Lo sport mi ha trasmesso tantissimo perché ho cercato di esprimere me stessa attraverso lo sport. Non mi interessava vincere ma dare un messaggio, una forma di resilienza. Far capire che ci sono, sono come voi ma in modo differente. Pratico le stesse cose che praticate voi in un modo diverso ma se ci rapportiamo, dal punto di vista dei risultati, è uguale. Ci sono voluta essere a tutti i costi.
Ho voluto mandare un messaggio a tutte quelle persone che si avviliscono, come capita a molti ragazzi che pensano di non farcela. Io non dico ‘posso’ io dico ‘voglio’. C’è una grossa differenza. Dire ‘posso’ significa auto-escludermi automaticamente. Se dico ‘voglio’ io non mi escludo, mi metto in gioco. Un gioco di parole che vuol dire tantissimo, nella società di oggi.
Hai mai trovato difficoltà nel far capire alle persone come tu percepisci il mondo intorno a te?
Non la pensiamo tutti allo stesso modo. C’è chi parla di ‘persone speciali’ ma in questo modo hai già etichettato una persona, una disabilità. Invece, si tratta di persone che si mettono in gioco. Le disabilità non dovrebbero essere chiamate disabilità ma condizioni, perché la disabilità è dappertutto, anche in coloro che hanno un esaurimento nervoso o non riescono a rapportarsi con la vita. La disabilità è una condizione.
Ognuno la vive a proprio modo. Nel Villaggio Paralimpico sembrava tutto facile. Ci salutavamo, scherzavamo. Non sembravamo persone che portavano con sé una condizione di disabilità. Riuscivamo a rapportarci e capirci. Forse perché, anche se le singole problematiche erano diverse, eravamo uguali.
Quando si parla di disabilità si usa spesso la retorica del ‘super uomo’ o della ‘super donna’. Secondo te c’è anche un modo diverso di raccontare le vostre storie? Come ti rapporti con questa narrazione?
Il mio percorso non è stato facile, convivendo con la sordità oltre che con la cecità. Quand’ero piccola non era come oggi, c’erano diverse difficoltà in più. Ai miei tempi, la disabilità veniva recepita in maniera più tragica e complicata. Ho dovuto cominciare da zero e lottare per inserirmi. Mi sono fatta spazio ma non mi vedo così e non mi sento come una ‘super donna’. Mi sento una donna che riesce ad esprimere il proprio Io in modo diverso. Non significa che, essendo cieca e sorda, ho dei poteri, perché quello che abbiamo tutti ce l’abbiamo tutti. Se manca improvvisamente un senso così come un piede, una gamba o un braccio noi diamo il meglio o il peggio di noi, in base alla natura umana.
Comunicare quello che si ha dentro
È il modo in cui ci si mette in gioco. Io mi sono messa in gioco, ho voluto puntare sul mio modo d’essere. Il mio carattere era quello, l’ho tirato fuori anche grazie a mio padre che mi spronava. Dipende dal modo in cui una persona si mette in gioco, cosa vuole comunicare e in che modo far sapere agli altri che non è impossibile. Mi sento una persona che è riuscita a comunicare quello che aveva dentro. Voglio comunicare agli altri il mio mondo così. La differenza rispetto agli altri è che io faccio molta più fatica.
L’intensità con la quale tu percepisci il mondo l’hai ritenuta più un limite oppure il contrario?
Dalle cose negative cerco sempre di ricavare le cose positive, anche da quelle più tragiche. Ho sempre cercato di tirare fuori il meglio e di sopravvivere per me stessa. Io il mondo lo vedo a modo mio e non come gli altri, cerco sempre di metterci un po’ di fantasia, di arricchirlo, perché le cose brutte ci sono. Se non lo arricchissi nel mio modo, come lo vedo io, sarebbe una tragedia. Dall’altro lato vedo l’affannarsi contro le persone deboli. Se dovessi fare una panoramica vedrei più cose brutte di quelle belle. Proprio per questo motivo cerco sempre di condire il mondo con la mia fantasia, il mio modo di essere, anche se nella realtà non è così. Mi fornisce la forza per cercare di essere sempre positiva perché le cose negative non le puoi arginare. Se posso sollevare le cose brutte cerco di sollevarle.
Ciò non toglie che io stessa ho pianto, ho sofferto, ho avuto paura. Tutto ciò che hanno gli altri ce l’ho anch’io, però cerco di farmi conoscere, viaggiare nel mondo per far capire qual è la mia disabilità e quali sono le mie difficoltà, le mie gioie e le mie tristezze. Se io non mi faccio conoscere, nessuno può capirmi.
Lo sport viene sempre associato alla parola riscatto, in questi casi. Ti chiedo a quale altra parola lo assoceresti. Cos’ha rappresentato lo sport nella tua vita?
Lo associo a tante cose. Mio padre amava molto lo sport perché ti conferisce un equilibrio, un’apertura mentale, un’educazione. A me ha dato tanto. Ho tre figli e tutti e tre praticano sport. Io sono stata una sportiva sempre, anche quando non praticavo sport. Sono sempre una sportiva e mi sento una sportiva per 365 giorni l’anno. Non si è mai concluso il mio mondo sportivo, anche mentalmente. Lo sport della vita, che oltrepassa la concezione dello sport vero e proprio, riesce ad unire anche in famiglia, quando ci sono problemi. Inclusività in tutto, come forma di vita.
Ti sei mai sentita o ti hanno mai fatta sentire un punto di riferimento, in relazione al tuo percorso? In quanto donna, oltre che persona con disabilità, hai percepito un carico maggiore da questo punto di vista?
Da donna mi sono sentita incaricata di portare qualcosa, perché essere donna e fare sport, soprattutto quand’ero piccola, non era facile, ti facevano sentire tutto il peso del mio genere, nascendo in un contesto quasi esclusivamente maschile. Oltretutto, essere donna disabile in un mondo maschilista era molto complicato. Mi sono ispirata a tante persone, in primis mio padre, che praticava il pugilato. Io provengo da una famiglia di otto figli, sono la secondogenita e l’unica con queste problematiche. Ad un certo punto della mia vita ho ammirato e ammiro tanto Alex Zanardi, che considero il mio idolo, per la sua forza e la sua determinazione.
Perché il judo?
Portai mio figlio Marco, quando aveva due anni e mezzo ed era già molto alto, al campo per fare basket e invece lui scelse il judo. Da quel momento praticò sempre il judo e verso i dodici/tredici anni il maestro mi chiese di provare perché mi vedeva strutturalmente forte. Cominciai per gioco e mi sono appassionata. All’epoca non ero ancora sorda e mi sembrava uno sport adatto a me. Poi dodici anni fa diventai sorda e dovetti ricominciare da capo. Ma il judo era comunque lo sport fatto su misura per me.