Il clima è un argomento caldo. Durante questi giorni di Cop26, la conferenza delle Nazioni Unite tenutasi a Glasgow in cui i leader della politica e della finanza globale si sono riuniti nel nome della lotta al cambiamento climatico, da più voci è suonato l’allarme ‘non c’è più tempo’, mentre tra promesse green e accordi internazionali emergevano non poche contraddizioni.
Da Hong Kong, dove vive da quasi 10 anni, Valentina Giannella, giornalista, fondatrice dell’agenzia Mind The Gap, e autrice del bestseller tradotto in 18 lingue e distribuito in 28 Paesi Il mio nome è Greta e dei successivi titoli Green Nation Revolution e Il nuovo razzismo, ci offre una visione su come si stiano muovendo Governi ed economie sul terreno della sostenibilità.
“L’ambiente è sempre stato nel mio dna – dice -. Ho cercato di trovare parole per raccontare qualcosa di molto semplice, ma che viene reso complicato da tutte quelle sovrastrutture politiche ed economiche che in qualche modo imbrigliano le soluzioni”.
Che cosa sta succedendo al nostro pianeta?
Stiamo capendo ciò di cui all’inizio del secolo scorso si era reso conto il bisnonno di Greta Thunberg, Arrhenius, che nel 1903 ha ricevuto il premio Nobel per aver collegato l’aumento dell’anidride carbonica con la temperatura (fu tra i primi a studiare l’effetto di CO2 sul clima globale ndr). Dall’inizio della rivoluzione industriale abbiamo alterato l’equilibrio di immissione di gas serra rispetto a quanto la terra ne può assorbire. Quel sistema di riscaldamento che ha reso possibile la vita sul pianeta, adesso sta rischiando di diventare il nostro peggiore nemico.
I leader politici accendono i riflettori sul clima con parole di alta tensione emotiva. “L’apocalisse climatica è ormai vicina” (Primo ministro Inglese Boris Johnson) o “Il clima è ormai un’emergenza come il covid” (Roberto Cingolani, ministro per la Transizione Ecologica in Italia), per citarne alcuni. È proprio così?
Sì e no. Stiamo già vivendo gli effetti del cambiamento climatico, quello a cui si riferiscono questi proclami sono previsioni. World Bank, che ha l’obiettivo di organizzare i finanziamenti per combattere la povertà e la fame nel mondo, ha previsto che entro il 2050 ci saranno milioni di migranti climatici, che andranno a rompere o a stressare ulteriormente gli equilibri sociali globali. Questo preoccupa la politica oggi: invertire un trend mondiale ed evitare un aumento delle tensioni sociali dovute a uno sfruttamento delle risorse in modo non omogeneo. Il cambiamento climatico sta rendendo più evidenti questi disequilibri. Vogliamo chiamarla apocalisse? È anche il vizio dei giornalisti tirare fuori le parole che fanno più effetto, in realtà si tratta di una catena d’eventi – il famoso battito della farfalla a New York che causa il terremoto a Tokio – che ci fanno capire che siamo tutti connessi e che il cambiamento climatico è una pallonata che sta andando a colpire una serie di certezze che ormai i Paesi non hanno più.
È la chiave giusta utilizzare parole che fanno muovere la paura?
Gli adulti sono impermeabili se non refrattari ai claim sensazionalistici. Primo, per un motivo molto semplice: considerano inconsciamente di non essere presenti quando tutto questo succederà. In secondo luogo, c’è una sorta di ‘coda di paglia’: ‘State dicendo che finora non abbiamo fatto niente?’. Per le nuove generazioni c’è invece l’’ansia climatica’: ‘Cosa sta succedendo? Cosa sarà di noi?’.
Probabilmente la soluzione è spiegare dati scientificamente accurati nel modo più semplice, offrendo soluzioni raggiungibili. Sul metano, ad esempio. Il fatto che una nazione come l’Australia non abbia aderito al piano per ridurre le emissioni di metano perché non vuole mettere in ginocchio una delle proprie industrie principali, il farming, l’allevamento di ovini e bovini, può portare a una riflessione sul cambiamento della dieta. È un’occasione per aiutare le persone a modificare le proprie abitudini in modo non traumatico, spiegando il perché possono fare la differenza. È vero che la finanza può spostare grandi capitali e indurre le aziende a cambiare la propria strategia, ma se non cambiamo le nostre abitudini nel nostro piccolo tutti insieme, anche l’economia si scontrerà con interessi più grandi.
In quest’ottica già è stato annunciato che i social si sono mossi per fermare la disinformazione sul clima. Rispetto a una logica di controllo, si dovrebbe secondo lei invece agire su una maggiore consapevolezza degli individui e dei gruppi?
Mi viene da citare un film cult degli anni ’70, Frankstein Junior, nella celebre frase ‘Si può fare!’. La chiave è quella. Il chi fa cosa deve essere applicato a tutti i livelli: politico, economico, finanziario ma anche personale. Bisogna trovare le fonti giuste. I ragazzi devono fare il lavoro dei giornalisti e scegliere le notizie senza lasciarsi guidare dall’algoritmo che si nutre di ansie e restituisce paure. Le fonti autorevoli possono essere quelle dirette. Pochi sanno, ad esempio, che la Nasa ha un database molto ricco sul clima e ha delle pagine dedicate ai ragazzi.
Durante Cop26 Karine Elharrar, ministra dell’Energia in Israele, non ha potuto partecipare alla prima giornata del summit perché il luogo in cui si svolgeva la conferenza era inaccessibile per le troppe barriere. Una contraddizione se si pensa al contesto di un evento dedicato alla sostenibilità…
La sostenibilità è come un fiume. Per andare dall’altra parte possiamo mettere delle pietre che ci consentono di guadare il corso d’acqua. Questi sassi sono i Sustainable Development Goals, 17 obiettivi che l’ONU ha definito per avere un sistema olistico e risolvere i problemi del mondo. Per un evento come Cop26 puoi immaginare quanti elementi devono essere considerati per soddisfare la coerenza con ciascuna di queste pietre. Per quanto sia disdicevole, un granello del sistema non ha funzionato in quel momento. Peggio è stato, a mio avviso, quando durante il summit di Davos la stampa ha tagliato fuori dalle foto una degli attivisti, Vanessa Nakate, perché non era ancora conosciuta (Qui l’intervista a Federica Gasbarro, attivista di Fridays For Future).
La Cina e la Russia hanno dichiarato di traguardare l’obiettivo della neutralità delle emissioni di CO2 all’orizzonte del 2050, ma l’India ha annunciato di fissarlo al 2060. C’è una spaccatura ancora forte tra Occidente e Oriente, anche in termini di bisogni e produzioni?
La spaccatura più che tra Oriente e Occidente è a livello di alcuni Paesi. Non dimentichiamoci che fino alla nuova presidenza di Biden anche gli Stati Uniti si erano addirittura ritirati dal Cop21 di Parigi. L’Asia sta crescendo esponenzialmente, anche durante il covid lo ha fatto, quindi la problematica è: come si sostiene questa crescita? Come si fa sì che la produzione e il consumo continuino? La Russia difende ancora una old economy. L’India è un Paese a sé, altamente sviluppato per certi aspetti, sottosviluppato per altri. In Cina ci sono nuove legislazioni di controllo per la parte ambientale e di compliance per i diritti umani su tutti i 17 punti dell’ESDG (Eucation for the Sustainable Development Goals). Durante la conferenza sulla biodiversità che si è tenuta a Kunming prima di Cop26, più che a risultati pratici si è arrivati a conclusioni simboliche: la Cina non fa niente a caso. C’è un’intenzione di andare in quella direzione.
21 Paesi firmatari, tra cui anche l’Italia, nell’accordo di Cop26 per impegnarsi a interrompere i finanziamenti che investono in combustibile fossile. Come si traduce questo sul piano politico?
È una misura che aspettavamo da tempo, ma anche tra le più difficili da applicare, perché ci sono Paesi come la Svezia che risultano in alto nel posizionamento climatico e che ancora investono in combustibile fossile. È un bene che si cominci, poi sarà compito non solo degli attivisti ma della stampa di tutto il mondo andare a fare nuove inchieste e reportage per capire dove finiscono i soldi in questi campi.
Sul piano economico: durante Cop26 la finanza si è impegnata con un accordo scritto a tagliare le emissioni di co2 e a fare la propria parte nella lotta al cambiamento climatico. Ci sono grandi interessi.
Mi viene da spezzare una lancia a favore dell’Asia. È un dato interessante, che i principali investitori asiatici abbiano una media dal punto di vista anagrafico più bassa dal resto del mondo. Sono giovani imprenditori o seconde generazioni di grandi imperi che hanno idee chiare su dove investire, hanno quasi tutte per esempio il mandato sugli ESG (Per approfondire qui l’intervista sugli ESG). Questo non ha fatto altro che aumentare la domanda di questi prodotti finanziari.
L’Italia ha annunciato nell’ambito di Cop26 la nascita di Global Energy Alliance for People and Planet, un programma di collaborazione pubblico e privato, per accelerare sulla transizione energetica. Sono presenti 450 gruppi della finanza privata. Si tratta di un fondo da 10 miliardi per emergenza clima che vuole arrivare a 100. Governi e privati si uniscono sotto l’ombrello dell’ambiente.
Faccio un esempio. La settimana scorsa al Nasdaq si è quotato AllBirds, un marchio di sneakers americano nato 6 anni fa come sostenibile, sin dal posizionamento. Un brand che è stato in perdita da quando è nato, ha fatto la quotazione e ha preso 4 miliardi di dollari americani. Chi ha acquistato non lo ha fatto sulla base di una proiezione finanziaria relativa alle performance, ma perché la domanda di questo tipo di prodotti ormai è superiore all’offerta.
Tutto è green ormai, anche nella narrazione. Dal punto di vista della comunicazione le imprese come possono colorare questa parola di autenticità?
Cominciare un percorso di sostenibilità è un po’ come andare dall’analista: per migliorare te stesso, devi conoscere te stesso. Il modo migliore per non fare greenwashing è capire chi si è. Prima di comunicare, bisogna fare un’autoanalisi. Si parte da ciò che si definisce ‘baseline assessment’, tramite cui si comprende l’azienda chi è, quanto consuma, che impronta ha, quali sono i problemi principali rispetto all’impatto ambientale e alle questioni sociali. Poi bisogna definire una roadmap e il tempo necessario a raggiungere gli obiettivi. Nel momento in cui tutti sono allineati su un percorso comune, entrano in ballo il marketing e la comunicazione. Si può parlare delle intenzioni, ma bisogna sempre dimostrare in modo trasparente chi siamo, dove vogliamo andare e come lo vogliamo fare.
“Tutti noi abbiamo un’origine comune, siamo tutti figli dell’evoluzione dell’universo, dell’evoluzione delle stelle, e, quindi, siamo davvero tutti fratelli”. La scienziata Margherita Hack ha raccontato l’umanità riconducendola a un’unica origine. C’è una prospettiva per vivere insieme in questo pianeta?
L’unico modo per cercare di vivere insieme in questo pianeta è considerarlo una casa comune, le azioni di tutti influiscono sulla vita degli altri. È un concetto che appartiene alla maggior parte delle religioni, ma è profondamente vero.
Giornalista, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi attraverso strumenti a mediazione espressiva. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.