L'economista Clara Mattei sui beni comuni
Clara Mattei

I beni comuni appartengono a tutti. Per creare vita e relazioni solidali

Il concetto astratto diviene valore concreto quando si parla di beni comuni.
“È ciò che non può essere espropriato né da parte del mercato, né da parte dello Stato, ma appartiene ai cittadini”.
A indicarci la strada verso un mondo in cui le risorse necessarie devono essere accessibili a tutti è Clara Mattei, economista, azionista di Generazioni Future e Assistant Professor al dipartimento di Economia della New School for Social Research di New York. 

Da Aristotele ad Antonio Genovesi, sono tanti i filosofi e pensatori che si sono dedicati allo studio dei beni comuni, intesi come possibilità per l’uomo di vivere dignitosamente e sviluppare a pieno il potenziale umano. L’acqua, la salute, la cultura, l’informazione plurale, le relazioni sociali, la Costituzione: elementi che fanno parte della nostra quotidianità e che appartengono a ciascuno individuo e alla collettività.  

“Occorre interpretare il presente e non dividerci anche faziosamente. Viviamo in una società in cui ciò che è fondamentale per tutti ci è tolto, per cui uniamoci e muoviamoci contro un sistema che ci opprime ormai da secoli”.

Clara ha sorriso accogliente e occhi perspicaci. La sua è una voce appassionata e forte, che prende posizioni politiche nette, critiche se non in contrasto con quello che è il sistema dominante. Il suo essere ricercatrice si mescola all’anima attivista. In più di un’occasione fa riferimento a un mondo diverso, ma rifugge l’idea di utopia: “Certo è un piano ambizioso, che possiamo attuare concretamente passo dopo passo”.  

Che cosa si intende per bene comune? 

Credo che i beni comuni siano un nuovo paradigma per leggere il presente, la possibilità di cambiamento della società oggi. I beni comuni siamo noi, sono risorse a cui tutti possono accedere. A partire dall’acqua, il primo grande successo in questo ambito è stato il referendum con cui è stata tutelata il suo essere pubblica nel 2011. Per bene comune si intende tutto ciò che appartiene all’umano nella sua concretezza e nella possibilità di creare vita e relazioni solidali. 

Con la nascita e lo sviluppo del capitalismo odierno avvenuta nel 1004 in Inghilterra, anno in cui è datato il movimento della chiusura dei Commons, il Parlamento inglese deliberò leggi che implementarono il concetto di proprietà privata chiudendo i beni comuni e privatizzando quello che prima era della collettività. La maggioranza degli abitanti della zona erano ‘free farmers’ (liberi agricoltori ndr) e avevano accesso a terre che appartenevano a tutti, che da un momento all’altro furono chiuse e rese disponibili a pochi. 
La maggioranza dei contadini è diventata quello che Marx definì ‘lavoratore libero’, non più soggetto a un signore feudale che imponeva di lavorare per lui, politicamente uguale di fronte alla legge, senza alcunché al di fuori di sé da vendere sul mercato. 

Cosa è cambiato? 

Con i beni comuni la società non era basata su transazioni in moneta e non esisteva l’idea di lavoro salariato. Adesso siamo tutti dipendenti dal mercato. Lo Stato che storicamente nasce con il mercato non è mai stato davvero in opposizione a forme di espropriazione dei beni comuni, ma ha sempre collaborato alla loro messa in atto. Esiste una falsa opposizione Stato – mercato, che anzi vanno a braccetto, poiché lo Stato vive sulle risorse che derivano dalle transazioni di mercato che poi risultano dalle tasse che paghiamo, alimentando una visione che ci opprime e che stritola la vitalità umana. L’idea è iniziare a pensare a come essere molto creativi e a come cambiare la nostra società. 

Il bene comune è un concetto che parte da lontano. Ne parla Aristotele che considera “beni” i fini che l’uomo persegue nel suo agire, tra i quali il più alto è la costruzione della polis, la città. I romani hanno parlato di res publica e ancora oggi è condiviso che il bene comune dovrebbe riguardare il fine della politica. 

Parte del progetto del movimento dei beni comuni è elevare la politica e farla tornare a quello che si intendeva una volta: occuparsi della ‘polis’ e avere a cuore le sorti di chi ci circonda. Purtroppo, la politica viene letta come qualcosa che riguarda un ristretto gruppo di parlamentari che litigano fra loro, invece ha un significato molto più ampio che deve riguardare tutti. Le persone sono restie, non si fidano della politica. 

Con Generazioni Future, società Cooperativa di mutuo soccorso intergenerazionale, avete la missione di promuovere la difesa e la valorizzazione dei beni comuni. Come si traduce la vostra attività nella pratica?

Generazioni Future è organizzata con una grossa intuizione: è un soggetto economico, oltre che politico. Si può diventare azionisti con una quota abbastanza simbolica che va dai 5 ai 30 euro, più azionisti ci sono più l’organizzazione ha un potere economico, nel senso che può fare delle azioni che farebbe altrimenti una compagnia privata. La società può comprare beni e agire, non come un soggetto privato a scopo di lucro, ma avendo al suo interno un’organizzazione politica si muove per un bene comune che viene organizzato democraticamente. Un po’ come il Consiglio di fabbrica di Gramsci o il consiglio di vicinato attivo ora in Cile. 

Generazioni future difende la Costituzione come bene comune e l’attuazione dei suoi principi. In questo periodo di emergenza sanitaria ci sono state secondo lei situazioni di criticità in tal senso? 

Ho la fortuna di avere tra i miei avi la prozia Teresa Mattei, la più giovane membra dell’Assemblea Costituente. Teresa si battè per la parità di genere e fece introdurre nell’articolo 3 il principio secondo cui siamo uguali di fatto. Fu una partigiana, lottò per la liberazione, pur soffrendo molto: suo fratello si suicidò in carcere dopo essere stato torturato perché non voleva arrendersi ai fascisti. Portò un grande contributo alla Costituzione italiana, che fu il frutto di enormi battaglie da parte di tantissimi cittadini che credevano in un futuro più dignitoso per gli italiani. L’attuale momento storico è estremamente preoccupante. Bisogna fare molta attenzione a questi stati di emergenza, che possono portare a un sopruso di potere da parte dell’esecutivo, che molto spesso non segue i dettami della Carta fondamentale della nostra società. 

Penso sia ancora forse più problematico quello che sta accadendo a livello economico. Per lavoro mi occupo di ricostruire le origini dell’austerità moderna, che dagli anni ’80 ha caratterizzato moltissimo la nostra società. Tutte le politiche economiche, fatte dal centro sinistra o dal centro destra, hanno teso a espropriare i più a favore dei pochi. Lo Stato interviene con varie misure come il taglio alla spesa pubblica, ovvero con risorse tolte al sociale e riutilizzate per pagare i debiti a loro volta detenuti da creditori internazionali e da elite mondiali. Queste misure non tutelano il lavoro, al contrario lo depauperano. Con l’idea di attrarre capitali esteri e di essere più competitivi si punta a un lavoro flessibile, gli stipendi si abbassano e si tolgono una serie di diritti che nella storia italiana sono stati acquisiti con durissime battaglie

Da questo punto di vista la cosa che mi preoccupa è che l’austerità con la crisi covid non sia passata.
Benito Mussolini quando fu chiamato dal re a governarci chiamò a sé i più importanti esperti economici dell’epoca. Anche se Luigi Einaudi non partecipò attivamente al gabinetto ne sostenne l’attività. Il nostro Primo Ministro Mario Draghi, come Einaudi, fa parte del filone di economisti neoclassici che hanno mantenuto saldo il potere negli anni 80.
Tra i beni comuni c’è il lavoro, che sia dignitoso e creativo, non certo quello che offrono le multinazionali che vengono a investire in Italia. 

Il digitale bene comune che unisce e al contempo separa… 

Per tante aziende conviene puntare sul digitale, perché si tagliano i costi, e oltre tutto si depoliticizzano le persone. Un lavoratore che sta a casa davanti al computer non ha un senso di appartenenza di gruppo e di classe e difficilmente chiederà un miglioramento delle proprie condizioni professionali e di vita. Così inteso il digitale è uno strumento per indebolire il lavoro. La lotta di classe in questo periodo storico è più che mai attuale (su ‘Ricostruzione’ e lavoro un report di Deutsche Bank ). Anche il Recovery Fund che sembra ispirarsi a politiche keynesiane ed espansive risponde al trend di togliere ai tanti per dare ai pochi, ricalcando l’idea di crescita associata a un imprenditore che investe e porta ricchezza. Con i beni comuni si ritorna al Gramsci dell’Ordine Nuovo. Chi è che porta valore? La comunità dei lavoratori. Bisogna tutelare le condizioni affinché ci siano dei lavori che creino valore non astratto e mercificato, uscendo dalla trappola di dipendenza dagli investimenti esteri. 

Economia e beni comuni: la trasformazione culturale

Ci vuole una trasformazione culturale. Bisogna capire che l’economia non è una, ci sono più modelli economici. Il dominante è quello che giustifica il sistema attuale. Esistono una pluralità di teorie economiche, qualcuna è molto più evolutiva di altre. La rivoluzione culturale deve avvenire al di fuori degli istituti universitari, deve essere accessibile al cittadino comune. Negli ultimi mesi a Torino mi sto impegnando a creare comunità dal basso con la lista civica Futura. Torino potrebbe essere un progetto pilota. 
Il movimento dei beni comuni prende forme creative e abbiamo pensato avesse senso trasformarlo a livello di rappresentanza locale, perché le istituzioni del territorio sono le prime a influenzare il nostro modo di vivere. L’idea della lista civica è di creare un movimento culturale trasformatore di consapevolezza. 

Quanto conta un pluralismo informativo per una diffusione della conoscenza comune? 

L’informazione come bene comune ci è stata sottratta da molto tempo. Questo lo viviamo anche con Futura e con la censura che subiamo da parte di molta stampa. Abbiamo avuto attacchi frontali, la cosa triste è che i giornali invece di informare hanno l’interesse a disinformare. La nostra battaglia è ancora più dura. 

A proposito di sanità, anche la salute è da intendersi come bene comune. A questo proposito qual è il punto di incontro, se c’è, tra la salute collettiva e il diritto alla libertà individuale?  

Secondo me dipende da come si interpreta l’idea di salute collettiva. Se il comune e il pubblico non venissero identificati con la forza dello Stato, che quindi può imporre sul singolo priorità che sono decise a tavolino da pochi individui, che non hanno un’idea di politica in senso ampio e che fanno interessi economici a livello nazionale e internazionale, se la salute pubblica è questa, cioè una decisione presa dall’alto, c’è una contraddizione enorme. 
Se ci fosse un’idea di salute pubblica come bene comune in cui non esista più l’individuo separato dall’alto, saremmo tutti connessi, e la tutela individuale avverrebbe se tutelata la collettività. 
Chiaramente questo è sintomatico di come la nostra società ci abbia ridotto a individui consumatori: c’è lo Stato che decide per noi, altri individui dispongono per noi e costoro non hanno nessun interesse a difendere quello che è di tutti. Se invece riprendessimo in mano un’idea di politica nel senso ampio in cui siamo noi che scegliamo tantissime contraddizioni attuali scomparirebbero. 
Non mi piace l’idea di utopia, certo è un piano ambizioso, che possiamo attuare concretamente passo dopo passo. Le trasformazioni storiche sono state tantissime, non c’è fine della storia, bisogna imparare, capire cosa sia successo in passato per poter cambiare il presente.  

Il filosofo ed economista Antonio Genovesisul senso dell’Economia del Bene Comune affermava: “La felicità o è pubblica o non è, poiché la ricchezza creata contro gli altri produce malessere per tutti”. In questo caso come regolare una finanza speculatrice? 

Torniamo a delle cose fondanti della nostra società contemporanea. Il modello di economia capitalistica non produce ricchezza per la felicità, ma a scopo di profitto. Si creano beni e servizi a scopo di guadagnare economicamente più di quanto si è investito. La felicità non è proprio calcolata.


Bisognerebbe ricambiare tutto dalle fondamenta e immaginare un modello economico che sia a servizio delle persone e non le persone a servizio dell’economico

Significherebbe ribaltare le priorità. Non è un’utopia, ma una riflessione verso un modello economico in cui possiamo vivere dignitosamente e utilizzare gli strumenti economici per i nostri fini. 

Ubuntu è una parola dell’Africa sub-Sahariana che potrebbe tradursi in ‘io sono perché noi siamo’. Tornando al concetto di bene comune e felicità: quella del singolo è parte della felicità di tutti. Non si può essere felici da soli.

Se si partecipa a questi movimenti che si occupano delle cose degli altri si scopre che la felicità assume un significato nuovo. Non si tratta di divertimento e comfort, ma tornando ad Aristotele, l’uomo è un animale politico e la felicità in senso pieno è quando si sente che quello che si fa ha significato anche per l’altro. In quel caso si trova un senso profondo in pensieri, azioni e nel cambiamento per una volontà comune. La felicità dovrebbe essere qualcosa che arricchisce, non solo in termini materiali. 

Intervista di Serena Adriana Poerio

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Giornalista, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi attraverso strumenti a mediazione espressiva. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.

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